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Capitolo 10

Morte del Cav. Di Santarosa - Espulsione dei Serviti Monsignor Fransoni a Fenestrelle - Condanna di altri Vescovi - Perquisizioni agli Oblati e tumulti popolari D. Bosco e gli Oblati - Dimostrazione contro l'Oratorio sventata - Restituzione ai Serviti della roba tolta dal fisco - Turpe eresia di D. Grignaschi - D. Bosco lo visita nelle carceri d'Ivrea.


Capitolo 10

da Memorie Biografiche

del 23 novembre 2006

Al padre Superiore dell'Ordine dei Servi di Maria che col Padre Carlo Baima era andato a Pianezza, diceva Mons. Fransoni: - L'idra è sguinzagliata, tristi cose si vedranno succedere; il piano è preparato, i mezzi sono pronti. - Indi facendo allusione alla scacciata dei figli di S. Ignazio, ripigliava: - Prima Gesù (i Gesuiti), poi Maria (i Serviti), quindi tutti gli altri santi (gli ordini religiosi) ed io... io dovrò andare in esiglio. Lo vedrete!

E le tristi previsioni si avverarono, rincrudendo in D. Bosco e nei suoi giovanetti i passati dolori.

Uno di quelli che avevano votato la legge Siccardi, incorrendo le scomuniche, fu il Cav. Pietro Derossi di Santarosa, Ministro di agricoltura e commercio. Apparteneva egli alla parrocchia di S. Carlo, amministrata dai Servi di Maria, di cui era parroco, superiore e provinciale il Padre Buonfiglio Pittavino, religioso che ad una grande bontà di cuore univa una fedeltà incrollabile al sacro suo dovere. Sulla fine di luglio, il Santarosa cade gravemente ammalato e domanda i sacramenti. Egli si era bensì confessato, ma per ricevere il Santo Viatico gli è richiesta dal parroco una sufficiente ritrattazione del mal operato contro la Chiesa. Il Santarosa la ricusa, ma finalmente agli estremi vi si arrende, e muore la sera del 5 agosto senza avere così potuto essere viaticato.

Parenti, amici, ministri, senatori, deputati, tra i quali il Conte Camillo di Cavour, giornalisti e strilloni strepitano e gridano all'intolleranza del Parroco e dell'Arcivescovo, accusandoli di avere violentata la coscienza del defunto; un nembo di fannulloni e prezzolati, quasi tutti fuorusciti da varii Stati d'Italia, urlano sulle piazze, assalgono il Convento dei Serviti, con parole da cannibali minacciano la vita al parroco, e poco mancò che non lo facessero a brani. Durante il trasporto funebre non cessarono di svillaneggiarlo e minacciarlo, e le grida e le fischiate furono così alte e frequenti da coprire il canto del Miserere.

Il 7 agosto il Padre Pittavino con tutti i suoi correligiosi erano espulsi dal Convento, del quale il Governo pigliava possesso: e fattili salire in carrozze già preparate e scortate dai carabinieri, parte furono condotti ad Alessandria e parte a Saluzzo.

Dopo i Servi di Maria si venne alla volta di Mons. Fransoni. Al domani della morte del Santarosa, in nome del Governo, il conte Ponza di San Martino col cav. Alfonso La Marmora, Ministro della guerra, si porta a Pianezza, dove l'Arcivescovo si trovava in campagna e gli domanda la rinunzia dell'Arcivescovado. Egli risponde intrepidamente di no, e con parola franca soggiunge: “Mi stimerei un vile se, in momenti così critici per la Religione, rinunziassi alla diocesi ”. Ed ecco che il giorno dopo, 7 agosto, i carabinieri si portano a Pianezza e lo conducono prigione nella fortezza di Fenestrelle, posta sopra le Alpi, ove regna un lungo e rigidissimo inverno con venti, nevi, nebbie spaventose. Il governatore Alfonso de Sonnaz lo accolse cortesemente, ma dovette chiuderlo in poche camere, e tenerlo sotto stretta sorveglianza. Il Ministero gli ricusò persino di poter confessarsi ad uno dei cappuccini cappellani del forte. Poco dopo si toglieva al Teologo Guglielmo Audisio, celebre per l'educazione che dava al clero, la presidenza dell'Accademia di Superga, in punizione di essere uno degli scrittori dell'Armonia, rimanendo l'Accademia da quel punto senza convittori. Nello stesso tempo, per la legge Siccardi, l'Arcivescovo di Sassari era condannato ad un mese di carcere, che scontò chiuso nel suo palazzo essendo mal fermo dì salute; e l'Arcivescovo di Cagliari, privato della sua Mensa e scacciato dal Regno, veniva condotto per forza a Civitavecchia.

In Torino parte della popolazione era fuori di sè  per lo spavento, un'altra parte ubbriaca per le invettive dei giornali e per l'orridezza dei fatti calunniosi che si narravano. Una canzone piena d'ingiurie contro Mons. Fransoni era cantata da un cieco a suon di chitarra per tutte le vie e le piazze in mezzo al popolaccio.

Il 12 agosto 1850 il Questore con dodici carabinieri andava in grande solennità a perquisire la casa degli Oblati alla Consolata di Torino per avere prove di reità del Fransoni; ma nulla trovava. Si pretendeva che gli Oblati fossero Suoi complici a danno dello Stato La solita plebe tumultuava, essendosi fatto correre voci di congiure, e così ferocemente che si dovette aumentare il numero delle guardie e dei carabinieri, e dipoi chiamare i bersaglieri e in ultimo la guardia nazionale

senza però sciogliere quell'attruppamento di bordaglia e di scioperati. Sulla sera il tumulto era a tal segno, che bisognò por mano alla forza per contenere l'impeto irrompente della moltitudine. Il Questore fattosi allora alla porta del Convento, lesse una dichiarazione, da cui constava che, malgrado le più accurate indagini, pur non si era potuto trovare il menomo indizio di colpabilità in quei religiosi. - Le turbe si dispersero, ma i giornali a servizio della rivoluzione stamparono che le prove di congiura vi erano e che i colpevoli avevano fatto sparire ogni traccia di cospirazione.

E’ in questa occasione che, per quanto venne raccontato dal Teologo Reviglio, D. Bosco scrisse un libretto ovvero qualche articolo in difesa degli ordini religiosi; ed eziandio per l'influenza che egli godeva presso autorevoli personaggi, potè  impedire la cacciata degli Oblati, stornando per allora dal loro capo una già decisa e immeritata rovina. È conosciuto il grande affetto che egli portava a que' religiosi e come più d'uno de' suoi giovani, eccitato dalle lodi che loro tributava, si ascrivesse a quel sodalizio.

Mentre però difendeva gli Oblati, dovette pensare a sè , contro fieri attacchi preparati nei covi delle sétte. Egli era conosciuto per caldo sostenitore dei diritti della Chiesa, e i nemici della medesima avevano deciso, ed effettuarono poi sempre il loro piano, col cercare di far diminuire la sua azione d'influenza, ogni qualvolta tramavano nuove offese contro essa e contro il Papa. Quindi lo dipingevano al popolo come nemico delle nuove Istituzioni e come un sacerdote guidato dallo spirito dei Gesuiti, educatore fanatico di torcicolli e contrario alla libertà. Lo designavano esso pure quale complice dell'Arcivescovo in congiure reazionarie. Or dunque, pel 14 dello stesso mese di agosto, era stata preparata un'odiosa dimostrazione al piccolo ospizio di S. Francesco di Sales, per

distruggerlo, cacciandone via D. Bosco. In pubblico nulla era ancor trapelato di questo disegno, quando il sig. Volpotto, quello stesso che aveva mandato a nome di D. Bosco la supplica all'Alta Camera, venne lo stesso giorno ad avvertirlo del pericolo che gli sovrastava, perchè si allontanasse. D. Bosco chiamata allora sua madre, le disse di preparare per quella sera la cena. - Oh, bella! osservò Margherita; - perchè mi dai quest'ordine? Perchè temi che io non la prepari? Perchè qualunque cosa accada, soggiunse D. Bosco, state certa che io non partirò da Torino.

Verso le 4 di sera, secondo l'avviso, doveva giungere all'Oratorio la folla tumultuante; ma nessuno comparve; neppure il giorno seguente, neppure il terzo. Che cosa era accaduto? La plebaglia, dopo avere schiamazzato contro gli Oblati di Maria, aveva fatto conto di recarsi in Valdocco. La fiumana già stava per versarsi a questa volta, quando uno dei dimostranti, che conosceva D. Bosco e ne aveva avute prove di benevolenza, salito sopra un paracarro, alzò la voce e disse: - Amici, uditemi. Alcuni di voi vorrebbero calare in Valdocco per gridare anche contro D. Bosco. Ascoltate il mio consiglio, e non andate. Essendo giorno di lavoro, colà non vi è che lui, la sua vecchia madre, e alcuni poveri giovani ricoverati. Invece di morte, noi dovremmo gridare evviva, perchè D. Bosco ama e aiuta i figli del popolo.

Un altro oratore ascese dopo il primo e gridò: - D. Bosco non è un amico dell'Austria! È un filantropo! È l'uomo del popolo! Lasciamolo in pace! Non andiamo a gridare nè  viva, nè  morte, e rechiamoci altrove. - Queste parole calmarono e fermarono la masnada, che andò ad assordare le orecchie ai Domenicani ed ai Barnabiti.

Intanto una dispiacente e non prevista sorpresa toccava a D. Bosco. Il Governo, che erasi impadronito anche del mobilio trovato nel convento dei Serviti, ne mandò una parte all'Oratorio di Valdocco. Alcuni avrebbero voluto che Don Bosco ricusasse questo mobiglio. Invece D. Bosco lo accettò, ma senza ringraziamenti, e tosto avvertì il Padre Pittavino a Saluzzo di mandar a ritirare ciò che era di loro proprietà: solo pregavalo di cedergli una tavola, di cui abbisognava per i suoi giovani; cosa che volentieri gli fu donata. I RR. PP. Serviti in tal modo ricuperarono il proprio, e D. Bosco senza ledere la giustizia, evitò un urto col Governo che gli avrebbe potuto recare grave danno. Questo fatto fu narrato al Can. Anfossi dal Rev. P. Francesco Faccio dell'Ordine dei Servi di Maria, già Curato di S. Carlo.

Ma nel succedersi di questi avvenimenti gloriosi per il clero, avendo insegnato Gesù essere beato chi soffre per la giustizia, grave sfregio riceveva l'ordine sacerdotale dalla condanna dì D. Antonio Grignaschi. Era costui nativo di Corconio, sulla riviera di S. Giulio presso Orta, diocesi di Novara. Ordinato sacerdote, ottenne la Rettoria di Cimamulera fin dal 1843. Aveva preso, con sacrilego inganno, ad insinuare esser egli Dio che operava la sua terza manifestazione, lo stesso Gesù Cristo in persona nuovamente incarnato. Egli dicevasi disceso in terra per fondare una nuova chiesa, che doveva sostituirsi al Cattolicismo, e quindi predicava massime contrarie alla vera fede. Operava eziandio cose meravigliose e strane da non potersi attribuire che ad intervento diabolico, ma che i suoi ammiratori dicevano essere miracoli divini. Di una donna da lui sedotta, di nome Lana, egli affermava essere la Vergine Maria. La briffalda prestavasi a rappresentare questa commedia; affettava vesti e portamento che nel suo concetto erano proprii della Madonna; e D. Grignaschi la faceva ascendere in mezzo alla chiesa sovra un banco, avendo innanzi candele accese, come se fosse una statua.

Le donnicciuole aggregate alla nuova sétta andavano ad inginocchiarsi dinanzi a lei ed a pregarla.

Un ecclesiastico, mandato dalla Curia entrò in chiesa e vide l'empia venerazione prestata a quella lurida persona; ma nulla disse per non destare tumulti, e passato in sagrestia, chiese allo scaccino:

- Che festa fate quest'oggi?

- Nessuna festa occorre in questo tempo.

- Ma che titolo ha quella statua della Madonna che è in chiesa?

- Ah, soggiunse il sagrestano alzando le spalle; è la Madonna rossa?

- Che cosa? Madonna rossa?

- Sì, la Madonna di D. Grignaschi.

Conosciute queste giunterie sacrileghe, il Vescovo di Novara rimosse il Grignaschi dalla parrocchia e lo sospese dal ministero sacerdotale. Questi, venuto a Torino, si recò all'Oratorio ed espose le sue dottrine a D. Bosco, il quale, inorridito, cercò con ragioni e promesse di ritrarlo dalla mala via. Ma non vi riuscì, e il Grignaschi dopo aver vagato per varii luoghi anche del Casalese, finalmente si stabiliva in una borgata vicino a Viarigi, piccola terra dall'Astigiano, conducendo con sè  la Madonna rossa, che era la serva. Qui fu il teatro principale delle sue geste tutt'altro che gloriose. Ingannati con nuove arti di prestigi spiritici, e l'amministratore parrocchiale e i preti del vicinato, colle sue eresie dementava e pervertiva gran parte di quella popolazione. Grignaschi abusava scelleratamente dei sacramenti, appariva nelle case a porte chiuse, indovinava i pensieri più nascosti, fingeva ordini venuti dal cielo e commetteva azioni nefande. La gente pareva ipnotizzata. Quando era lontano, si vedevano partire a piedi uomini ed anche giovani e fare 18, 20 e più miglia

dì stentato cammino e digiuni, solamente per vederlo e udire una sua parola, Riceveva seduto i suoi adepti, i quali si inginocchiavano alla sua presenza, ed esso li assolveva colle seguenti parole: Ego Dominus Jesus Christus te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen. Disseminava le sue empie dottrine col mezzo di persone da lui ingannate e indotte a fingere santità e virtù, per l'iniquo scopo di essere dichiarato per un uomo del tutto straordinario ed un altro Salvatore.

Il suo sguardo aveva un non so che da ammaliare e trascinare le anime. Di ciò si parlava molto dalla gente. Il signor B... si burlava di ciò che dicevasi su questo sguardo magico e volle far visita a Grignaschi. Entrato in quella casa venne subito preso da misterioso orrore, e quando fu alla presenza di quel disgraziato, costui gli fissò gli occhi in volto di maniera che restò conquiso; e al suono della sua voce: - Ti aspettava; lo sapevo che dovevi venire: - cadde in ginocchio. Da quell'istante fu tutto suo. Gli fece credere che desso B ... era S. Paolo, mentre un altro suo amico era S. Pietro. B ... credeva realmente d'essere S. Paolo e si lasciò crescere la barba e si prestò obbedientissimo col compagno a quanto voleva Grignaschi: preghiere, lunghe penitenze, andare nelle osterie, mettersi in ginocchio tra le mense, pregar la gente a non voler offendere il Signore con bestemmie, intemperanze, giuochi; e altre simili cose che avrebbero certamente sdegnato di, fare se loro fossero state comandate prima di essere infatuati a quel modo. Come essi, erano tutti gli altri abitanti, fatte pochissime o forse nessuna eccezione. B… stesso raccontando la cosa a noi non sapeva darsi ragione di quella ossessione. Ed era persona ricca, di senno, di carità e abbastanza istrutta.

Fu debitore della sua conversione alle prediche di D. Bosco.

Intanto le turpitudini della sétta giunsero al punto che, essendo notorie, il Procuratore del Re fece mettere in prigione il Grignaschi con tredici dei principali suoi complici, fra i quali la Madonna rossa, e li fece trarre innanzi ai Magistrati d'Appello in Casale. Dello scandaloso processo sono pieni i giornali di quell'anno.

Il 15 luglio 1850, non ostante la difesa dell'avvocato Angelo Brofferio, il Grignaschi fu condannato alla reclusione e a' suoi affigliati vennero inflitte altre pene. La cattura del Grignaschi aveva posto in sommovimento il comune di Viarigi, perchè la maggioranza degli abitanti era fanatica per la nuova sétta; sicchè il Governo, perchè l'ordine non venisse turbato, vi stabilì un presidio militare. Ma l'uso della forza non bastando a richiamarvi la calma, i Vescovi di Casale e di Asti vi si condussero a dir parole di carità e di pace. Poi vi rimase solo Mons. Artico, e con una predicazione di cinquanta giorni, con generosi soccorsi ai poveri e visite agli ammalati, fe' cessare i contrasti e gli scandali, ricevette le abiure di molti e ottenne l'allontanamento del presidio militare. Ritornava così la tranquillità; ma non pochi di que' settari si ostinavano sui loro errori.

D. Grignaschi intanto era stato condotto nel Castello d'Ivrea a scontarvi per sette anni il suo falso e sconcio misticismo Egli come uomo, diremmo, ossesso dal demonio perfidiava nel mostrarsi convinto di una missione divina; ma ben pesante doveva riuscirgli la solitudine di quel carcere. D. Bosco però pensava a lui, e, come ci raccontava il teologo Savio Ascanio, egli, che andava due o tre volte all'anno ad Ivrea, si affrettò a recarsi in quelle prigioni. Più volte potè  parlare all'infelice eresiarca e seppe insinuarsi siffattamente nel suo cuore, da persuaderlo del male che aveva recato a se stesso e agli altri co' suoi gravissimi scandali; e finì con ottenere da lui una promessa di mutar vita, cominciando coll'espiare i suoi falli mediante la rassegnazione cristiana. Vedendo che il condannato gradiva le sue visite, ritornava ad intrattenersi con lui, recandogli opportuni sussidii in danaro, ogniqualvolta andava in quella città per far la predica in duomo, gli esercizii spirituali ai chierici del Seminario, o per trattare col Vescovo delle Letture Cattoliche e degli affari riguardanti il bene della Chiesa.

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