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Capitolo 34

D. Bosco chiede favori per i suoi chierici al Vicario Capitolare e al Canonico Rettore del Seminano di Torino - Va a Mirabello. - Un alunno gravemente infermo - Una scomparsa inesplicabile di D. Bosco - La legge della soppressione degli Ordini religiosi e la confisca dei beni ecclesiastici è approvata dal Parlamento - D. Bosco invita i religiosi dispersi e bisognosi ad accettare ospitalità nelle sue case.Per causa della guerra si erano chiuse le Università e tutte le altre scuole pubbliche anticipando gli esami. D. Bosco però fece dare gli esami nell'Oratorio nel tempo stabilito e studiò di tener presso di sè nelle vacanze quel maggior numero di alunni che gli era possibile, anzi ne accettava qualcuno novello raccomandato dalla Prefettura di Torino. Non ostante le sue strettezze finanziarie, le scemate ordinazioni di certi lavori, la partenza per l'esercito di alcuni capi di laboratorio, tutti gli artigianelli ebbero pane ed occupazioni, anche perchè la fabbrica della chiesa esigeva l'opera dei fabbri ferrai e dei falegnami.


Capitolo 34

da Memorie Biografiche

del 06 dicembre 2006

 Ma il Servo di Dio doveva provvedere anche ai chierici pei quali occorrevano spese maggiori. Oltre a quelli che erano ascritti alla Pia Società, altri ne manteneva gratuitamente da più anni l'Oratorio, i quali facevano i loro studi per aggregarsi, fatti preti, al clero delle loro diocesi e appartenevano a famiglie povere: ed altri D. Bosco ne aspettava dal Seminario, i quali, finito l'anno scolastico e non avendo parenti che li mantenessero, si erano raccomandati alla sua carità pel tempo delle vacanze. Per tutti chiedeva qualche aiuto al Vicario Capitolare.

 

Ill.mo e Rev.mo Monsignore,

 

La diminuzione delle vocazioni allo stato ecclesiastico e il bisogno di buoni sacerdoti sono due cose talmente sentite che non occorre parlarne. Egli deve perciò interessare tutti, ma specialmente i membri del Clero, a darsi sollecitudine per ovviare a questo bisogno. Io pure nella mia pochezza, spinto dal desiderio di fare quel che posso, ho scelto alcuni giovanetti che per ingegno e bontà di costumi facevano sperar buona riuscita e li posi a studiare il latino. L'aspettazione fu appagata e da qualche tempo ogni anno ho la consolazione di presentare un certo numero di candidati all'esame della vestizione clericale. Alcuni sono già Sacerdoti. Dagli esami e dalla condotta tenuta in tempo del clericato il Superiore Ecclesiastico può giudicare che le speranze non furono deluse. Questi giovani essendo per la maggior parte poveri, ho dovuto finora ricorrere alla carità di privati benefattori che attualmente non potrebbero continuare la loro beneficenza, onde mio malgrado sarò nella necessità di desistere dalla coltura di una sessantina di giovanetti la cui età, ingegno, indole e costumi lasciano sperare ottima riuscita per lo stato ecclesiastico.

Per questo motivo mi sono rivolto a V. S. Ill.ma e Rev.ma, pregandola umilmente, ma con tutta l'effusione dell'animo, a voler prendere in benigna considerazione questo bisogno e venire in mio aiuto affinchè io possa provvedere ai chierici che ivi prestano la loro assistenza, ai maestri che insegnano, ai giovani che o in tutto o in parte hanno bisogno di sovvenzione.

Io sono pieno di fiducia che nella sua bontà vorrà prendere a favorire un'opera che unicamente tende a somministrare buoni ministri alla Chiesa e così promuovere il bene di nostra S. Cattolica Religione, a maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime.

Augurandole dal cielo largo compenso, mi professo con gratitudine e stima,

Di V. S. Ill.ma e Rev.ma,

 Obbl.mo Ricorrente

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

La risposta di Mons. Vicario, che pi√π volte aveva soccorso l'Oratorio, dimostra quali fossero le strettezze della Curia Torinese in quei giorni.

 

 

 

Torino, 13 giugno 1866.

 

Molto Rev. Signore,

 

Se vi è Stabilimento, che giudichi degno e meritevole di favorevoli riguardi, o persona della quale pronuncii lo stesso giudizio, si è la S. V. Ill.ma e lo Stabilimento da Lei saggiatamente eretto ed amministrato perciò se non la posso sovvenire mi è di grave rincrescimento. Ma la cosa è proprio così. Fondi o mezzi io non ne ho alcuni. Dei redditi del Vescovato, o della Curia o del posto di Vicario Capitolare, io non ho un soldo. Non ho menomo assegno per qualsiasi Curiale spedizione, nè per ragione di onorario, o d'incerti, o di diritti per firme. Soggiaccio invece a molte passività, alle quali non andrei soggetto come semplice Canonico che è solo il mio provento. Cappellanie o benefizii di mia collazione al presente non ne ho veruno e sono ben disposto a favorire in questo i suoi chierici, ma devo avere riguardo a tanti altri, pure meritevolissimi e indigentissimi. Redditi di Curia non ne ho per certo a disporre, poichè appena sono sufficienti ai tenui onorarii degli impiegati; altronde per molte cause che ella può ben conoscere codesti redditi ogni dì si attenuano di molto, e se accadesse di qualche sopravvanzo io debbo riserbarlo al Vescovo successore, al quale dovrò render conto dei proventi della vacanza. I redditi del R. Economato ella saprà come non siano per niente a mia disposizione; sicchè non resta che il nemo dat quod non habet. Altronde tutti gli altri chierici, sia allievi del Seminario (dei quali non è forse un solo che paghi la pensione intera e forse non sei od otto che la paghino mezza) sia esteri, sono nella medesima condizione e medesime urgenze di quelli del di lei Oratorio, sicchè con somma mia pena non posso dal lato finanziario rispondere iuxta vota et merita al pregiatissimo di Lei foglio del giorno di ieri.

Quindi abbia pazienza d'accontentarsi di tutto quel tanto che mi resta da poter favorire esso e i suoi buoni chierici. Gradisca i miei rispetti e intanto mi dichiaro

 

Suo dev.mo Servo

GIUSEPPE ZAPPATA, Vic. Gen. Cap.

 

Inesaudita la sua domanda, D. Bosco patrocinava presso il Can. Vogliotti, Rettore del Seminario e Provicario Diocesano, la causa particolare di un povero chierico che gli si era raccomandato.

 

Ill.mo e M. R. Sig. Rettore,

 

Lo scorso autunno io raccomandava a V. S. Ill.ma il chierico Fusero Clemente, come impotente a pagarsi pensione di sorta; io stesso l'avevo qui tenuto gratis provvedendolo perfino degli abiti e libri. Ella si compiaceva rispondermi non so se verbalmente o per iscritto che visto il caso del chierico Fusero l'avessi pure incoraggiato e inviato in Seminario, e se la buona condotta corrispondeva avrebbe goduto la pensione gratuita.

Nel corso dell'anno non gli fu detto niente; ma adesso mi scrive che non se gli vuole ritornare il corredo se non paga il suo debito. Credo che non abbia demeritato sia nello studio sia nella pietà; perciò mi raccomando a Lei con preghiera di voler far scrivere una parola all'Economo di Bra in proposito. Tanto più che le miserie di quella famiglia, dopo una serie d'infortuni, muovono proprio alla compassione e direi alle lagrime.

Abbiamo udito con vero rincrescimento lo stato cagionevole di sua sanità, e, non potendo fare altro, l'abbiamo raccomandata al Signore con preghiere speciali e comuni.

Voglia Iddio esaudirci e concederle lunghi anni di vita felice. Con pienezza di stima ho l'onore di potermi professare

Di V. S. Ill.ma e M. R.,

Torino, 16 giugno 1866,

Obbl.mo Servitore

Sac. Giov. Bosco.

 

La pronta e benevola condiscendenza del Canonico lo incoraggiò ad inoltrare presso di lui una nuova domanda identica a quella già inviata al Vicario Capitolare.

 

Ill.mo e M. R. Sig. Rettore,

 

Nutriva viva speranza di potere in quest'anno fare a meno di ricorrere per ottenere sussidio dal Seminario a favore dei poveri chierici di questa casa; ma la cessazione di molte fonti di beneficenza hanno condotto a gravi strettezze i chierici e me stesso, che a totale mio carico debbo loro provvedere vitto, vestito, e quanto altro occorre.

Egli è per questo che rinnovo la preghiera per ottenere da lei quel maggiore sussidio che alla amministrazione del Seminario sarà beneviso.

Il numero dei chierici tra qui e Lanzo è di cinquanta. Essi impiegano tutta la loro vita nell'assistere, catechizzare, istruire poveri fanciulli, specialmente quelli che frequentano gli Oratori maschili di questa città.

Pieno di fiducia che V. S. Ill.ma prenderà in benigna considerazione quanto sopra fu esposto, l'assicuro della più sentita gratitudine con cui ho l'onore di potermi professare

Di V. S. Ill.ma,

Torino, 26 giugno 1866,

Obbl.mo Servitore e ricorrente

Sac. Bosco GIOVANNI.

 

 

Tre giorni dopo, scriveva al medesimo, per ottenere ai chierici di Lanzo la facoltà di subire gli esami presso una Commissione speciale.

 

Ill.mo e M. R. Sig. Rettore,

Torino, 29 giugno 1866.

 

Per l'anticipazione e per la fretta con cui in quest'anno si dovettero dare gli esami pei chierici, non si poterono prevenire gli assistenti ed i maestri del Collegio di Lanzo. Essi desidererebbero ora di subirlo, ma per gli esami del Collegio che si anticipano, l'assistenza che devono prestare e le spese che devono fare per recarsi a Torino, tornerebbe di grave incommodo se dovessero qui venire.

Pertanto per mezzo mio fanno a Lei rispettosa preghiera a voler, come l'anno scorso, delegare il sig. Vicario di Lanzo e qualche altro sacerdote a Lei beneviso per dare questo esame.

Pieno di fiducia che agli altri favori voglia aggiungere anche questo, le auguro dal Signore sanità e vita felice, mentre con sentita gratitudine ho l'onore di potermi professare,

Di V. S. Ill.ma,

Obbl.mo Servitore

Sac. Giov. Bosco.

 

P.S. -Il latore della presente è l'Economo di Lanzo che accetterebbe qualunque risposta anche verbale che giudicasse fare.

 

Nel frattempo egli era stato a Mirabello, ove il 21 giugno i giovani del piccolo Seminario celebravano solennemente la festa di S. Luigi Gonzaga. Colà trovò il Teol. Antonio Belasio, del quale abbiamo già fatto parola, il quale recitò il panegirico del santo.

Uno studente della quinta ginnasiale, il miglior giovane del Collegio, giaceva a letto gravemente infermo. Si chiamava Francesco Rapetti; il padre gli aveva ottenuto che fosse annoverato tra i chierici della diocesi di Alessandria e con essi richiamato dalla leva militare. Il giorno 21 il Rapetti volle passarlo levato, ma, verso sera, non potendo pi√π reggersi in piedi, si pose a letto.

Dopo breve ora fu preso da tali spasimi che parve fosse per morire: e qualcuno della casa suppose e disse essere già morto. Siccome l'infermeria era vicina alla camera occupata da D. Bosco, Vincenzo Provera, fratello di D. Francesco, Prefetto del Collegio, venne ad invitare il Servo di Dio che volesse accettare per quella notte ospitalità nella sua casa paterna. D. Bosco nutriva grande stima ed affetto per il vecchio Provera e per la sua famiglia. Non si recava mai a Mirabello senza fargli visita e soleva dire che la famiglia di D. Bosco e quella di Papà Provera ne formavano una sola; nè scriveva mai al Direttore senza mandargli un saluto affettuoso; e a lui ed ai membri della sua famiglia soleva anche inviare certi biglietti o strenne personali, quando in Torino ciò faceva coi giovani. Accettò quindi volentieri l'invito.

Entrato che fu egli in quella casa, tutte le porte furono chiuse a chiave e le chiavi vennero ritirate. Ora accadde un fatto, che ci narrò Vincenzo Provera, confermato da una lettera che la signora Carolina Provera, suora delle Fedeli Compagne, scriveva da Parigi dopo la morte di D. Bosco a Don Evasio Rabagliati.

... Bramerebbe sapere con esattezza il fatto della sparizione del venerando D. Bosco da casa mia. Veramente non saprei dirle di più di quello che già le ho narrato. Una sera ad ora tarda, colla mia sorella Colombina stavamo aspettando il fratello Vincenzo che ritornasse dal collegio, quando egli giunse frettoloso, dicendo: - Presto, presto, preparate camera e letto: l'allievo ammalato nella camera vicina a quella del sig. D. Bosco è spirato. Non è conveniente che D. Bosco passi la notte nella sua camera. Egli accettò di venire in casa nostra. - Così fu. Il domani mattina mi alzai per tempissimo e le porte della casa erano chiuse. Tutti noi di famiglia andavamo in punta di piedi e facevamo quanto era possibile per evitare ogni sorta di rumore, affine di non disturbare D. Bosco nel suo riposo. Quand'ecco con nostra maraviglia un tale, non so più chi fosse, venendo dal collegio circa alle 6 ci disse che D. Bosco era nel piccolo Seminario e già celebrava la S. Messa.

- Non è possibile, gli rispondemmo: egli non è uscito ancora dalla camera: nessuno di noi l'ha veduto. - Le porte si apersero solamente sul tardi. Per uscire D. Bosco non poteva fare a meno che di passare per una stanza ove noi di famiglia ci tenevamo radunati, precisamente per vederlo, dargli il buon giorno ed averne la benedizione. Quindi stupefatti ci ripetemmo l'un l'altro: - Come ha egli potuto uscire?

E' vero che la camera in cui il rev. Sig. D. Bosco passò la notte aveva due porte, ed una metteva in una scala comune col vicino, ma andati subito a verificare la trovammo come sempre ermeticamente chiusa e non smosse le robuste serrature.

Più volte di ciò parlammo in famiglia, ma sempre si conchiuse: - Come egli sia uscito non lo sappiamo.

Il giovane Rapetti, riavutosi alquanto dalla gravissima crisi, desiderava ardentemente di parlare con D. Bosco il quale, celebrata la S. Messa, ben di cuore si recò a visitarlo. Amandolo qual tenero figlio, lo raccomandò alla SS. Vergine, e dettegli parole di conforto che lo rallegrarono santamente, gli diede in fine la benedizione. Prima però di compartirgliela, lo interrogò se voleva che domandasse a Dio la grazia di guarire sull'istante. - No, rispose l'infermo; ma desidero di fare la volontà di Dio! - E il buon giovane spirava nel bacio del Signore il 22 giugno.

La mattina del 22 D. Bosco era tornato a Torino, e il 23 telegrammi da Firenze recavano la preveduta e dolorosa notizia che la legge sui beni ecclesiastici era definitivamente approvata. Il Governo, pronta ogni cosa per la guerra, dichiarava urgente il bisogno di trarre dai beni della Chiesa sussidii per provvedere alla penuria dell'erario. Per la conservazione degli Ordini Religiosi ancora esistenti erano state fatte al Parlamento 191.000 istanze; ma la rabbia dei settari contro le istituzioni cattoliche aveva tenuto conto delle 16.000, le quali, per istigazione dello stesso Governo, ne domandavano l'abolizione.

Il giorno 19 giugno la Camera elettiva, non accettando la proposta diminuzione dei Vescovadi, ma imponendo nuovi oneri sulle loro mense, aveva infatti approvato la legge che sopprimeva senza alcuna eccezione tutte le Corporazioni religiose ed altri enti ecclesiastici, e che attribuiva allo Stato il possesso di tutti i loro beni. Indarno deputati liberali, come il Ricciardi, supplicarono che almeno risparmiassero le Suore di carità, gli Ospitalieri, detti Fate bene fratelli, i Monasteri di Camaldoli e di Montecassino; non si volle che neppure una vittima sfuggisse all'eccidio.

Ai religiosi espulsi venne assegnata una pensione annuale: degli Ordini possidenti, i sacerdoti e le suore coriste ebbero il massimo di 600 lire e il minimo di 360, secondo l'età; i laici e le converse il massimo di 480 e il minimo di 200. Degli Ordini mendicanti, i sacerdoti e le coriste 250 lire; i laici e le converse 140 lire, se aveano oltre 60 anni, 95 se un'età inferiore. Quest'ultima categoria era la più numerosa.

Alle monache fu data la scelta tra l'assegno e una pensione vitalizia regolata sulla dote da esse pagata nell'entrare in Religione, e si acconsentiva, a loro richiesta, di lasciarle nel monastero, o in parte di esso designata dal Governo; però quando fossero ridotte a sei sarebbero state concentrate in altra casa anche di Ordine diverso.

Il 23 giugno questa legge passava al Senato con 87 voti contro 22; e il Reggente Principe di Carignano la sanzionava il 7 luglio.

Così gli ordini religiosi furono spogliati delle loro case, rendite e possedimenti, in modo che in alcune provincie le monache furono ridotte alla più squallida miseria. Una quantità straordinaria di fondi rurali fu posta all'asta pubblica; moltissime chiese convertite in usi profani; monasteri e conventi mutati in caserme, in carceri e scuole; vasi sacri tolti alle chiese passarono ai rigattieri ed agli ebrei; e gran numero di religiosi delle nuove provincie, assai più maltratati dall'ultima legge che da quella del 1855, dovettero andar cercando in altri luoghi, e specialmente in Piemonte, un onesto sostentamento.

D. Bosco, che tanto amava i religiosi, affrettossi a soccorrere quei tribolati.

“ Ricordo, testificò D. Francesco Dalmazzo, come Don Bosco invitasse religiosi di ogni parte del Piemonte dispersi, ad accettare ospitalità in qualunque delle sue case, come difatti parecchi anche degli Ordini mendicanti accettarono, dimorando alcuni più anni, altri per tutta la vita, presso di lui provvisti del necessario. Così pure, essendosi adunati insieme alcuni padri Gesuiti in Torino ed il Governo avendone ordinato lo sfratto, D. Bosco incaricò me di andare dal P. Secondo Franco, loro Superiore, con incarico di offrire loro ospitalità in qualunque nostra casa per quel tempo che avessero desiderato; e io rammento che in quella circostanza il P. Franco, piangendo per la commozione, esclamò: - Che gran cuore ha mai quel D. Bosco! È veramente un santo! - E mi commise di ringraziarlo dicendo che avevano già provvisto ad ogni cosa, ma che avrebbe ricordato sempre la carità dell'uomo di Dio ”.

 

 

 

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