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Capitolo 10

Calma di D. Bosco e intrepidezza dei giovani nell'assistere i colerosi - I lazzaretti e le sassate - Vari aneddoti nelle case degli infermi - Un coleroso da D. Bosco trasportato all'infermeria - Suo nuovo appello e nuovi infermieri - La Madonna risana la madre del chierico Francesia.


Capitolo 10

da Memorie Biografiche

del 28 novembre 2006

 D. Bosco era stato dato l'incarico di Direttore spirituale di un lazzaretto della parrocchia di Borgo Dora, stabilito ove ora è il ritiro di san Pietro ed in una casa attigua. Egli e D. Alasonatti erano sempre pronti a correre ove fossero chiamati. Si davano lo scambio perchè uno di essi rimanesse in casa, ma talora dovevano andare tutti e due. Non badavano nè a cibo, nè a sonno, nè a riposo. D. Bosco gettavasi allo sbaraglio, non curandosi di veruna precauzione per non attaccarsi il morbo. La prima volta che andò al lazzaretto si lavò con acqua di cloruro, come usavano gli altri ogni qualvolta entravano in quel luogo; ma poi non volle più assoggettarsi a simile precauzione per non perdere tempo. Vegliava di giorno e di notte. Per lungo tempo non prese altro riposo che gettandosi per un'ora o due su qualche sofà o seggiolone. Di dormire in letto non se ne parlava.

   Coi giovani più grandicelli egli andava continuamente qua e là dove sapeva esservi colerosi, portando medicine, limosine e robe. Entrava in tutte le case ove erano infermi, ma non poteva fermarsi molto tempo essendo troppi coloro che avevano bisogno del suo ministero sacerdotale. Quando vedeva che in quelle case vi era nessuno per l'assistenza corporale, lasciava o mandava poscia uno dei suoi giovani, i quali passavano molte notti al letto degli ammalati. Colla sua calma amorevole egli sapeva incoraggiarli, lodandone la buona volontà, e non ebbe mai Parole che accennassero alla minima impazienza. Il ch. Francesia, essendo già passata la mezzanotte, assisteva un infermo in una casetta, posta ove ora è la nostra tipografia. Vedendolo venir meno corse fuori, saltò il muretto di cinta del cortile e chiamò D. Bosco, rincasato da poco tempo. Egli andò subito, ma l'infelice era già morto. Tuttavia non si lamentò d'essere stato costretto ad alzarsi inutilmente a quell'ora; nè redarguì il giovane che avesse così tardato a chiamarlo; e tutto tranquillo ritornò in camera.

   Anche la carità dei giovani infermieri si mostrò eguale a quella di D. Bosco. Ma non si ha a credere che loro non toccasse di fare da principio un supremo sforzo, per superare la paura e vincere se stessi. Tra gli altri uno di quei 14, che pei primi diedero il proprio nome, e si accostarono coraggiosamente al letto dei colerosi, basterebbe da solo a farci comprendere la violenza che fu loro necessaria, per applicarsi a quell'opera, e durarla sino alla fine. Imperocchè la prima volta che egli pose piede nel lazzaretto, al vedere gli atti che facevano i colpiti dal terribile morbo, al mirarne le facce livide e incadaverite, gli occhi incavati e semispenti, al vederli sopratutto a spirare in orribil modo, fu preso da tanto spavento, che divenne pallido al pari di loro, gli si oscurò la vista, gli mancarono le forze e svenne. Fortunatamente si trovava con lui D. Bosco, il quale, accortosi del caso, lo trattenne dal cadere a terra, lo trasportò all'aria libera, e lo fece tosto confortare con apposita bibita; chè altrimenti il poverino sarebbe forse stato giudicato per assalito dal coléra, e messo cogli altri infermi.

Veramente non di poco coraggio era d'uopo esser fornito, per raggirarsi intrepido tra quei luoghi del dolore e della morte. Imperocchè oltre gli strazianti patimenti, a cui erano in preda tanti poveri malati, restringeva il cuore per alta compassione, il vederli, non appena spirati, trasportare nel vicino deposito, e quasi subito trasferire al cimitero e sotterrare. Talvolta parevano ancor vivi, e già venivano collocati tra i morti. Nel lazzaretto ove servivano i giovani dell'Oratorio, avvenne tra gli altri questo episodio. Si era da poco trasferito nella vicina camera mortuaria un cadavere, mentre D. Bosco s'intratteneva col dottore; quando il custode viene nella infermeria e dice al medico: - Signor dottore, quel tale si muove ancora; dovremo forse riportarlo qui? -Lascialo pur là, rispose burlescamente il medico; bada solo che non ti scappi. - E poi rivoltosi a D. Bosco, riprese: - Bisogna essere crudeli a parole, per non essere crudeli nei fatti. Guai se lo scoraggiamento invadesse i nostri inservienti! Che ne sarebbe degli infermi? - Gli inservienti infatti avevano tanta paura, che bisognava quasi ubbriacarli quando vi erano morti o malati da trasportare. Quindi ognuno può immaginarsi quale sangue freddo, o, per meglio dire, quale fortezza d'animo fosse necessaria possedere, per assistere impavidamente a siffatte scene.

  Nei primi giorni poi, non solo era mestieri rendersi superiore alla paura del morbo e della morte, ma delle minacce altresì di certa gente. Qui giova sapere che i lazzaretti, quantunque venissero impiantati nei sobborghi e fossero una saggia provvidenza, tuttavia erano mal visti, anzi aborriti e dai malati e da coloro che ne avevano le abitazioni vicine. I primi erano dominati dal pregiudizio, che in quei luoghi si morisse più presto e si facesse anche morire, mediante l'acquetta; i secondi temevano non senza ragione che il lazzaretto corrompesse più facilmente l'aria all'intorno, e mettesse a repentaglio la loro vita. Perciò, non avendo potuto impedire che si fossero là aperti, taluni si argomentarono di farli chiudere o renderli inservibili, per vie altrettanto vili, quanto illegittime. In Borgo S. Donato, come pure altrove, una turba di monellacci del vicinato prese il partito di atterrire quanti si presentavano a servizio degli infermi colà ricoverati, immaginandosi che non se ne sarebbero portati altri, qualora niuno si ardisse di recarsi a curarli ed assisterli. A questo intento quei, malevoli cominciarono colle minacce, indi scesero persino alle busse ed alle sassate, sicchè per portarsi al lazzaretto o partirne, specialmente di notte, convenne per alcun tempo farsi scortare dalla pubblica forza. Era appunto una delle prime sere, quando due dei nostri, tra cui il chierico Michele Rua, se la videro assai brutta; poichè usciti dal lazzaretto, allorchè furono in una oscura discesa diretti verso l'Oratorio, odono un incomposto frastuono di urli e di fischi, misti alle grida di dagli, dagli. Nè bastò; perocchè quei dissennati, dato di piglio a ciottoli, di cui abbondava il sito, ne diressero alla loro volta tale una tempesta, che i due giovani infermieri dovettero alla prestezza delle loro gambe e al fortunato incontro di due guardie daziarie, se non ne furono raggiunti e malconci. Anche D. Bosco più volte fu preso a sassate.

   Non ostante questa disumana accoglienza, si continuò a recarsi al lazzaretto, finchè ne fu bisogno. In appresso si raffreddò l'ira dei vicini, rimanendo solo l'ammirazione di tutta la città.

   Agli infermi però era cosa ben difficile toglier loro dal capo l'ubbìa del veleno. Fra i molti fatti non ne passeremo sotto silenzio alcuni per essere abbastanza interessanti e graziosi.

   In casa Moretta eravi un uomo colpito dal male. Il meschino, persuaso che questo malore fosse opera di gente malvagia che lo spargesse recando seco l'acquetta, aveva messo un'arma da fuoco carica presso il letto, proibendo a chiunque non fosse della famiglia di entrare in camera. Minacciava risolutamente di sparare sovra qualunque estraneo. Infatti, essendosi presentato un prete per confortarlo, costui aveva dovuto indietreggiare ed allontanarsi, avendo l'infermo abbrancata la sua arma.

   Il male cresceva rapidamente, i suoi parenti non sapevano a qual partito appigliarsi e finalmente andarono a chiamare D. Bosco che lo conosceva, e che era da lui molto stimato.

   D. Bosco accettò subito quell'invito ed andò, e quando fu su la loggia lo chiamò per nome.

     - Oh D. Bosco! rispose l'ammalato.

     - Posso venire?

     - Venga, venga, D. Bosco. Lei, son certo, non mi porterà l'acquetta!

D. Bosco entrò, ma appena ebbe passata la soglia, colui lo fermò con voce imperiosa e gli intimò - Apra le mani.

     D. Bosco gli mostrò la palma della mano destra.

     - Mostri anche la sinistra! continuò con impazienza l'infermo.

     D. Bosco aperse la sinistra.

     - Scuota le maniche colle braccia in giù!

     D. Bosco eseguì.

     - Ha nulla in saccoccia?

     D. Bosco scosse e rovesciò le saccocce.

     - Adesso venga pure vicino al letto, son sicuro!

     D. Bosco lo confessò! Dopo qualche istante, avendo quell'infelice perduta la conoscenza, Tomatis, entrato con un altro compagno, lo involse in una coperta, e, stesolo sopra una barella, lo portò al lazzaretto, ove morì.

  Si era sparsa eziandio nel popoletto un'altra voce: che cioè il coléra fosse cagionato specialmente da una certa acqua biancastra per causa di certe polveri mortifere, che si diceva trovarsi nei pozzi: quindi molti non volevano più bere.

  Ora D. Bosco, essendo stato chiamato presso un infermo piuttosto grave, dopo avergli amministrato i sacramenti, vide che, quantunque avesse arse le fauci da una gran sete, pure non voleva in nessun modo inumidirle.

  Siccome D. Bosco era sempre ascoltato, quindi gli preparò un'ampolla e gli disse di bere quel liquido senza timore quando fosse crucciato dalla sete. L'infermo promise, e D. Bosco, lasciato un giovane per servirlo lungo la notte, se ne andò a visitare altri colerosi. Dopo un po' di tempo, quel giovane vedendo l'infermo aggravarsi, gli disse: - Eccole un po' da bere.

Il malato, dimentico delle assicurazioni di D. Bosco, si fa forza, si volge e lo guarda con aria

     - Prenda, prenda; beva, continua il giovane porgendogli l'ampolla.

     - Che cosa hai detto? Che cosa dici? Parti, parti immediatamente da questa camera!

     -Si acquieti; beva: ne sentirà sollievo replicò il piccolo infermiere.

     - Non parti? grida l'ammalato; e preso come da frenesia, sbalza dal letto, corre barcollando a prendere un fucile e lo appunta verso la porta. - Vedi: se non parti! - Ma il giovane aveva già prese le scale a precipizio.

   Più volte D. Bosco stesso aiutò a trasportare i colerosi. Nel mattino del 16 di agosto, festa di S. Rocco, compatrono di Torino, mentre si avvicinava per rientrare nell'Oratorio, vide seduto sulla sponda di un fosso del prato dei fratelli Filippi, già campo de' suoi primi convegni, un giovanotto che mangiava con avidità un grosso melone.

      - Lascia stare, gli disse D. Bosco, potrebbe farti male.

     - È  tanto buono questo melone che a me non farà del male, rispose quel giovane; sono io che ne faccio a lui. - D. Bosco lo invitò ancora a desistere, ma non vi riuscì; e quindi continuò il suo sentiero ed entrò in casa. Ma non era ancora giunto in camera, che arriva una persona annunciando che un povero operaio era nel prato in preda ai dolori e chiedeva soccorsi. D. Bosco si porta subito sul luogo e vede il giovanotto, che non aveva dato ascolto al suo consiglio, gemere e contorcersi, avendo ancora d'accanto una metà del suo melone.

Alcuni curiosi lo stavano osservando da lontano con aria di spavento, e niuno osava avvicinarsi. D. Bosco, fattoglisi da presso, lo confortò con incoraggianti parole e gli soggiunse: - Che cosa hai? - Non so.... mi viene freddo.... ho un brivido nelle ossa.... - D. Bosco lo prese per le mani, che erano gelate, sintomo certo del morbo micidiale. Allora invitò il poveretto ad alzarsi ed a venire con lui; ma l'altro malgrado i suoi sforzi, fatto qualche passo tornò a sedersi dicendo: - Le gambe non mi reggono più.

  D. Bosco, girati gli occhi attorno per chiamare gente, vide passare Tomatis e fattogli cenno, egli da una parte e Tomatis dall'altra, preso l'infermo sotto le ascelle, lo sollevarono e si misero in via. Il poveretto per qualche tempo potè ancora strascinare i piedi e camminare; ma arrivato ad un certo punto fu assalito dal granchio e da dolori così gagliardi che si lasciò andare a terra come corpo morto. Ciò visto, i due pietosi incrociando le mani, formarono una specie di sedile e così lo portarono per un tratto. - Ma dove mi conducono? - chiedeva quel poveretto.

     - Qui vicino, presso un mio amico, in una casa sanitaria dove tu potrai essere curato; rispondeva Don Bosco. - Non diceva al lazzaretto, perchè questo nome lo avrebbe spaventato.

  Intanto, via facendo, gli cadeva il melone che ancora teneva fra le mani e voleva che i suoi portatori si fermassero per raccoglierlo. D. Bosco lo contentò; ma Tomatis, vedendo il suo Superiore soverchiamente stanco, tirossi l'infermo sulle spalle, che per lui robustissimo era peso leggero, D. Bosco lo seguiva, sostenendo di dietro quel poveretto perchè non stesse troppo disagiato. A questo modo si giunge al lazzaretto, dove gli infermieri, vista la gravità del caso, prepararono subito un bagno caldo. D. Bosco frattanto invitò il giovane a confessarsi, per disporlo a morire e il poveretto si confessò alla meglio, ma con vero sentimento di dolore. Subito dopo entrò in delirio, parlando del suo melone e di otto soldi che aveva nascosti in saccoccia. Temeva che qualche mano ladra glieli portasse via. D. Bosco gli chiese se desiderava che egli glieli custodisse, e quel giovane tranquillatosi gli con segnò il suo piccolo tesoro, dicendogli: - Me li conservi per quando sarò guarito. - Intanto arrivava il dottore; il giovane è messo nel bagno e vengono eseguite le fregagioni per farlo sudare. Cure inutili: a mezzogiorno egli non era più.

   Il morbo invadente imponeva dunque continui sacrifizi di carità corporale e spirituale, e D. Bosco a stento poteva provvedere a tanti bisogni. Talora accadde che i giovani, fattisi inscrivere come infermieri, si trovassero tutti contemporaneamente ad assistere i colerosi e in casa rimanessero solamente i più giovani, i più deboli di sanità, e anche i più timidi. Eppure D. Bosco aveva bisogno di altri che lo accompagnassero o che andassero ove erasi fatta urgente richiesta. Un mattino doveva recarsi al lazzaretto per amministrare l'Olio santo; ma conveniva che qualcuno gli portasse i vasi sacri, mentre egli avrebbe amministrato il sacramento. Nessuno dei giovani rimasti in casa osava accompagnarlo. Dopochè alcuni si erano rifiutati, D. Bosco invitò Cagliero Giovanni, che allora stava ricreandosi con i compagni:

- Vuoi tu che andiamo noi?

   - Andiamo! rispose risolutamente Cagliero; e subito si misero in cammino. Giunti al lazzaretto, Cagliero aiutò D. Bosco nei preparativi per l'amministrazione dell'Olio santo e rispondeva alle preghiere di rito, passando da un giaciglio all'altro. Un medico sopraggiunto vide quel giovanetto e disse: -D. Bosco, che cosa fa? questo giovane non può e non deve star qui! Non le pare una grave imprudenza? - No, no, signor dottore, rispose D. Bosco, - nè lui, nè io abbiamo paura del coléra e non succederà niente.

Cagliero infatti per coraggio e abilità poteva star a paro di un provetto infermiere, e con lui anche Anfossi Giovanni Battista, il quale così ci lasciò:scritto: “ Ebbi la fortuna di accompagnare D. Bosco in parecchie visite che faceva ai colerosi. Io allora aveva soli 14 anni, e ricordo che, prestando la mia opera come infermiere, provava una grande tranquillità, riposando sulla speranza di essere salvo, speranza che D. Bosco aveva saputo infondere ne' suoi alunni. In tale assistenza mi confortava anche la carità di D. Bosco. Era una tenerezza il vedere con quanta amabilità e destrezza egli sapeva indurre gli ammalati a ricevere i conforti della religione e a fare una buona morte; e come riuscisse a tranquillizzarli sulla sorte dei poveri, figliuoli, che sarebbero rimasti senz'alcun appoggio. Un giorno lo vidi ritornare all'Oratorio conducendo ben sedici fanciulli, che aveva raccolti qua e là nelle case, rimasti orfani dei genitori. E li tenne tutti con sè, e poi li avviò secondo l'attitudine o agli studi o ad un'arte. E questi non furono i soli, che lagrimosi traeva per mano per consegnarli nelle braccia amorose della Divina Provvidenza ”.

   L'esempio di Cagliero, di Anfossi e di altri qualche giorno dopo animò quelli che non avevano saputo ancora risolversi.

   “ Infatti, attestò il Ch. Reviglio Felice, tornando Don Bosco dalla città, i rimasti in casa si stringevano intorno a lui. Ed egli esclamava: - Chi vuole andare al lazza­retto e nelle case dei privati ad assistere i colerosi? - lo! Io! - gridavano tutti con slancio di carità. - Egli allora rivolse direttamente a me quella interrogazione, e forse fui l'unico che non accettò, perchè io desiderava un comando. D. Bosco con un sorriso sulle labbra parve ac­condiscendere a lasciarmi in pace. Ma, quasi avesse letto nel mio cuore, mi scelse tosto ad accompagnarlo; mi chiamò e, mandato da lui stesso, prestai l'opera mia, assistendo sei colerosi sino all'estremo della loro vita ”.

   Presero parte a queste veglie, con D. Bosco, Turchi Giovanni e Gastini Carlo; ma nell'assistenza continua si segnalarono in modo particolare il Ch. Rua, il Ch. Buzzetti Giuseppe e il Ch. Francesia. D. Bosco pregava continuamente per la salute de' suoi figliuoli, e la Madonna lo esaudiva, dando per soprappiù al Ch. Francesia una prova della sua materna protezione.

   La madre di questo buon chierico era stata colpita dal morbo in modo fierissimo. Il figlio avvisato corse a casa e la trovò in uno stato che dava poca speranza. Ritornato in fretta all'Oratorio, chiamò D. Bosco, il quale tosto si mosse per confessarla. Abitava in faccia alla chiesa della Consolata. Come D. Bosco fu innanzi alla colonna dell'Immacolata posta sulla piazza, scoprendosi il capo e mostrando a Francesia la statua di Maria: La vedi? gli disse; Essa ti guarirà infallantemente la madre se le prometti di consacrare, quando sarai prete, in modo particolare la tua vita per propagare la sua gloria e la sua devozione. - Il chierico accettò il patto. D. Bosco salì allora all'abitazione dell'inferma, la consolò e confessò, e subito le fu amministrata l'Estrema Unzione. Ritiratosi D. Bosco e rimasto il figlio, venne il medico, impiegato alla fucina delle canne, il quale disse unico rimedio essere una replicata estrazione di sangue. Le donne del vicinato, che avevano ingombrata la stanza, criticavano l'ordinazione del medico e insistevano presso l'inferma perchè non si lasciasse aprir la vena. Il medico, immobile e silenzioso in mezzo a quel chiacchierio, disse in fine: - Io non cavo sangue se l'inferma non lo permette. -E quindi uscì. Il figlio fece allora sgombrare la camera e pieno di fede nella parola di D. Bosco disse alla madre: - E che cosa faremo dunque?

    - Di' tu, replicò la buona donna: - qual è il tuo parere?

    - Io direi di fare quello che il medico ha proposto.

    - E tu vallo a chiamare!

  Il figlio raggiunse il medico ai piedi delle scale e lo pregò a risalire, dopo averlo assicurato che la madre si rimetteva pienamente al suo consiglio. Fu cavato sangue cinque o sei volte e l'inferma guarì e visse ancora ventun anno.

 

 

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