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Capitolo 29

Amore di D. Bosco alla Chiesa Cattolica, e suo zelo nel faticare per la sua gloria - Industrie per convertire i carcerati - Una conversione miracolosa - Studio della lingua tedesca - Il Catechismo quadrigesimale presso S. Pietro in Vincoli; proibizione del Municipio - Prima supplica di D. Bosco al Papa per favori spirituali.


Capitolo 29

da Memorie Biografiche

del 24 ottobre 2006

 'Padre Nostro, che sei ne' cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, si dilati e trionfi la Chiesa Cattolica, la sola vera Chiesa di Gesù Cristo; tutte le nazioni riconoscano i suoi diritti e quelli del suo Capo e de' suoi Vescovi, tutti gli intelletti a lei docente aderiscano come l'unica depositaria delle verità rivelate, testimone divina della autenticità ed autorità dei libri sacri, maestra infallibile degli uomini, giudice supremo inappellabile nelle questioni dottrinali. A lei tutte le volontà obbediscano nell'osservanza delle sue leggi morali e disciplinari, finchè dopo le vittorie sulla terra entri a trionfare eternamente nei cieli, colla moltitudine delle anime salvate.”

Era questa la preghiera continua, appassionata di D. Bosco, era questo il suo desiderio ardentissimo mentre proseguiva indefessamente i suoi studi sulla storia ecclesiastica. Come appariva luminosa la sua fede quando a voce e in iscritto ripeteva queste grandi verità e quando sovente insisteva perchè i sacerdoti le predicassero. Tutti i suoi pensieri, tutte le sue opere miravano essenzialmente all'esaltazione della Chiesa e godeva delle sue gioie e delle sue glorie, e soffriva dei suoi patimenti e delle persecuzioni che l'angustiavano. Perciò si adoperava con ardore ad accrescere le sue contentezze e le sue conquiste, a lenire i suoi dolori e a compensare le sue perdite, col ricondurre al suo seno materno gran numero di pecorelle smarrite, accrescendo così la sua famiglia di nuovi figli. Come cattolico e come sacerdote riconosceva il proprio dovere. Grandioso in tutte le sue idee, coordinava le sue più piccole azioni con quelle della chiesa universale, come un semplice soldato il quale, benchè valga come un solo uomo, pure fermo al suo posto coopera sempre e talora efficacemente, eziandio con un colpo solo, o ardito o casuale, alla vittoria di un intiero esercito. Perciò non lasciavasi sfuggire un'occasione di dare un buon consiglio, di ascoltare una sacramentale confessione, di predicare, di ammonire, di prender parte ad una preghiera, riguardando tutte queste azioni quali opere di importanza suprema. Con tale santo fine prestabilito, non solo non si raffreddava un istante nel proseguimento della sua missione tra i fanciulli, ma continuava a dedicarsi instancabile ad altre occupazioni del sacro ministero.

Gli stavano sempre a cuore i carcerati. Grande senza dubbio fu il numero delle conversioni operate per lo spazio di più di vent'anni; egli però che esaltava sempre D. Cafasso narrando i suoi miracoli di bontà in mezzo ai prigionieri, non parlò quasi mai del bene spirituale che esso stesso arrecava a questi infelici. Ma noi altri più cose abbiamo ancor sapute dal Teologo Borel, che lo amava e venerava come si ama e venera un santo; e ci raccontava della sua industria nel costituire con prudenza suoi coadiutori alcuni prigionieri convertiti sinceramente, che essendo d'ingegno, istruiti e di facile conversazione, erano capaci di imporsi ai più riottosi e con opportune ammonizioni predisporre gli animi ad ascoltare e a mettere in pratica la parola del sacerdote. Conoscendo costoro tutte le obbiezioni che facevano i compagni di sventura contro la Religione e le sue pratiche di pietà, le loro bestemmie contro la Divina Provvidenza, le calunnie contro il clero, D. Bosco studiava or coll'uno or coll'altro di essi qualche dialogo da svolgersi pubblicamente in data occasione, per confutare tutte quelle corbellerie e far entrare i sani principi nelle teste balzane. Ed ecco, mentre D. Bosco o s'intratteneva in discorsi famigliari, oppure aveva incominciato il catechismo, la voce dell'amico interrompevalo, eccitando la viva attenzione e curiosità di tutti i suoi camerati. Quegli interrogava, obbiettava e il sacerdote rispondeva, ma le dimande e le risposte erano condite con tante arguzie, proverbi popolari, fatterelli ridicoli ed edificanti, che la verità facendo ridere, commoveva e persuadeva, inducendo sempre alcuni ad incominciare una vita veramente cristiana. D. Bosco ebbe pertanto la consolazione di veder uomini, i quali avevano dimenticato Iddio per un lungo corso di anni, appressarsi ai Santi Sacramenti con disposizioni capaci di animare altresì le persone già innoltrate nella virtù.

E non solamente colle preghiere e con sante industrie conquistava le anime, ma strappava al Signore la grazia coi sacrifizi, ai quali per questo fine generosamente si assoggettava. Le sue penitenze furono sempre un segreto, ma ciò che si conobbe si è che egli prima di andare alle carceri, oppure dopo che ne era ritornato, ora si vedeva cogli occhi infermi e rosseggianti, ora con atroce male di testa, ovvero di denti che durava giorni interi. Accadendo che egli dovesse compiere qualche importante dovere che richiedesse quiete, il male ad un tratto cessava, e finito ciò che egli aveva per mano, il dolore ripigliava la sua forza. Da questo indizio e da altri più volte rinnovati, si argomentò dal suo intimo, Giuseppe Buzzetti, che simili infermità fossero da Dio concesse alle sue domande, retribuite poi colla desiderata conversione di qualche ostinato. Infatti egli una volta confidò a D. Ruffino Domenico di aver pregato il Signore perchè mandasse a lui la penitenza che avrebbe dovuto imporre ai carcerati, soggiungendo: - Se non la faccio io, qual penitenza potrei, dare a quei poveretti?

Perciò non mi fa meraviglia che la Madonna santissima scendesse talora in quelle carceri, per cooperare all'apostolato di D. Bosco, di D. Cafasso e del Teologo Borel animati dallo stesso spirito di eroismo. Una ammirabile conversione accadde in questi anni, della quale abbiamo udita la istoria dalla bocca stessa di colui che ne fu protagonista. Fuggito da casa, essendo ancor fanciullo, ingaggiatosi poi nell'esercito, guadagnavasi i galloni da sergente e col suo reggimento era acquartierato in Nizza Marittima. Essendo vizioso, odiava quanto apparteneva a religione. Andato per curiosità a visitare il santuario della Madonna del Laghetto, avea visto coi suoi stessi occhi essere portata innanzi alla sacra immagine una giovanetta paralitica, quasi moribonda; avea notato la sua fisionomia cadaverica, avea udite le preghiere e i singhiozzi dei circostanti, e ad un tratto avea pur visto rifiorire il colore, di quei volto, e la fanciulla, emettendo grida di gioia, alzarsi in piedi perfettamente guarita. Fu un vero trionfo della bontà di Maria. Il miracolo era così evidente che esso ne era persuaso, ma invece di commuoversi diventò furioso contro quel Dio del quale ei negava l'esistenza, poichè simil fatto era la condanna della sua condotta. Più di quaranta soldati si erano trovati presenti a questo prodigio, perchè, giunti allora per scambio di guarnigione, accorrevano a visitar una chiesa di tanta fama in quelle parti. Tornati costoro in quartiere, facevano un gran parlare cogli altri compagni del miracolo visto. Ma il Sergente indispettito per quei discorsi, prese a negare il fatto, chiamando bigotti ed imbecilli coloro che lo affermavano. I soldati insistettero. Esso allora gridò che trovandosi presente non avea visto nessun miracolo in quella guarigione: e impose a tutti silenzio. Un soldato osò replicare, e il Sergente lo fece mettere in prigione.

Non andò però impunita la sua empietà e per un grave delitto commesso venne condannato a dieci anni di carcere. L'infelice in preda a cupa rabbia e bestemmiando, non poteva rassegnarsi alla perdita della libertà. Visto appeso al muro un quadro con l'immagine di Maria SS. Addolorata, sentissi invadere da una specie di furore demoniaco e procuratosi un zolfanello, lo accese per incenerire quella santa effigie. Senonchè mentre il forsennato era per commettere quell'empietà, sente all'improvviso una forza misteriosa che lo afferra e lo arresta. Pieno di sgomento si volge attorno, e non vedendo alcuno, ben si accorge essere una mano celeste quella che lo tiene, si mutano intieramente i sentimenti del suo cuore, cade in ginocchio e rompe in lungo e dirottissimo pianto. Chiesto il ministro di Dio, si confessò, e avuta l'assoluzione fu preso da tanta contentezza che sentissi felice. Il suo ravvedimento fu simile a quello di Saulo sulla via di Damasco. Da quel momento ebbe costante impegno di espiare le sue colpe con rassegnata e allegra obbedienza ai duri regolamenti carcerari, e riparare agli scandali dati col buon esempio e colle sante parole, inducendo così molti dei suoi compagni di pena, anche i più ostinati, a mettersi in pace con Dio con una buona confessione. Uscito finalmente di prigione continuò ad essere modello di virtù religiosa e civile, sicchè potè in breve riacquistare l'onore perduto e la stima e la confidenza dei suoi compatrioti.

Il suo esempio ebbe imitatori nella costanza e fervore del ravvedimento. Fra questi vi fu chi ritornato alla propria casa, lasciava che i poveri andassero a cogliere uva nelle sue vigne e ciò che rimaneva lo conservava per donarlo nell'inverno agli ammalati. Tutto il suo patrimonio lo destinava e consumava per opere di carità. Sorgeva sempre in difesa della religione tutte le volte che udiva vilipenderla da cattivi cristiani, in qualunque luogo si trovasse. Superiore ad ogni umano rispetto, nei caffè, nelle osterie, in piazza, intimava di tacere a chi osava incominciare discorsi immorali, e se qualcuno, per risposta, azzardavasi ricordargli la sua passata condotta: - Sì, esclamava, anch'io una volta parlava così, ma quando apparteneva al reggimento degli immondi animali, al quale ora appartenete voi. - Riconoscente a D. Bosco pel gran bene che gli aveva fatto, si mantenne sempre in cordiale relazione con lui, divenne a sua volta insigne benefattore delle opere sue e spesso si recava a visitarlo. Iddio con questa ed altre simili conversioni, ricompensava adunque grandemente la carità di D. Bosco, il quale benediceva le croci chieste e portate per amore delle anime.

Altri fatti dimostrano come egli fosse pronto a sottomettersi a qualunque fatica per quanto grave, quando trattavasi di soccorrere chi abbisognava di aiuto spirituale. Nel 1845 vi erano in Torino varie famiglie Alemanne e molti soldati loro compatrioti militavano sotto la bandiera del Piemonte. Pochi preti ne conoscevano la lingua, ed essendo assorbiti da gravi occupazioni, non vi era chi potesse ascoltarne le confessioni. Perciò quelle famiglie e quei soldati, in quanto a religione, si trovavano abbandonati affatto. Caritatevoli persone si recarono da D. Bosco e gli parlarono di questa mancanza di sacerdoti, pregandolo a metterci rimedio. Come fare! D. Bosco non conosceva la lingua tedesca, si avvicinava il tempo pasquale e gli alemanni desideravano di fare le loro divozioni. Alcuni di essi erano gravemente infermi negli ospedali. D. Bosco allora, ansioso della loro salute, si propose di studiare la lingua tedesca. Si munì perciò di una grammatica e di qualche altro libro, trovò un buon professore e per più di un mese si diede quanto potè a tale studio. Scrisse pertanto un formulario delle domande più necessarie a farsi da un confessore a quella classe di penitenti, delle risposte che presumeva avrebbero potute dare, delle brevi esortazioni per eccitare il dolore dei peccati, e se le fece tradurre e spiegare dal professore. 

Prese che ebbe sedici lezioni, da lui pagate venti lire, somma non piccola riguardo alla tenuità della sua borsa, si mise a confessare in tedesco e fu lieto nel constatare che coll'aiuto del Signore vi riusciva abbastanza bene. Quando si seppe che D. Bosco confessava in quella lingua, e la voce corse rapidamente dall'uno all'altro, quei buoni alemanni accorsero volonterosi e gli diedero occasione di faticare non poco nel tribunale di penitenza. Questi si affrettarono eziandio a condurlo all'ospedale, ove fu accolto con festa dai loro connazionali infermi, alcuni dei quali morirono consolati dalla sua assistenza. Tale affluenza al suo confessionale durò circa tre anni, finchè sorte inimicizie tra il Piemonte e l'Austria, i tedeschi si ritirarono nel loro paese.

D. Bosco fintanto che ci fu bisogno aveva continuato lo studio del tedesco ampliando i suoi formulari d'interrogazioni e di risposte, ma solamente per quello scopo prefisso, e quindi lasciò di coltivare una lingua omai per lui divenuta inutile; sicchè più tardi si ricordava solo di un certo numero di parole e di frasi. Una sera del 1876 raccontava ai suoi giovani fra le altre cose: - Nei primi tempi dell'oratorio studiai alquanto la lingua tedesca, ma questa, come tutte le altre lingue straniere, se non si continua a coltivarla, a lungo andare si dimentica affatto. Ho provato qualche anno fa a parlarla a Roma nel collegio Irlandese con tre Vescovi alemanni; ma ed io sbagliava, perciò essi non m'intendevano: e i Vescovi parlavano in fretta ed io non capiva nulla. Fummo costretti a parlar latino: allora quantunque dicessimo molti spropositi tuttavia ci intendevamo. Il latino se è usato in argomenti scientifici riesce facile a parlarsi bene, avendolo sempre alla mano, ma nel discorso famigliare uno che voglia parlare latino per es. degli apprestamenti di tavola, di cose di cucina, degli attrezzi delle arti e dei mestieri, degli oggetti che vi sono nelle camere, delle costumanze nostre, lo trova difficilissimo. Tuttavia ci fu un bravo prete che scrisse in buon latino un trattato De grillis capiendis.... - Queste parole destarono una viva ilarità fra i giovani ed egli, lasciate finirle risa, ripigliava: - Del resto, parlando in serio, vi dirò, che data l'occasione e la possibilità, non trascuriate lo studio delle lingue. Ogni lingua imparata fa cadere una barriera tra noi e milioni e milioni di nostri fratelli di altre nazioni, e ci rende atti a fare del bene ad alcuni e talora anche ad un gran numero di essi. Molti ho confessati in lingua latina e francese. Perfino la lingua greca mi venne talora in soccorso per intendere nell'ospedale Cottolengo l'accusa sacra mentale di un cattolico dell'Oriente. Oh potessimo noi colla nostra carità abbracciare tutto il mondo per condurlo alla Chiesa e a Dio!

Frattanto i catechismi quadragesimali erano stati fatti regolarmente tutti i giorni presso al Rifugio, preparandosi così i fanciulli e i giovanotti all'adempimento del precetto pasquale e alle prime comunioni. Ma crescendo fuor di modo il loro numero e mancando i locali, D. Bosco e il Teol. Borel pensarono di cercare un edifizio, nel quale si potessero mandare alcune classi coi rispettivi catechisti. A settentrione del Rifugio, molto vicina, sulla sponda destra della Dora eravi la Chiesa del Cenotafio del SS. Crocifisso con un atrio e un bel cortile. Questo sacro luogo era detto volgarmente cimitero di S. Pietro in Vincoli, poichè qui si seppellivano i defunti prima che fosse edificato il nuovo camposanto generale, e vi si vedevano le tombe di cospicue e nobili famiglie. Pare che il Teologo Borel colla semplice autorizzazione del Curato di S. Simone e Giuda, e colla tolleranza del Cappellano, abbia quivi condotto un bel numero di giovani, ai quali continuò l'istruzione catechistica fino al principio della Settimana Santa. I Catechisti vi si trovarono bene e formarono e manifestarono progetti per l'avvenire. Ma essendo quella Chiesa proprietà del Comune, vi fu qualche malevolo il quale avvertì la Ragioneria di questi disegni. La Ragioneria d'allora era qualche cosa di più della così detta Giunta Municipale di oggidì. Era dessa una scelta dei primari Consiglieri municipali, nelle cui mani concentravansi tutti i poteri della civica amministrazione. Il Capo della Ragioneria, detto il Mastro di Ragione, primo decurione ed anche Vicario di città, era superiore ai Sindaci; e questo Vicario era il Marchese di Cavour.

In Municipio si accettò la denunzia e infatti negli archivi Municipali, esiste la seguente deliberazione colla data del giorno di Pasqua. - “23 Marzo 1845. La Ragioneria sentite le riformazioni date nelle riunioni dei così detti catechisti nella Cappella del Cimitero di S. Pietro in Vincoli, deliberò che ora in avanti sia interdetto l'accesso alla detta Cappella all'uso di siffatto uffizio, pregando ove d'uopo i Signori Sindaci di eccitare l'autorità del Vicario per contenere i catechisti dalle numerose riunioni che vorrebbero farvi.”

Era il principio delle tribolazioni che avrebbero messa a dura prova la costanza di D. Bosco nella sua impresa. Egli però nulla temeva perchè convinto della sua vocazione.

Glorioso intanto di essere membro del regno di Gesù Cristo, rivolto a Roma, al centro dell'unità, s'inchinava al primato non solo di onore, ma di piena giurisdizione del Romano Pontefice su tutta quanta la Chiesa. Con questi sentimenti, faceva presentare a S.S. Gregorio XVI una supplica per favori spirituali, estendibili in parte a cinquanta dei principali collaboratori ossia Cooperatori e Cooperatrici, che con zelo particolare avrebbero impiegate le loro sollecitudini a benefizio spirituale e temporale de' suoi giovanetti. Ecco il tenore della supplica e il Rescritto favorevole.

 

 

Beatissimo Padre,

 

Il Sacerdote Giovanni Bosco di Castelnuovo d'Asti, Diocesi di Torino in Piemonte, approvato per ascoltare le confessioni dei fedeli, umilmente prostrato ai piedi di Vostra Santità caldamente implora:

I. L'indulto dell'Altare Privilegiato due volte per ogni settimana; non avendo altre volte ottenuto simile favore;

II. La facoltà di celebrare il Sacrificio della S. Messa un'ora avanti l'aurora o un'ora dopo mezzogiorno, interveniente giusta e ragionevole causa, e nulla affatto ricevendo in riguardo di questo indulto, oltre la consueta ordinaria elemosina;

III. Indulgenza Plenaria in articolo di morte da lucrarsi, dal Supplicante, da' suoi parenti consanguinei ed affini, sino al terzo grado inclusivamente, e da altre cinquanta persone, da eleggersi ad arbitrio dell'Oratore.

Che Dio ecc.

 

A S.S. Gregorio Papa XVI

Dall'udienza del Santissimo - Addì 18 Aprile 1845

 

 

 

Il Santissimo rimise le preghiere all'arbitrio dell'Ordinario, colle facoltà necessarie ed opportune all'uopo di permettere che l'Oratore, interveniente un giusto e ragionevole motivo, possa celebrare il S. Sacrificio della Messa o un'ora prima dell'aurora, o un'ora dopo mezzogiorno, soltanto che per riguardo a questa concessione nulla percepisca oltre la consueta manuale elemosina. Non ostante qualunque disposizione in contrario. Nel resto accondiscese per la grazia, come si domanda, nella forma tuttavia consueta della Chiesa, e dall'Apostolica Sede prescritta.

 

Pel Card. A. Del Drago

L. Averardi Sostituto

 

 

Con profondo rispetto e con viva gioia D. Bosco ricevette un Rescritto che permettevagli di dimostrare la sua gratitudine a coloro che lo beneficavano. Forse la prima a godere di questa indulgenza fu la Signora Erminia Agnese della nobilissima famiglia Provana del Sabbione, consorte del Conte Carlo Alberto Cays, amico fin d'allora di D. Bosco, ed ammiratore delle suo virtù. D. Bosco affrettavasi a dar comunicazione al Conte e alla Contessa come egli li volesse partecipi del favore insigne concesso dal Pontefice e, quei Signori accoltolo con gran festa instarono che rimanesse con loro a pranzo. Siccome però non era ancor l'ora di mettere in tavola, fu condotto in una elegante stanza ove potesse rimaner libero colle sue carte che sempre portava seco. Ed è qui che accadde un piccolo aneddoto che ci fu narrato dalla stesso Conte: “Rientrato all'improvviso nella camera ove era D. Bosco, ei diceva, lo sorpresi, tutto curvo che si avanzava verso la finestra: - Che cosa fa D. Bosco? gli domandai - Mi rispose - Sto rimovendo il tappeto posto innanzi a questa sedia, che non è fatto per un poveretto pari mio. E ciò disse con tanta ingenuità e verità di espressione che io restai altamente ammirato del come D. Bosco sentisse umilmente di sè.” La Contessa adunque aveva accettato con riconoscenza il Rescritto papale, il quale dopo qualche mese doveva recarle grande conforto nella sua ultima malattia. Il Conte Cays consegnava a D. Bosco il biglietto dell'ultima Pasqua fatta dalla sua nobile sposa nella parrocchia di S. Teresa e D. Bosco conservollo fra le sue carte. Questa biglietto porta stampato il seguente motto: 1845. Magister adest et vocat te (Ioan. XI, 28). Era nostro Signor Gesù C. che chiamava a sè Maria di Magdala una delle sue prime cooperatrici. Felice augurio per una dama che trattava con molta carità D. Bosco ed i poverelli.

Poco dopo D. Bosco faceva chiedere a Roma e ne riceveva la seguente dichiarazione a vantaggio spirituale eziandio dei suoi giovanetti, desideroso di rendere loro pi√π fruttuosa la recita o il canto delle Litanie in onore della Beata Vergine.

 

 

DICHIARAZIONE

 

 Quell'Indulgenza di duecento giorni concessa già da Sisto V di felice rimembranza, e da Benedetto XIII, a tutti i fedeli Cristiani sì dell'uno che dell'altro sesso per ogni volta che con cuore almeno contrito e divotamente recitano le Litanie della Beata Vergine Maria, Pio VII di santa memoria, non solo confermò, ma di più la estese a trecento giorni. Inoltre agli stessi fedeli Cristiani, che avranno ogni giorno recitato le prelodate Litanie, benignamente elargì l'Indulgenza eziandio Plenaria, da acquistarsi nelle cinque Feste di Precetto della medesima B. M. V., cioè della Concezione, della Natività, dell'Annunciazione, della Purificazione e dell'Assunzione, purchè veramente pentiti e confessati abbiano ricevuto il SS. Sacramento dell'Eucaristia, non che divotamente visitato qualche Chiesa, o pubblico Oratorio, e quivi per qualche spazio di tempo abbiano innalzato a Dio divote preghiere. In ultimo volle Sua Santità, che queste Indulgenze siano anche applicabili in suffragio dei fedeli defunti e valevoli in perpetuo.

In fede di quanto ecc.

 

Dato a Roma dalla Segreteria della S. Congreg. delle Indulgenze, addì 28 Maggio 1845

 

A. Arcivescovo Primivalli Sostituto

 

 

 

Con queste due suppliche era la prima volta che D. Bosco si rivolgeva alle Sacre Congregazioni e interrogato da uno dei suoi allievi dei motivo che avevalo determinato a quelle domande, rispondeva: - Non erano solo le indulgenze che mi stavano a cuore, ma sopratutto anelava incominciare a mettermi in relazione diretta colla S. Sede Romana, godeva al pensiero che il mio povero nome sarebbe posto sotto gli occhi del successore di S. Pietro ed erede dei suoi poteri Divini, voleva avvicinarmi a Lui in quel solo modo che allora mi era concesso. - E questa fede e questo affetto, noi aggiungeremo, non si illanguidì mai nel suo cuore. Anche prima che fosse definita l'infallibilità del Pontefice, egli già la credeva fermamente e la difendeva. Venerava tutti i suoi atti, disposizioni, insegnamenti, anche quando non parlava ex cathedra; frequentemente ripeteva che la sua parola si deve sempre considerare come un comando paterno e consigliava i suoi giovani ad essergli obbedienti e a diffidare sempre di chi venisse a parlar loro in qualsivoglia modo, contro il Vicario di Gesù Cristo. Durante quarant'anni della sua vita, il Romano Pontificato nella persona di due Papi, ebbe a passare per molte prove e tribolazioni, ed egli si adoperò sempre a scongiurarle o almeno a lenirle per quanto gli era possibile, anche a costo di tirarsi addosso le vessazioni degli avversari. E si sottopose a gravi umiliazioni per assecondare le viste e i desideri del Papa. Ma di ciò le prove a suo tempo.

 

 

 

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