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Capitolo 12

Esercizii spirituali a Giaveno - Lettera di D. Bosco al Teol. Borel - Amorevolezza di D. Bosco per gli esercitandi - Il mercante e le scimmie - Le prediche di D. Bosco - Visita alla Sacra di S. Michele - Il ritorno a Torino - Guarigione di una febbre ostinata - Minacce contro i giovani dell'Oratorio e perdono.


Capitolo 12

da Memorie Biografiche

del 24 novembre 2006

Nel settembre D. Bosco condusse molti de' suoi giovani a passare una settimana di sacro ritiro nel piccolo Seminario di Giaveno, allora, per le vacanze, vuoto di allievi. Vi si recarono a piedi i giovani dell'Ospizio e un buon numero dei frequenti ai tre Oratorii, che poterono ottenere il permesso dei parenti o dei padroni. Guidati dall'ottimo Teol. Roberto Murialdo, facevano allegramente il viaggio, cantando lodi a Maria Santissima e canzoni morali imparate nell'Oratorio. Don Bosco partì in vettura, sia per andar a preparare il pranzo in Avigliana, sia per accompagnarne alcuni, che per indisposizione non potevano fare il viaggio a piedi. Giunti ad Avigliana, fecero tappa e con discreto pranzo ristorarono la vita sulla riva del delizioso lago. In quell'occasione ebbero la cara sorte di contrarre intima relazione col pio e caritatevole sacerdote D. Vittorio Alasonatti, il quale nutriva tanta stima per l'Oratorio e grande amore a D. Bosco.

Per la spesa occorrente, pel vitto e simili, durante gli esercizi, D. Bosco aveva ottenuto dall'Opera di San Paolo un apposito sussidio, che fu una vera provvidenza. I predicatori furono il canonico Arduino, arciprete della Collegiata di Giaveno, uomo rinomatissimo per dottrina e zelo, il Teologo Giorda e D. Bosco; loro aiutante per le confessioni era il Teol. Roberto Murialdo, direttore dell'Oratorio dell'Angelo Custode. Affinchè il pio esercizio tornasse utile ad un maggior numero di anime, combinò che vi prendessero parte eziandio i giovani del paese; e il bene ottenutone fu grande per tutti.

D. Rua Michele, dopo tanti anni, narra ancora vivamente commosso la cura paterna che D. Bosco prendevasi di lui e di tutti gli altri, sopportando le fanciullesche vivacità di molti e ottenendo amorevolmente silenzio ed attenzione nei tempi designati.

Di questi esercizi così scriveva D. Bosco al Teol. Borel:

 

Car.mo Sig. Teologo,

 

Spero far cosa grata a V. S. Car.ma il partecipare che i nostri esercizii sono ottimamente incominciati. Il numero inter totum ascende a cento trenta; a tavola siamo solo centocinque, gli altri intervengono di fuori per le sacre funzioni. I predicatori sono il Sig. Prevosto per la meditazione, il Teol. Giorda Juniore per l'istruzione; ambedue appagano compiutamente la mia aspettazione e quella dei figli.

Dalle quattro alle cinque è ricreazione, e oggi uscendo di cappella neppur uno volle approfittarne e tutti volevano andare alla camera di riflessione.

A questi giovani vorrei dare una memoria, e per questo lascio a Lei a provvedermi quello che stima, medaglie, croci, ecc. Mi dimenticavo di dirle che nella mia camera all'Oratorio sotto al Burò (Barracon) ci sono corone comperate tempo fa; chi sa che non vada bene il darne una ciascuno? Faccia dunque così: vada a casa mia, prenda le corone in numero di centotrenta; vicino a queste ci sono dei Giovane Provveduto legati in oro, me ne mandi una dozzina; di tutto facendo un pacco solo, lo consegni alla vettura di Giaveno, che parte ogni giorno alle quattro da Torino dall'Albergo della Fucina, e partecipi anche a mia madre che io sto notevolmente meglio; il Teol. Murialdo è un po' rauco, Savio ha le febbri, il portinaio di Vanchiglia anche; gli altri stanno tutti bene. Preghi affinchè tutto vada bene. Saluti D. Pacchiotti, D. Bosio e gli altri nostri preti dell'Oratorio.

Non ho pi√π tempo a scrivere: partecipi il contenuto di questo foglio al Sig. D. Cafasso. Il Signore l'accompagni: Dominus det.

Giaveno, 12 Settembre 1850.

Aff.mo amico

D. Bosco G.

 

P. S. Fu dimenticato un piccolo fagotto in cucina, unito ad un involto di carta, che prego di unire a quanto sopra.

 

In questa lettera si ricorda la ricreazione. D. Bosco s'intratteneva sovente coi suoi esercitandi, i quali dopo pranzo e dopo cena andavano tutti intorno a lui. Scrisse Brosio Giuseppe: “Egli aveva sempre qualche fatterello ameno da raccontare, qualche nuovo scherzo per rallegrarli. Ei non prendeva tabacco, e impediva che i suoi alunni ne prendessero; ma uno dei primi giorni trasse fuori dalla saccoccia una grossa scatola ricolma di questo. Tutti i giovani gli furono ai panni domandandone

un pizzico, e D. Bosco rispose: - Sì, volentieri quando vi fosse necessità: quindi ne darò a tutti quelli che hanno la tabacchiera. - Tosto alcuni già anziani, fra i quali Gillardi Giovanni e Randù Giuseppe, presentarono la loro scatola poichè fiutavano tabacco o pel consiglio del medico avendo male agli occhi o al capo, oppure per antica abitudine. A costoro D. Bosco riempì le tabacchiere e loro provvide il tabacco per tutto il tempo che durarono gli esercizi. Attenzioni di simil fatta gli guadagnavano mirabilmente i cuori”.

Ma sovratutto in queste ricreazioni D. Bosco andava interrogando or l'uno or l'altro sopra il soggetto della predica e sui fatti più importanti. Una mattina egli aveva fatto l'istruzione intorno allo scandalo; perciò nella ricreazione del pomeriggio, trovandosi attorniato da molti giovanetti, tra cui varii della parrocchia, prese a domandare che cosa avesse detto. Interroga uno, e non gli risponde; chiede ad un altro, e si trova nell'impaccio; passa ad un terzo, ad un quarto, ad un quinto, e tutti si grattano la fronte senza dare una soddisfacente risposta. Oh! povero me, esclamò allora Don Bosco! O io ho parlato in tedesco, o voi avete dormito. Finalmente salta fuori un ragazzetto: - Io, io, gridò, mi ricordo. - Di che ti ricordi? - Mi ricordo dell'esempio delle scimmie.

Il racconto di D. Bosco, a mo' di similitudine, era stato questo.

Un mercante, portando sulle spalle, dentro un botteghino (in piemontese bóita), varie sue merci, viaggiava dall'uno all'altro paese per ispacciarle. Una volta tra le altre egli fu sorpreso dalla notte prima che arrivasse ad una certa città. Era d'estate; in cielo risplendeva la pallida luna, e il mercante, stanco del lungo cammino, risolse di prendere riposo per terra presso ad un albero gigantesco. A ripararsi poi il capo dalla umidità della notte, egli, aperta la sua cassetta, ne cava una delle berrette bianche, di cui era fornito a dovizia, se la mette in testa e così si addormenta. Il paese era la patria delle scimmie, ed i rami di quella pianta n'erano coperti. Le bertuccie veduto quell'uomo colla berretta in capo, tratte dal loro istinto, lo vogliono imitare. Che fanno? Comincia una a scendere pian pianino a basso, rovista colle zampe nel botteghino aperto, ne trae una berretta, se l'acconcia in testa e risale sull'albero. Allora tutte, l'una dietro l'altra, fanno altrettanto, e non cessa il giuoco finchè rimane una berretta. Il mercante dormiva saporitamente, e le scimmie per la prima volta dormirono anch'esse col berrettino in capo, siccome delicate signorine. Intanto la notte era trascorsa. Dall'oriente già sorgeva bella e rosseggiante la mattutina aurora, annunziatrice dell'astro del giorno, e il nostro mercante svegliatosi si alza per riprendere il suo cammino. Ma quale non fu la sua sorpresa ed il suo dolore, quando si accorse che gli erano state involate tutte le berrette! Povero me, gridò, vi furono i ladri; io sono rovinato. Ma osservando meglio e riflettendo più attentamente, eppure sembra di no, soggiunse; se fossero stati i ladri mi avrebbero rubato tutto e non solo le berrette; io non ne capisco nulla. In quell'istante egli solleva per caso gli occhi, e vede tutte le scimmie imberrettate. Ah! grida tosto, ecco le furfanti; e subito si mette ad impaurirle, lanciando sassi per costringerle a rilasciargli la sua merce; ma le scimmie saltando da un ramo all'altro non si davano per intese. Dopo parecchie ore d'inutili sforzi, il povero mercante, non sapendo ormai più quel che si facesse, si mette le mani nei capelli quasi per disperazione, e getta rabbiosamente a terra la berretta, che ancor teneva in capo. Visto quell'atto, le scimmie fanno egualmente, e in un batter d'occhio una pioggia di berrette cade dall'albero a consolare l'addolorato mercante.

I giovanetti, aveva conchiuso D. Bosco, fanno presso a poco come le scimmie. Se vedono altri a fare il bene, il fanno pur essi; se il male, lo imitano ancor più presto. Di qui la grande necessità di mettere sotto ai loro occhi degli esempi edificanti, e allontanarli le mille miglia dagli scandali.

Dal vedere poi che tra tante cose, che dette aveva nella sua predica, i giovani a mala pena ricordavano certi fatti, D. Bosco si fece un grande impegno di tessere le sue istruzioni di frequenti esempi e similitudini, che meglio colpissero la loro immaginazione, e per questo mezzo farsi strada ad illuminare la mente e muovere il cuore; e la cosa riuscì con felicissimo esito.

Egli infatti predicava e infiammava le sue narrazioni con tanto affetto per la salute delle anime, che un giorno si commosse al punto da scoppiare in forti singhiozzi, e disceso dal pulpito disse al chierico Savio Ascanio in modo umile e quasi mortificato: Non ho potuto contenermi. - Ma negli ascoltatori commossi produsse un effetto indicibile.

Toccò a lui far la chiusa di questo ritiro spirituale e diede il seguente ricordo: - Fate ogni mese l'esercizio di buona morte. Fate bene ogni mese l'esercizio di buona morte. Fate infallantemente e bene ogni mese l'esercizio di buona morte. - D. Rua che ne tenne memoria.

In premio della loro docilità, ed a sollievo dell'animo, l'indomani della chiusa dei santi esercizi D. Bosco condusse i suoi allievi a fare una passeggiata sino alla Sacra di San Michele. La banda musicale di Giaveno li volle accompagnare per rallegrarli colle dolci sue armonie. Il tragitto per l'erta salita fu un divertimento dei più deliziosi.

Il loro capitano cavalcava un piccolo giumento, e i giovani gli facevano corona, ora scherzando col somarello, ora ripetendo la canzone, allora famigliarissima, che incomincia:

 

Viva D. Bosco,

Che ci conduce

Sempre alla luce

Della virt√π,

Che in lui men lucida

Giammai non fu.

 

D. Bosco invece, facendo una variante al primo verso, cantava: Viva Roberto, rivolgendo il resto della lode al Teol. Murialdo, compagno di viaggio. Di tratto in tratto poi si faceva una breve fermata; i musici davano fiato alle trombe, e le armoniose note, battendo dall'una all'altra cima, echeggiavano maestosamente nelle sottostanti vallate. A quell'insolito rumore gli uccelli atterriti svolazzavano da un albero all'altro; i contadini uscivano dai loro abituri per ascoltare; e l'asinello rizzava le orecchie, e col suo scomposto raglio si provava d'accordarsi colla banda; erano scene di un piacere indicibile. Giunti alla sospirata meta, vi furono accolti con amorevole trasporto dai cortesi Padri Rosminiani, che amministravano religiosamente quel celebre santuario. A questi era stretto D. Bosco con grande amicizia, e quando erano in viaggio, non avendo essi casa in Torino, venivano ospitati in Valdocco. I giovani visitarono poscia la chiesa, lo stabilimento e le sue vetuste memorie; ne udirono da D. Bosco la storia, riportandone cognizioni utilissime.

D. Bosco in qualsivoglia paese andasse co' suoi giovani, soleva raccontare l'istoria dei luogo e di qualche fatto memorabile ivi accaduto. Perciò disse loro: “Questo santuario di S. Michele della Chiusa detto comunemente La Sacra di S. Michele, perchè consacrato ad onore di quest'Arcangelo, è una delle più celebri Abbazie dei Benedettini in Piemonte.

Da semplice romitaggio che era verso l'anno 990, fabbricato ad ispirazione di S. Michele da un certo Giovanni da Ravenna, uomo di santa vita, che s'era colà ritirato, fu mutato pochi anni dopo da Ugone di Montboisier detto lo Scucito, gentiluomo dell'Alvernia, in maestosa chiesa di stile gotico, con un grande Convento annesso per l'abitazione dei monaci. Ugone, che faceva costrurre a sue spese questo monastero, in penitenza dei suoi peccati, pel cui perdono aveva fatto il pellegrinaggio di Roma, lasciò l'incarico dei lavori ad Atverto o Avverto, Abbate di Lusathe in Francia; il quale, terminata la costruzione dell'edificio, chiamò ad abitarlo i monaci Benedettini, che elessero Atverto stesso per loro primo Abbate. Sparsasi in breve la fama di lor santità, venne il monastero ad annoverare fino a 300 monaci; e Papi e Vescovi, Re e Duchi si diedero a gara nel largheggiare in privilegi e donativi al medesimo. - Perdutasi però la primitiva regolar disciplina, fu nel 1383 eretto in Abbazia commendatizia sotto il protettorato dei Conti di Savoia, e durò tale sino all'invasione francese, sul principio di questo secolo, quando col resto fu anche soppressa la celebre Abbazia. Ristorato però ed abbellito dai danni del tempo per magnificenza dei nostri buoni sovrani Carlo Felice e Carlo Alberto, venne ceduto ai Padri Rosminiani, che oggi vi accolsero con tanta affezione e generosità. Fra questo monte sul quale ora siamo, detto Pircheriano, e l'altro monte detto Caprasio che vi sta di fronte, voi vedete là in fondo una valle larga poco più di mille passi. Quella forma la chiusa o gola di Susa, così detta perchè quasi chiude il passo agli eserciti, che per colà scendessero dalla Francia. È celebre nella storia questo passo per lo stratagemma di Carlo Magno, che per soccorrere il Pontefice di Roma, superata la Chiusa, prese alle spalle Desiderio re dei Longobardi, e sconfittolo, pose fine al loro regno in Italia”.

Quantunque ai giovani non facesse dispiacere l'imparare cose fino allora ignorate, tuttavia verso il mezzogiorno un'altra curiosità ne preoccupava la mente. La passeggiata del mattino e l'aria finissima che spirava su quelle giogaie alpine, avevano suscitato dentro di loro un bisogno, a cui si dà il nome di appetito; anzi più che appetito, il loro si poteva dire vera fame. Laonde nella visita, passando da un luogo all'altro, non potevano trattenersi di volgere di quando in quando un'occhiata furtiva al refettorio, e tardava mille anni che venisse l'ora del pranzo. Questa giunse alla perfine, e quantunque non fossero tutti musici, mangiarono nondimeno tutti con appetito musicale.

Non avendo poi di che soddisfare i caritatevoli ospiti, li retribuirono cantando e sonando. Quindi, se i figli di D. Bosco goderono in quel giorno, assai più si mostrarono lieti i buoni Padri, che fattisi in mezzo a loro li menavano qua e colà a visitare i contorni, ed altre rarità pur degne di particolar attenzione. Passate alcune ore di nuovi divertimenti, si raccolsero tutti appiè dell'altare, e cantate le litanie, s'impartì la benedizione col. SS. Sacramento.

Invocata così la protezione del Cielo, si fece ancora una sonata, si diede un cordiale saluto ai vigili custodi del rinomato Santuario, e verso le cinque pomeridiane, fattasi da quei buoni Padri una distribuzione di pagnotte coll'accompagnamento di eccellente frutta, pieni di riconoscenza, presero da loro commiato e cominciarono a discendere. Arrivati a S. Ambrogio, sito dove la via si divide in due, si fece una breve sosta. I musici sonarono un'allegra sinfonia, alla fine della quale quei di Torino gridarono Evviva ai Giavenesi, e questi ripeterono Evviva ai Torinesi, e coi segni della più affettuosa amicizia si separarono, quelli per ritornare a Giaveno, e questi a Torino per la via di Rivoli. Camminarono tra lieti cantici, la recita di preghiere divote e il racconto di graziosi fatterelli, ora di D. Bosco, ora del Teol. Murialdo; il quale rifacendosi sui santi Esercizi lasciò loro per ricordo, che ogni giorno di loro vita recitassero un'Ave Maria, per ottenere la grazia che niuno di quelli che li avevano fatti, avesse da perdersi nell'inferno. - Che dolce piacere non sarà mai, loro diceva quel buon religioso, che gioia non sarà mai quando potremo fare tutti insieme le nostre belle passeggiate sugli eterni ed amenissimi colli del Paradiso!

Giunsero alla città di Rivoli a notte alquanto avanzata, la maggior parte stanchi da non poterne più. Rimanevano ancora a farsi 12 chilometri. A D. Bosco non resse il cuore di far proseguire la via sino a Torino in quello stato, e condottili ad un albergo cercò di quante vetture ed omnibus si poterono rinvenire, per farveli trasportare. Ma non si trovarono veicoli quanti bastassero, e quindi una ventina di giovani dovettero rassegnarsi e continuare il viaggio a piedi. Ma a questi D. Bosco pensò in altro modo, e dopo averli rallegrati con buone parole, chiamato a sè  Brosio, il cosi detto Bersagliere, gli consegnò una somma di danaro, affinchè li facesse tutti ristorare con una buona cena; e così fu fatto. Tornò allora in mente il buon Gesù, che, vedute le turbe indebolite per averlo seguito sino nel deserto, esclamò da Padre amoroso: Ho compassione di questa gente: Misereor super turbas; e loro provvide, perchè non venissero meno per istrada.

Riposata alquanto e rifocillata, la retroguardia si rimise in via per alla volta di Torino. La notte era già molto inoltrata, e per bandire la paura dall'animo dei più timidi e per far parere meno lungo il loro tragitto, il Bersagliere usò uno stratagemma: diè  di piglio a due pietre, invitò gli altri a far altrettanto, e tutti ad un tempo incominciarono a batterle insieme. In tal modo fu improvvisata una musica ed una luminaria di nuovo conio, e tra quel martellare e scintillare di sassi giunsero all'Oratorio verso le undici di sera.

Il 21 settembre 1850 D. Bosco firmava e presentava in carta da bollo la nota dei nomi dì ben cento di questi esercitandi, alla direzione dell'Opera pia di S. Paolo, la quale pagò la spesa intiera dei loro esercizi. Una lista di altri nove nomi completava la precedente, cosicchè dai nostri archivii si può conoscere la maggior parte di quelli che andarono a Giaveno e la loro età.

Abbiamo voluto narrare distesamente la storia di questi Esercizi e di questa passeggiata, perchè nei giovani rimase impressa come una delle più grate rimembranze, e perchè meglio si conosca lo studio di D. Bosco nel far servire Iddio in una santa allegrezza.

Ad alcuni questa passeggiata diede eziandio argomento, delle singolari virtù di D. Bosco. Egli, per ottenere da Dio guarigioni ed altre grazie era solito a suggerire a coloro che a lui ricorrevano preghiere speciali e qualche volta anche voti. Il giovane Reviglio Felice aveva sopportate per più mesi febbri terzane, le quali lo avevano ridotto al punto che i medici lo dichiararono etico. D. Bosco lo aveva condotto a Giaveno, e nella confessione, come Reviglio stesso ci raccontò, gli suggerì di fare il voto di frequentare il Sacramento di penitenza ogni otto giorni per lo spazio di sei mesi. Nello stesso tempo consigliavagli alcune pie pratiche. Questo mezza fu più efficace di tutte le medicine che fino ad allora non avevano giovato, e in breve tempo il giovanetto fu rimesso in perfetta salute.

Un altro giovane sui ventisette anni, uno fra i più vecchi che frequentavano allora l'Oratorio, che faceva gli esercizi, del quale è meglio tacere il nome, entra in sagrestia mentre D. Bosco era pronto per andare a celebrare la S. Messa. Brosio Giuseppe teneva già il messale per servirla e quel giovane villanamente glielo strappa di mano e difilato si avvia. D. Bosco, che fu sempre l'uomo del perdono, vedendo Brosio così ingiuriato, gli fece subito cenno coll'occhio di cedere e tranquillarsi. Ma dopo la messa, presolo a parte gli disse: - Brosio, hai fatto una bella azione a cedere. Vedrai a suo tempo chi è questo giovane! - E purtroppo D. Bosco indovinava.

Infatti dopo qualche tempo questi vendevasi ai protestanti, disertava dall'Oratorio e primeggiava fra gli schiamazzatori e bestemmiatori della Giardiniera. Più volte compariva minaccioso nei pressi dell'Oratorio per spaventare i giovani e così indurli a star lontani da D. Bosco; ma questi aveva già detto qualche cosa a Brosio riguardo alla condotta di quel miserabile, e perciò il Bersagliere lo sorvegliava. Un giorno si presentò al cancello di entrata del cortile, armato di un lungo stiletto, pronto ad adoperarlo se qualcuno avesse tentato di respingerlo. Un fanciullo corse subito ad avvertire il Bersagliere, mentre gli altri compagni pieni di spavento erano fuggiti all'estremità opposta. Brosio si avvicinò a lui, pregandolo a ritirarsi, prima amorevolmente e poi con alquanta risolutezza; ma vedendo che nulla poteva guadagnare, perchè quell'accattabrighe ubbriaco cercava pretesti per venire a colluttazione, si ritirò, osservandolo a rispettosa distanza. Ma quel furioso non tardò a cadere nelle mani della giustizia, e D. Bosco chiamato a deporre contro di lui, gli ottenne il perdono e il condono della pena, e solo si raccomandò al tribunale che volesse tutelare la sua persona, e l'Oratorio: il che venne eseguito coll'allontanamento di quel soggetto, riconosciuto pericoloso, dalla città di Torino. Ciò seppe D. Rua da chi aveva accompagnato D. Bosco al tribunale.

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