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Capitolo 3

Visita di senatori all'Oratorio - Dialogo - Lettera a Don Bosco dal Ministero degli Interni - Siccardi prepara la legge sulle Immunità Ecclesiastiche - Mons. Fransoni a Pianezza e visita di D. Bosco - L'Arcivescovo lo consiglia a d istituire una Congregazione Religiosa.


Capitolo 3

da Memorie Biografiche

del 17 novembre 2006

 Le fatiche indefesse di D. Bosco facevano prendere l'Oratorio in maggior considerazione. In Torino molto se ne parlava e, dimenticate le prime apprensioni, moltissimi lo stimavano e ne dicevano bene. Ognuno dai fatti lo giudicava mezzo opportunissimo per allontanare dalla porta della prigione tanti poveri giovani, rendendoli in quella vece buoni cristiani ed onesti cittadini, che i buoni risultati erano a tutti palesi e negar non si potevano. Dalla pubblica voce, da private relazioni e poscia da un voto del Senato lo stesso Governo fu indotto ad interessarsene. In quel tempo una persona benevola, il signor Volpotto, parente di casa Gastaldi, e che teneva un posto eminente nello Stato, consigliò D. Bosco a mettere in certo qual modo l'opera dell'Oratorio sotto la protezione del Governo. D. Bosco non acconsentì, e allora quel signore a sua insaputa, ma a nome suo, inoltrò per mezzo dell'Alta Camera una petizione al Pubblico Ministero per un sussidio a vantaggio de' suoi giovani. Il Senato, prima di prendere una deliberazione e raccomandare la cosa al Governo, volle attingere le più minute informazioni. Per la qual cosa nominò un'apposita Commissione coll'incarico di fare una visita all'Oratorio, informarsi e poi riferire. L'onorevole Commissione era composta di tre Senatori, che furono il conte Federigo Sclopis, il marchese Ignazio Pallavicini, e il conte Luigi di Collegno.

Pertanto, ad esecuzione dell'alto incarico, i tre nobili signori nel mese di gennaio del 1850 si portarono all'Oratorio in Valdocco nel pomeriggio di una festa. Erano circa le ore due, e più di 500 ragazzi nel bollore di loro ricreazione, occupati quali in uno, quali in un altro trastullo, porgevano di sè all'attento osservatore il più gradito spettacolo. Al mirar sì gran turba di giovani insieme raccolti, gli uni a correre, gli altri a saltare, questi a fare di ginnastica, quegli a camminare sulle stampelle, assistiti qua e colà da vari sacerdoti e laici, quei signori ne rimasero. Dopo alcuni istanti il conte Sclopis esclamò: - Che bello spettacolo! - Bello davvero, rispose il marchese Pallavicini. - Fortunata Torino, aggiunse il Conte di Collegno, fortunata Torino se nel suo seno sorgessero parecchi di questi istituti. -Allora i nostri occhi, riprese lo Sclopis, non sarebbero così sovente offesi dall'ingrato aspetto di tanta misera gioventù, che nei giorni festivi scorrazza nelle vie e nelle piazze, crescendo nell'ignoranza e nel mai costume.

Don Bosco, che si trovava in un circolo di giovani, veduto quei signori che punto non conosceva, loro si avvicinò. Fatti i primi convenevoli, ebbe luogo un dialogo, che coll'aiuto dell'uno e dell'altro, e specialmente di Don Bosco, abbiamo potuto ricomporre, almeno nella sostanza.

Sclopis. - Stavamo osservando con stupore lo spettacolo di tanti giovani insieme raccolti in lieti trastulli, spettacolo che ci sembra più unico che raro. Sappiamo che anima di tutto questo è il Sacerdote Bosco. Vorrebbe favorire la S. V. di presentarci a lui?

D. Bosco. - Le Signorie Loro gli sono appunto presenti; il povero Don Bosco sono io. - Ciò detto li pregò che volessero degnarsi di passare innanzi, e li condusse nella sua cameretta.

Scl. - Godo assai di fare oggi sua personale conoscenza; che per fama Don Bosco già mi era noto da lungo.

D. B. - Debbo la mia fama non ai meriti miei, ma piuttosto alla lingua dei miei giovanetti.

Pallavicini. - Sono questi giudici assai competenti e affatto veridici, giacchè ex ore infantium, come dice il profeta, perfecisti laudem.

Scl. - La notizia di quest'opera sua è testè salita alla Camera del Senato, e l'alto Consesso c'incaricò di raccogliere esatte informazioni onde riferire in proposito. Io sono il conte Sclopis, questi è il marchese Pallavicini, quegli è il conte di Collegno.

D. B. - Questo povero istituto ebbe fin qui ben molte e care visite, ma questa sarà certamente annoverata tra le più preziose. Le SS. LL. domandino pure quanto occorre, che sarò lieto di soddisfarle in quanto so e posso.

Scl. - Qual è lo scopo di quest'opera sua?

D. B. - Lo scopo si è di raccogliere nei giorni festivi il maggior numero di giovani, i quali, o perchè trascurati dai parenti od abbandonati, o perchè forestieri, invece di recarsi alle sacre funzioni e al Catechismo, andrebbero girovagando e giocando per la città facendo i monelli. Qui al contrario, attirati dall'amore dei trastulli, nonchè da regalucci e da belle maniere, sono trattenuti in lieta ricreazione sotto gli occhi di vari assistenti. Intanto nel mattino vi hanno comodità di accostarsi ai Santi Sacramenti, ascoltano Messa e un breve sermone loro adattato. Nel pomeriggio poi, dopo alcune ore di onesto divertimento, si raccolgono in Cappella pel Catechismo, pel canto dei Vespri, per l'istruzione e Benedizione. In poche parole: lo scopo si è di radunare i giovani per farli onesti cittadini col renderli buoni cristiani.

Pall. - Fine nobilissimo. Egli sarebbe desiderabile che siffatti istituti si moltiplicassero in questa città.

D. B. - La Dio mercè l'anno 1847 uno consimile ne venne aperto presso la Villa Reale, il Valentino, ed un terzo fu inaugurato poc'anzi nel Borgo di Vanchiglia.

Collegno  - Benissimo! Benissimo!

Scl. - Qual è il numero approssimativo dei giovani, che frequentano questo luogo?

D. B. - Sono generalmente per ogni festa un 500 e spesso di pi√π. Quasi altrettanti si annoverano in ciascuno degli altri.

Coll. - In media sono dunque 1500 giovani abitanti in questa città, raccolti da provvida mano, e per mezzo della Religione indirizzati sulla via della moralità e dell'onore. È un grande beneficio per questa metropoli; è un grande sostegno pel nostro Governo.

Pall. - Da quando Ella cominciò questa sua istituzione?

D. B. - Cominciai a raccogliere alcuni ragazzi pi√π rozzi e bisognosi di una cura speciale sin dal 1841, e vi fui spinto dallo sperimentare che molti, sebbene un po' discoli, non erano malvagi, ma che lasciati a se stessi si davano facilmente a tristissima vita e riuscivano alla prigione.

Scl. - L'opera sua è veramente filantropica e di una grande importanza sociale. Sono opere siffatte che il Governo deve promuovere e sostenere. E per suo conforto le dico che l'Intendenza e tutta la Famiglia Reale apprezzano quest'opera e le daranno il loro appoggio.

Coll. - Quali mezzi adopera la S. V. per moralizzare e tenere in ordine sì grande moltitudine di giovani?

D. B. - L'istruzione ed una carità dolce, paziente e longanime sono gli unici mezzi. Qui l'amore prevale al bastone, anzi regna da solo.

Pall. - Avremmo bisogno che questo metodo venisse adottato in tanti altri istituti e specialmente nei penitenziali. In questo caso non occorrerebbero pi√π tante guardie e gendarmi e, quello che val meglio, si formerebbe alla virt√π il cuore di tanti rinchiusi, che do o anni ed anni di punizione n'escono peggiori di prima.

Scl. - Questi ragazzi sono essi tutti di questa città?

D. B. - No, signor Conte, ma vari sono delle parti di Biella, Vercelli, Novara e di altre province del Regno: alcuni sono di Milano e di Como e fin della Svizzera. Venuti in questa capitale per cercare lavoro, essi, perchè lontani dagli sguardi dei loro parenti, sarebbero esposti ad evidente pericolo di riuscire cattivi cristiani.

Scl. - Aggiunga pure: e malvagi cittadini, e non tarderebbero a dare molto da fare alla Polizia ed allo stesso Governo.

A questo punto un giovanetto sui 12 anni venne a bussare alla porta della cameretta per fare una commissione a Don Bosco, il quale lo fece fermare. Piacque allo Sclopis la confidenza e l'ingenuità del fanciullo e lo interrogò: Come ti chiami? - Mi chiamo Giuseppe Vanzino. - Di che paese sei? - Di Varese. - Che mestiere fai? - Lo scalpellino. - Hai ancora i tuoi genitori? - Mio padre è morto. - E tua madre?

A questa domanda il buon ragazzo abbassò gli occhi, chinò la fronte e fecesi vergognoso e muto. - Dimmi, replicò lo Sclopis, hai ancora tua madre? È forse morta anch'essa?

Allora il poveretto, con voce stentata e commossa, rispose

- Mia madre è in prigione.

Ciò detto diede in un pianto dirotto. A questa vista il Conte, i suoi compagni e Don Bosco furono inteneriti, ed una furtiva lagrima comparve sul loro ciglio. Dopo un istante di silenzio il buon signore riprese il discorso e disse: - Povero figlio, mi fai compassione; ma stasera dove andrai a dormire? - Finora dormiva in casa del mio padrone, rispose egli asciugandosi gli occhi, ma oggi D. Bosco mi promise di prendermi presso di sè ed annoverarmi tra i suoi ricoverati. - Come? domandò qui lo Sclopis rivolto a Don Bosco, oltre all'Oratorio festivo Ella tiene aperto eziandio un Ospizio di beneficenza?

D B - Così volle il bisogno, e presentemente ne albergo una quarantina, la maggior parte poveri orfanelli o giovanetti dei più abbandonati. E si mangiano e dormono in questa casetta, e vanno a lavorare in città, quali in una e quali in un altra bottega.

Pall - Sono questi i miracoli della carità cattolica.

Coll. - Ma dove attinge Ella i mezzi per sostenere cotale ricovero? Imperocchè quaranta bocche giovanili consumano pane assai.

D. B. - Il provvedere il vitto e vestito a questi miei cari ragazzi è certamente un compito alquanto difficile, e che talora mi dà non poco a studiare; Imperocchè la maggior parte di essi non guadagnano ancor nulla, ed alcuni fanno un sì scarso guadagno, che non basta a calzarli e vestirli. Ma, ad onor del vero, debbo dire, che fin qui la divina Provvidenza non mi venne ancor meno; anzi ho tanta fiducia che Dio mi sarà ancor largo dei suoi favori, che desidero di avere un più vasto locale, per accrescere il numero dei miei ricoverati.

Scl. - Si potrebbe visitare l'interno della casa?

D. B. - Purchè vogliano degnarsi; la casa è tanto meschina, che temo ne sarà offeso il loro sguardo.

Giusta il loro desiderio, D. Bosco li accompagnò nel dormitorio a pian terreno, a cui si entrava per un uscio molto basso. Il Senatore Sclopis, che vi entrò pel primo, nel passarvi urtò col cappello, che rovesciato gli sarebbe caduto per terra, se il Pallavicini, a cui battè sul naso, non glielo avesse trattenuto di dietro. L'egregio Conte sorridendo disse: - Nelle sale del Re questo non mi accadde mai. - E il Marchese a sua volta soggiunse: - E a me non cadde mai un cappello sul naso.

Visitato quel sito, i tre Senatori vennero menati in cucina. La buona Margherita stava in quel momento assestando i piatti e le pentole: - Ecco mia madre, disse D. Bosco; ecco pure la madre dei nostri orfanelli.

Scl. - Da quanto pare, voi fate anche la cuciniera, non è vero, madre?

Margh. - Per guadagnare il Paradiso facciamo un po' di tutto.

Scl. - Quali pietanze date ai giovanetti?

Margh. - Pane e minestra, e minestra e pane.

Scl. - E quante al vostro D. Bosco?

Margh. - Sono presto contate: per lui una sola.

Scl. - È un po' troppo poco una sola; ma almeno gliela farete molto buona?

Margh. - Buonissima! S'immagini che egli mangia quasi sempre la stessa, mattino e sera, dalla domenica al giovedì.

A queste parole quei tre signori risero della miglior voglia.

Scl. - E perchè sino al giovedì, e non da una domenica all'altra?

Margh. - Perchè pel venerdì e sabato, giorni di vigilia, ne fo una di magro.

Scl. - Ho capito. Si vede che voi siete una cuciniera molto economica. Credo per altro che ai tempi nostri il vostro metodo di cucinare non farà molto progresso nel mondo.

Pall. - Non avete niuno a porgervi la mano?

Margh. - Gli altri giorni ho bensì un buon aiutante ma oggi egli ha molto da fare, e mi lasciò sola.

Pali.  - E chi è dunque il vostro garzone di cucina?

Margh. - Eccolo, disse sorridendo e additando D. Bosco.

Scl. - Mi rallegro con Lei, sig. D. Bosco. Non avevo dubbio veruno che Lei fosse un buon educatore della giovent√π ed anche un abile scrittore; ma ancora ignorava che se ne intendesse pure di gastronomia.

D. B. - Vorrei che Ella mi vedesse all'atto pratico, e allora soprattutto quando fo la polenta.

Tutti si misero a ridere, e salutata la buona donna uscirono di cucina.

Intanto essendo ormai tempo di terminare la ricreazione, D. Bosco ne fece dare il segno, e i tre signori si ebbero una nuova sorpresa. Questa si fu il pronto cessare di tanti giovani da ogni giuoco e trastullo, e il loro disporsi in fila, per recarsi ordinatamente in Chiesa.

I Senatori visitarono poscia le singole classi di Catechismo; indi assistettero al canto del Vespro e alla istruzione, e ricevettero coi giovani la Benedizione col SS. Sacramento, edificandoli tutti col loro devoto contegno. Usciti di Cappella, eglino si compiacquero di trattenersi ancora un po' nel cortile tra i giovani, interrogando or questo or quell'altro. - Che mestiere fai tu? domandò il Conte Sclopis ad uno di essi. - Fo il calzolaio. - Sapresti dirmi che differenza vi passa tra il calzolaio e il ciabattino? - Il ciabattino, rispose il garzoncello abbastanza istruito, è colui che cuce e rattaccona le ciabatte o le scarpe rotte; il calzolaio invece è quegli che le fa nuove. Per esempio, queste sue belle scarpe o stivali sono fatti dal calzolaio. - Bravo, disse il Conte, mi hai risposto da maestro.

D. B. - Egli è difatto molto assiduo alla nostra scuola serale.

Pall. - Hanno qui luogo anche le scuole serali?

D. B. - Sì, per servirla. Le abbiamo incominciate fin dall'anno 1844 a vantaggio di quei giovani, i quali, o perchè tutto il giorno occupati nei propri lavori, o perchè già troppo inoltrati in età, non possono frequentare le scuole comunali. Da qui ad un'ora esse incominciano in quelle camere attigue.

Pall. - Quale insegnamento abbracciano esse?

D. B. - I primi elementi di lettura e scrittura, la grammatica, la Storia Sacra e la storia patria, la geografia, l'aritmetica e il sistema metrico. Vi ha pure una classe per quelli che imparano il disegno e la lingua francese: nè vi mancano lezioni di musica vocale e istrumentale.

Pall. - E chi le presta la mano?

D. B. - Quegli ecclesiastici e laici che io chiamo miei cooperatori. Quei caritatevoli mi aiutano, non in questo solo, ma in pi√π altri bisogni. Tra l'altro essi s'impegnano nel trovare onesti padroni ai giovani, che rimangono disimpiegati, e nel provvedere di camicie, di calzatura e di decente vestito coloro che altrimenti non potrebbero pi√π recarsi al lavoro.

Coll. - Bravi! Sono questi i benefattori dell'umanità, i benemeriti della patria.

Scl. - Signor D. Bosco, conchiuse allora il Conte Sclopis, Capo della Commissione, io non sono uso all'adulazione; ma con tutta la schiettezza del cuore le confesso, anche a nome dei miei colleghi, che noi partiamo di qui altamente soddisfatti, e come Cattolici e come cittadini e Senatori del Regno applaudiamo all'opera sua, e facciamo voti che prosperi e si diffonda.

Prima di partire il conte Sclopis trasse fuori una limosina e la diede a D. Bosco per i suoi giovanetti pi√π bisognosi. Tutti e tre poi da quel giorno divennero benefattori dell'opera sua.

Ma se le lodi tributate a questo Istituto erano di grande conforto per chi tanta cura se ne prendeva, doveva pur riuscire di non lieve momento il vivo interesse, che ne dimostravano i pi√π ragguardevoli personaggi del Regno.

Dal Ministero alcuni giorni dopo D. Bosco riceveva la seguente lettera in risposta ad una sua petizione:

 

Regia Segreteria di Stato per gli affari dell'Interno. Divisione 5, N. 563.

 

Torino, addì 12 Febbraio 1850.

 

Ill.mo e M. R. sig. P. Col.mo,

 

Non mi è possibile di accedere in modo alcuno alla domanda di V. S. Ill.ma e M. R. infino alla definitiva approvazione dei Bilancio di questo Dicastero per parte del Nazionale Parlamento, come avrei desiderato, per coadiuvare in tutto che io possa all'incremento di un'opera, la quale altamente onora chi con sentimenti di cristiana carità se ne faceva promotore, onde scemare il più possibile il novero di quei disgraziati, che orbati sul fiore degli anni loro di chi li informi il cuore ai veri principii di religione e civiltà, vivendo, dei tristi la vita, infestano la società col mai esempio ed a lor preparano un miserando fine. Mi riesce però soddisfacentissima cosa il poterle qui attestare la più sentita ammirazione per lo zelo indefesso ond'Ella si mostra prodiga per la pericolante e povera gioventù, la quale mi auguro Le valga almeno a confortarla e ad infonderle coraggio per continuare nell'arduo, ma filantropico intendimento.

Riservandomi di prendere in tutta la considerazione la sua domanda, tosto ottenuta l'approvazione del Bilancio del Parlamento, ho l'onore di proferirmi con ben distinta stima.

 

Di V. S. Ill.ma e M. Rev.

Devot.mo obbligat.mo Servitore

Per il Ministro il P. Officiale

di S. Martino

 

Ma più che un soccorso pecuniario a D. Bosco importava indurre il Governo a commendare l'opera sua con atto pubblico e a dimostrare la sua approvazione ed il suo interessamento. Ciò doveva, per disposizione della Divina Provvidenza, temperare a suo riguardo l'astio ingiusto e i sospetti di reazione politica, che molti nutrivano contro il clero, e servirgli di scudo nelle nuove perturbazioni che si preparavano in odio alla Chiesa.

Nei segreti consigli delle sette e del Governo si era stabilito di porre mano all'abolizione legale dell'Immunità Ecclesiastica; ma prima, volendo simulare ossequio all'autorità della Chiesa, si decise di ripigliare col Pontefice le pratiche per un nuovo concordato, andate fallite nel 1848, sia per la mala fede dei commissari piemontesi, sia per la partenza di Pio IX da Roma. Per questo fine e per ottenere che Monsignor Fransoni e Mons. Artico rinunziassero alle loro diocesi, nel novembre del 1849 il conte Giuseppe Siccardi era stato inviato a Gaeta. Ma il Papa non volle transigere nel modo che pretendeva il Governo Subalpino, benchè fosse disposto a qualche concessione; e in quanto ai due Vescovi respinse le ingiuste pretese. Il conte Siccardi allora indispettito troncò le trattative, e venne a Torino. Il Papa, perchè il Re non fosse tratto in inganno, incaricò Mons. Andrea Charvaz di assicurarlo della sua benevolenza verso di lui e d'esporgli i gravi obblighi impostigli dal suo apostolico ministero. E il Re Vittorio con una sua lettera promise al Papa che avrebbe fatti rispettare i diritti della Chiesa e protetti i due Vescovi.

Già da tempo i giornali settari e opuscoli in gran numero lavoravano a rendere odiosi al popolo i privilegi di S. Chiesa, proponendone l'abolizione. Ed ecco, il 25 febbraio 1850, il Conte Siccardi, che aveva ricevuto il Portafoglio di Grazia e Giustizia, proporre al Parlamento l'abolizione totale delle Immunità, ossia del Foro Ecclesiastico.

Era questo il più antico di tutti i tribunali così in Piemonte come negli altri stati cattolici; aveva il fondamento in diritto e giustizia, come appare dalla S. Scrittura e dalle decisioni dei Sommi Pontefici e dei Concili. I magistrati non erano giudicati dai magistrati, i senatori e i ministri dai senatori, i militari dai militari, il commercio e la marina da tribunali appositi? I deputati stessi, durante le sessioni del Parlamento, non potevano essere imprigionati senza l'autorizzazione della Camera.

Si voleva dunque l'asservimento del clero al potere civile. Intanto, in sul cominciare di quest'anno, Mons. Fransoni aveva deliberato di non più differire il suo ritorno in diocesi. I tempi si facevano sempre più incerti e difficili. Il clero cresciuto in un lungo periodo di pace, di armonia tra le due podestà, di sottomissione dei popoli alla materna autorità della Chiesa, era affatto nuovo alle lotte che si preparavano, e non trovava orientazione nel nuovo mare burrascoso in cui doveva navigare.

Il 22 gennaio pertanto l'Arcivescovo aveva mandata una lettera pastorale, dando comunicazione ai fedeli dell'indulto quaresimale, rinnovando la proibizione dei giornali licenziosi ed eretici, e annunziando il ristabilimento del Governo Pontificio. Il 25 febbraio si era mosso da Chambery, e il 26 prendeva stanza a Pianezza, dando notizia con una lettera del suo arrivo al Sovrano e aggiungendo che veniva spinto dalla voce del dovere, alla quale non poteva resistere senza grave colpa.

Il Re gli mandò vari personaggi distinti, anche ecclesiastici, perchè con vari pretesti cercassero di persuaderlo a ricondursi all'estero; ma egli con franchezza rispondeva che sarebbe rimasto.

D. Bosco a sua volta si affrettava a recarsi a Pianezza, distante da Torino circa dieci chilometri. Era andato tutto solo e a piedi. Monsignore vedendolo gli rivolse amorevolmente, con un sorriso, queste parole - Vae homini soli! E D. Bosco con garbo senz'altra spiegazione gli rispose prontamente: - Angelis suis Deus mandavit de te, ut custodiant te in omnibus viis tuis. - Ripetute volte qui venne D. Bosco a visitarlo poichè molte cose aveva da dirgli, di molte e confidenziali lo incaricava l'Arcivescovo; e poi chi saprà dire come l'affetto lo attirasse verso il suo primo benefattore? E Mons. Fransoni, non ostante le gravi preoccupazioni dalle quali era stretto volentieri parlava dell'opera degli Oratori festivi, che riteneva come sua propria per averla promossa come patrono, e provava molta inquietudine e premura del suo avvenire. Prima di partire da Torino aveva ripetutamente mandato a chiamare D. Bosco per esortarlo a prevenire in qualche modo ogni possibile disfacimento di quell'opera. Esprimevagli il vivo desiderio di veder costituita una società, atta a promuovere sempre più lo sviluppo dell'educazione dei poveri giovanetti, e a conservarne lo spirito e quelle usanze tradizionali che per lo più dalla sola esperienza si suole imparare. Ed ora ripetevagli: - Come farete a continuare l'opera vostra? Voi siete mortale come gli altri uomini, e se non provvedete, i vostri Oratori morranno con voi. E perciò bene che pensiate al modo di fare sicchè vi sopravvivano. Cercate dunque un successore che pigli a suo tempo il vostro posto. - E concludeva essere necessario dar principio ad una Congregazione religiosa.

 

 

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