News 4

Cap XVIII. - DONO DI ORAZIONE.

...Ora se si considera che Don Bosco, andando a dormire, aveva sempre estremo bisogno di sonno, si ha già in questo una ragione per conchiudere che dunque in lui tanta vitalità di sogni non era umanamente spiegabile.


Cap XVIII. - DONO DI ORAZIONE.

da Don Bosco

del 14 dicembre 2011

p { margin-bottom: 0.21cm; }

I fenomeni straordinari finora descritti sono mirabili segni esterni, che manifestano la presenza di Dio nell'anima. Dio vive in noi, quando siamo per grazia a Lui uniti; ma in certe anime Egli si fa sentire con un tocco ineffabile, che arriva all'essenza stessa dello spirito, secondo un'espressione adoperata dai mistici. Allora succede questo fatto, che, mentre le forze superiori dell'intelligenza e della volontà restano come assorbite dalla luce e dalle operazioni divine, i sensi vengono meno né più sono in grado di operare, come accade precisamente nell'estasi.

Nulla di ciò verificavasi nell'umanità di Gesù e in Maria durante la loro vita terrena; perché, sebbene godessero abitualmente la percezione sperimentale della vita soprannaturale, pure, a motivo dello stato d'integrità perfetta che portava seco la piena soggezione dei sensi alla ragione, non pativano smarrimenti nelle potenze inferiori.

Ora noi ci domandiamo: dato che in Don Bosco si ravvisano le manifestazioni esterne solite ad accompagnare la vita mistica, si può senz'altro ritenere che egli sia stato realmente elevato, alla mistica unione? e fino a qual grado? In altri termini, poiché la cosa si attua mediante la contemplazione infusa, è possibile venir a capo di scoprire se e in che misura questo dono della contemplazione infusa abbia insignito l'anima elettissima di Don Bosco?

A priori, circa la realtà della cosa, non parrebbe temerario rispondere affermativamente. Infatti, Benedetto XIV, basandosi sulla storia, ha stimato di poter asserire che «quasi tutti i Santi e specialmente i fondatori d'ordini hanno ricevuto visioni divine e rivelazioni» ed ha soggiunto: «Senza dubbio Dio parla familiarmente con i suoi amici e favorisce soprattutto quelli scelti da lui per opere grandi». 

Il Poulain, dopo aver affermato che d'ordinario i Santi canonizzati, arrivati cioè all'eroicità della virtù, sono stati favoriti dell'unione mistica, osserva che, se taluno ne sembra privo, non si può già dimostrare positivamente che vera privazione vi fu, ma piuttosto bisogna deplorare che manchino documenti per la dimostrazione storica. Fortunatamente le precauzioni di Don Bosco non valsero a sottrarci, come si è veduto, tutte le manifestazioni esteriori della sua vita mistica, così che non difettiamo anche di argomenti a posteriori. 

Piuttosto si amerebbe avere eguale sicurezza per determinare il grado della sua mistica unione con Dio. Dopo maturo esame sembra che, prescindendo da speciali momenti, in cui l'intensità potè essere maggiore, crederemmo cosa dimostrabile aver egli posseduto abitualmente quella grazia 'd'orazione che è detta da santa Teresa unione intera, Poulain unione piena, altri, e specialmente italiani, quali lo Scaramelli e sant'Alfonso de' Liguori, unione semplice. 'Alfonso la descrive così: «Nell'unione semplice, le potenze sono sospese, non i sensi corporei, benché questi siano molto impediti nelle loro operazioni».

Quindi un tal dono d'orazione presenta due caratteri: l'anima è tutta assorbita dall'oggetto divino, senza che altro pensiero ne la distorni, non ha, in una parola, distrazioni; i sensi invece continuano più o meno ad agire, non viene cioè tolta loro la possibilità di comunicare col mondo esterno, così la persona può vedere, udire, parlare, camminare e perciò anche uscire liberamente dallo stato di orazione. Autorevoli scrittori mistici, raccogliendo da san Tommaso le nozioni fondamentali su questa delicata materia enumerano e descrivono sette effetti dell'unione semplice; e noi, per evitare il pericolo di battere l'aria, li passeremo rapidamente in rassegna, riscontrandone la presenza in Don Bosco.

La natura però dell'argomento consiglia di non procedere oltre senza ribadire di proposito un concetto, che dalle cose precedenti il lettore si sarebbe già potuto formare, almeno vagamente, da sé. Dell'unione con Dio l'anima di Don Bosco fruiva, diciamolo pure francamente, senza discontinuità; sembra infatti essere stato questo il suo dono, di non lasciarsi mai distrarre dal pensièro amoroso dèi Signore, per molte e gravi e ininterrotte che fossero le sue occupazioni e preoccupazioni.

Scorriamo nel Summarium Positio super virtutibus titolo settimo De heroica cantate in Deum, le espressioni più salienti intorno a questo tema da una dozzina di testimonianze, tutte del massimo peso, perché rese da persone che, parlando di Don Bosco, hanno il diritto di appropriarsi il commosso prologo della prima lettera di san Giovanni: Quod fuit ab initio, quod audivimus, quod vidimus oculis nostris, quod perspeximus et manus nostrae contrectaverunt, et testamur et annuntiamus.

Siano i primi a dirci la loro parola i tre successori di Don Bosco. Don Michele Rua, del quale è avviato il processo per la beatificazione: «Quello che ho potuto continuamente scorgere fu la sua continua unione con Dio. E questi sentimenti d'amor di Dio manifestava con tanta spontaneità, che si vedeva che sgorgavano da una mente e da un cuore sempre immersi nella contemplazione di Dio e de' suoi attributi». Don Paolo Albera: «Era tanta l'unione del Venerabile con Dio, che pareva ricevesse da lui quei consigli e incoraggiamenti, che dava a' suoi figli». Don Filippo Rinaldi: «È mia intima convinzione che il Venerabile fu proprio un uomo di Dio, continuamente unito a Dio nella preghiera». Con i tre Rettori Maggiori interloquisca Don Giovanni Battista Francesia: «Io vedeva che il Venerabile era facile a raccogliersi nel Signore».

Ora ascoltiamo altri sette Salesiani, ragguardevoli per virtù religiose o per cultura o per uffici o per tutte tre le cose insieme. Le loro deposizioni ci dicono che «la vita di Don Bosco parve sempre un'unione costante con Dio tanto che, «in qualunque momento lo si interrogasse, anche in mezzo 'agli affari più aridi e più distraenti, egli rispondeva come uno che fosse assorto nella meditazione»; che «la carità verso Dio risplendeva nell'unione sua con Lui»; che «viveva sempre alla presenza di Dio» e «i suoi pensieri erano sempre rivolti al Signore»; che «la preghiera mentale si può dire essere stata una pratica connaturale in lui»; che «aveva il cuore così pieno d'amore verso il Signore che il suo pensiero, la sua parola erano sempre a lui rivolti»; che «il Venerabile sempre dimostrò un vero e profondo spirito di preghiera e di unione con Dio, come era dato di assicurarci ogni qualvolta i suoi lo avessero, avvicinato»; che «aveva una perfetta unione di spirito con Dio».

Parlino infine due prelati. Monsignor Tasso, dei Preti della Missione, Vescovo di Aosta, allievo di Don Bosco dal 61 al 65 dice: «Il Venerabile ardeva sempre della più grande carità.,verso Dio, e io sono persuaso che viveva in una continua unione con Dio. Ricordo che tra noi ragazzi c'era questa persuasione, che il Venerabile parlasse direttamente col Signore, specialmente quando ci aveva da dar consigli riguardo al nostro avvenire».

Il cardinal Cagherò attesta: «L'amore divino... gli traspariva dal volto, da tutta là persona e da tutte le parole, che gli sgorgavano dal cuore quando parlava di Dio sul pulpito, in confessionale, nelle pubbliche e private conferenze e negli stessi colloqui familiari. Questo amore fu l'unica brama, l'unico sospiro, il più ardente desiderio di tutta la sua vita. Lo udii ripetere migliaia e migliaia di volte: - Tutto per il. Signore e per la sua gloria! Era sempre in intima unione con Dio, quando dava udienza, quando era al tavolino intento a' suoi lavori, quando s'intratteneva insieme con noi in ricreazione, quando pregava con fervore da angelo dinanzi a Gesù Sacramentato, o allorché si trovava all'altare. In qualunque momento lo avvicinassimo, ci accoglieva sempre con squisita carità e con tanta serena amabilità, come se allora si levasse dalla più accesa orazione o dalla più divina presenza?.. Torno a ripetere ciò che disse a me il cardinale Alimonda, che Don Bosco era sempre in intima unione con Dio».

Quanti «sempre» in queste deposizioni! L'eloquente Porporato, che, fatto Arcivescovo di Torino, consolò tanto gli ultimi sei anni del nostro caro Padre, ripeté il concetto espresso al Cagherò anche nel suo discorso funebre per la solenne commemorazione di trigesima, definendo senza più Don Bosco «l'unione continua con Dio».

Coroniamo queste testimonianze con una calzantissima osservazione di Pio XI. Il grande Pontefice, che amava ricordare anche pubblicamente e con viva compiacenza d'aver trattato da vicino e non di passaggio con Don Bosco, affermò d'aver notato «in ogni azione anche non appariscente» di lui «uno spirito mirabile veramente di raccoglimento, di tranquillità, di calma, che non era la sola calma del silenzio, ma quella che accompagna sempre un vero spirito di unione con Dio, così da lasciare intravedere una continua attenzione a qualche cosa chela'sua anima vedeva, con la quale il suo cuore si intratteneva: la presenza di Dio, l'unione a Dio».

In conclusione, come di san Bonaventura l'antico cronista dice che ne' suoi scritti faceva d'ogni verità una preghiera, così per Don Bosco si deve estendere tale affermazioni Sogni atto della sua mirabile vita: qualunque cosa facesse, era preghiera.

Questa lunga sfilata di testimonianze ci abbrevierà non poco il rimanente del cammino; alla sagacia dei lettori non sarà malagevole trarne gli opportuni riscontri, a mano a mano che verremo delineando i sette effetti dell'unione semplice, accennati sopra.

Il primo effetto dell'orazione detta di unione semplice è il solo, di cui siano pressoché inafferrabili le prove. Lo possiamo designare col nome di liquefazione, vocabolo suggerito dalla frase biblica: L'anima mia si liquefece tostoché egli [il Diletto] ebbe parlato. direbbe uno struggimento del cuore per ardentissimo fuoco di carità o, fuor di metafora, un dolcissimo sentimento d'amor divino, che riempie l'anima di gioia inesprimibile fino a produrre nel corpo un mistico languore, che talvolta fa cadere in deliquio. Fenomeni sensibili di tal natura si sono verificati mai in Don Bosco? Risponderemo con due osservazioni generali e con tre fatti speciali.

Prima osservazione: tra i frutti della contemplazione uno dei più cospicui è l’umiltà. Il contemplativo, che conosce meglio d'ogni altro le grandezze 'di Dio,'ha maggiore il sentimento del proprio nulla; perciò, non che compiacersi del dono divino, ha fin paura quasi che l'aria lo sappia, e senza impellente necessità di chiedere consiglio non se ne apre con anima viva, anzi usa ogni mezzo per rattenere in sé la piena dell'amore. Se non che la sua volontà non può tutto: e anche il temperamento vi ha la sua parte. La grazia opera nella natura, ma non la sopprime. Di Luigi Comollo abbiamo veduto che, se dopo la comunione non avesse dato sfogo all'abbondanza degli affetti, il cuore gli sarebbe scoppiato. Don Bosco invece reprimeva l'impeto del suo fervore, e così avrebbe voluto che facesse anche l'amico; ma la resistenza fisica dell'amico non era la sua.

Or ecco qui la seconda osservazione. Don Bosco, padrone de' suoi nervi, Don Bosco, tempra d'acciaio o, per dirla con linguaggio meno profano, Don Bosco, uomo tale da potersi applicare le parole del Salmista: Anima mea in manibus meis sempre ebbea servizio della sua umiltà una volontà dominatrice delle energie inferiori e quindi capace anche di comprimere la veemenza del sentire, perché non soverchiasse. Perciò la sola assenza di fenomeni esterni, quali i sovraccennati, non sarebbe argomento decisivo per negargli il dono della contemplazione infusa.

Per altro, come si spiega che una persona, tocca, anzi trafitta con frequenza dai più acuti dispiaceri, da quei dispiaceri che fanno sanguinar il cuore, si mostri proprio allora più lieta del solito? Le afflizioni producono dunque allegrezza? Il dolore, nei cuori elevati alla contemplazione, si trasforma misticamente in amore, e l'amore è quello che dilata i cuori. Questo è il primo dei tre fatti.

Il secondo è che negli ultimi anni Don Bosco dopo intere mattinate spese nel ricevere visitatori, soleva, dovunque si trovasse, starsene almeno per un'ora del pomeriggio nella propria camera, dove intimi suoi lo sorprendevano sempre seduto allo scrittoio, con la persona eretta, con le mani giunte, in atteggiamento di gran dolcezza, tutto assorto nella considerazione delle cose celesti. Era appunto l'ora in cui lo vide estasiato la suora del capo precedente.

Così pure, negli ultimi anni, - e siamo al terzo fatto -, quando per le forze affrante la vivezza dei sentimenti prendeva il sopravvento, egli celebrando ora s'inteneriva visibilmente in tutto l'essere suo, ora appariva come pervaso da un sacro tremito, massime nell'istante dell'elevazione.

Sta bene riferire qui, per rincalzo ed a maggiore illustrazione, una testimonianza resa da Don Cerniti nel processo informativo. Parlando dei due ultimi anni del nostro Santo, egli depose: «Quando e il mal di capo e il petto affranto e gli occhi semispenti non gli permettevano più affatto di occuparsi, era doloroso e confortante spettacolo vederlo passare le lunghe ore seduto nel suo povero sofà, in luogo talvolta semioscuro, perché i suoi occhi non pativano il lume, pure sempre tranquillo e sorridente, con la sua corona in mano, le labbra che articolavano giaculatorie e le mani che si alzavano di tratto in tratto a manifestare nel loro muto linguaggio quella unione e intiera conformità alla volontà di Dio, che per troppa stanchezza non poteva più esternare con parole. Quanto a me sono intimamente persuaso che la sua vita, negli ultimi anni soprattutto, fu una preghiera continua a Dio. Così opinano anche gli altri. Tanto è vero che, entrati in sua camera per vederlo e parlargli, lo trovavamo sempre come uno che attende alla più profonda meditazione, pur senza darne segno esteriore, che il suo volto era sempre lieto, sereno e tranquillo, com'erano di pace, di carità e di fede le parole che gli uscivano di bocca».

Secondo effetto dell'orazione passiva è un soave bisogno di pianto. Nell'intima unione dell'anima con Dio, l'amorosa conoscenza della divina bontà sveglia dolci e vive emozioni nel cuore, che, non capendo più in se stesso, chiede aiuto agli occhi, secondo un'immagine di santa Caterina da Siena.

Don Bosco ebbe il dono delle lacrime alle quali non gli bastavano spesso le forze di comandare.

Nell'ultimo viaggio a Roma, celebrando nella nuova chiesa del Sacro Cuore, più di quindici volte ruppe in pianto, mentre il sacerdote che l'assisteva s'ingegnava di distrarlo, perché potesse finire. Il pianto gli si ripigliò dopo con istraordinaria commozione dei molti che lo circondavano accompagnandolo. Durante tutta la vita sacerdotale, predicando su certi argomenti, per evitare di piangere pensava apposta a cose ridicole, ma indarno. Queste sue lacrime però facevano un bene grandissimo a chi n'era testimonio, motivo forse non estraneo ai disegni della Provvidenza nel concedergliele così irrefrenabili. Più ampi ragguagli ne abbiamo dati altrove, né servirebbe ora il ripeterci.

Terzo effetto è sentire la presenza di Dio con una certezza, che esclude fin la possibilità del dubbio. Santa Teresa dichiara la cosa in questi termini: «Dio viene a porsi nell'intimo dell'anima siffattamente, che essa, rientrata in sé, non può in alcun modo dubitare di essere stata in Dio né che Dio è stato in lei; la qual verità le rimane così saldamente impressa, che, quand'anche passasse più anni senza venire di nuovo elevata a quello stato, non le sarebbe possibile né dimenticare il favore ricevuto né dubitare della sua realtà».

Don Bosco, era pieno del pensiero di Dio: dimostrarlo qui sarebbe ripetere cose dette. Derivava da ciò il fascino, di cui parla monsignor Tasso, quando dice: «Bastava trattenersi un po' con lui per subito accorgersi che era veramente homo Dei; soprannaturale traspariva da ogni sua parola e da tutta la sua persona. Questo l'ho provato io per esperienza».

Quarto effetto: forza, coraggio, inalterabile pazienza a tutto soffrire per amor di Dio. Anzi, queste anime sono tanto accese del divino amore, che ardono nella brama di patire per Iddio; la qual brama va ognor crescendo insieme con quella di essere sempre più sue. Don Bosco fu così. È vero che non poche delle pagine precedenti cantano la sua magnanimità sovrumana in mezzo alle pene; tuttavia due nuove testimonianze ce ne tramandino ancora l'eco.

Nella prima, riferentesi alle pene morali, il Servo di Dio Don Rua, enumeratele, prosegue: «Fu sempre ammirabile la sua pazienza, la sua rassegnazione, il suo coraggio. Pareva che le difficoltà e le tribolazioni gl'infondessero forze, talmente che, sebbene addolorato, specialmente quando le opposizioni gli venivano dalle autorità ecclesiastiche, tuttavia non perdeva mai la sua serenità; anzi pareva che appunto in quei tempi di tribolazione, egli acquistasse maggior coraggio; giacché lo si vedeva più allegro e più faceto del solito». Riguardo poi alle pene fisiche, già da noi descritte, molte e gravi, lo storico Don Lemoyne attesta: «Egli non pregava mai per la sua guarigione, e così divenivano volontarie le sue sofferenze. Di queste mai si lamentò né s'impazientì, e continuava a lavorare».

Quinto effetto, un desiderio ardente di lodar Dio. La persona, infiammata d'amor divino, vorrebbe essere tutta voce per non far altro che dar lode al Signore; vorrebbe anzi che così Egli fosse universalmente conosciuto, amato, glorificato. Sa bene che Dio maior est omni laude; al pensiero di si immensa grandezza e bontà non gusta maggior delizia che nell'onorare, adorare, ringraziare Dio.

Il grande Serafino d'Assisi, per far paga questa brama cocente, chiamava in aiuto, con infocati slanci di carità, tutte le creature, anche le irragionevoli, anche le inanimate, anche le ideali, perché si unissero a lui in lodare il comune Creatore. Ma nella Chiesa all'unità va congiunta la varietà, avverte san Francesco di Sales. Sull'immancabile fondo d'oro della carità - «tutto è dell'amore, nell'amore, per l'amore e di amore in seno alla Chiesa» - si dispiega la policromia mirabile dei Santi.

Don Bosco, anima così innamorata di Dio, aveva tre modi suoi per invitare e incitare a lodar Dio: poneva la più scrupolosa diligenza nel decoro del culto divino, parlava con unzione di Dio e delle cose divine a tutti quelli che anche solo di sfuggita lo avvicinassero, e si sacrificava con zelo invitto a promuovere sempre la divina gloria.

Queste tre cose, specialmente l'ultima che poi abbraccia tutto, hanno dato qui sopra si copiosa materia da scrivere, che, se si volesse farne astrazione ben poco rimarrebbe del presente lavoro. Eppure di fronte a un'ampia trattazione storica il detto finora è informe abbozzo a petto del quadro.

Sesto effetto, desiderio grande di giovare al prossimo. L'anima che vive di Dio, sovente riesce a rendersi utile al prossimo senza neanche avvedersene, perché nell'atto o di accogliere o di consolare o di soccorrere, - che sono, secondo san Tommaso, le tre maniere di aiutare i bisognosi - riceve misteriosamente dall'alto aiuti, che ne rendono l'opera efficace.

Dire Don Bosco è dire carità: carità inesauribile nel trattare coi prossimi, carità ineffabile nel sollevare afflitti e confortare moribondi, carità eroica nell'andar in cerca dei mezzi per praticare la carità. Per questo il mondo ama Don Bosco: nos credidimus caritati. 

Piace su questa carità soprannaturale leggere il pensiero sintetico di colui, che fu di Don Bosco il vero alter ego con Don Bosco portò per lunghi anni pondus dici et aestus: «La sua vita fu consumata nell'esercizio di questa carità. La sua carità in parte si può dire che l'ha prevenuto come dono speciale della divina volontà e andò poi crescendo e perfezionandosi a misura che si avanzava negli anni. Egli vedeva nel suo prossimo l'opera di Dio e Dio stesso nel prossimo, vedeva in ciascuno degli uomini un fratello in Gesù Cristo, e quindi li amava per amor di Dio e tutte le sue sollecitudini impiegava senza risparmio per attirare tutti a Dio. Non era semplicemente naturale simpatia, era l'amore di Dio, la carità di Gesù Cristo, che lo stimolava a spendersi tutto per il suo prossimo».

Settimo ed ultimo effetto dell'orazione di unione semplice, e il più mirabile in un povero figlio d'Adamo, è la pratica abituale delle virtù teologali, cardinali e morali in grado eroico, in una misura cioè che e per intensità e per costanza eccede i limiti comunemente propri degli uomini virtuosi. Dio, scendendo a tanta larghezza di doni con un'anima, nell'arricchirla di ogni virtù vuole che tutta la Chiesa se ne avvantaggi col riceverne edificazione e onore; il che appunto viene in conseguenza dell'eroismo nell'esercizio delle virtù cristiane. In tale stato, per la pioggia sovrabbondante delle grazie celesti, all'anima non resta altro da fare che cooperarvi mediante il semplice suo consentimento.

Né con questo vi è pericolo che l’anima s'inorgoglisca, quasi dimentica del vero essere suo; anzi, quanto più s'innalza nel conoscimento amoroso di Dio, tanto più s'inabissa nel proprio nulla. Cosicché, crescendo l'umiltà, crescono pure le grazie, e cresce nel insieme lo slancio entusiastico e visibilissimo per ogni virtù, nessuna eccettuata.

È notevole al riguardo un'osservazione del Poulain, il quale scrive: «Dio non viene solo nell'anima. La sua azione santificatrice è tanto maggiore e più sensibile quanto più alta è l'orazione. L'anima, saturandosi di Dio nell'unione mistica, si sente insieme, e non ne sa il come, saturare d'amore, d'umiltà e dello spirito di sacrificio. Dio stesso le dà occasione di esercitarvisi, mandandole prove su prove: tentazioni, malattie, insuccessi, ingiustizie, disprezzi».

Intavolare adesso una discussione sull'eroicità delle virtù di Don Bosco, dopoché la Chiesa ha sentenziato, sarebbe portar acqua al mare. Un rilievo però merita di venir posto in evidenza: balza fuori spontaneo dall'ultimo periodo sopra citato. Dell'intervento divino, segnalato ivi dall'autore, la vita intera di Don Bosco ha sperimentato la varia e ininterrotta vicenda. Ora si badi all'insegnamento di san Paolo, quando scrive: Il Signore usa la sferza con ogni figliuolo che riconosce per suo. linguaggio, duro e impervio ai mondani, significa che le tribolazioni, essendo mezzi usati da Dio per purificare e spingere le anime nella via della perfezione, costituiscono per sé una prova dell'amore di Dio. Prove tali di amore Don Bosco ebbe da Dio in tutto il corso della sua vita; prove simili di amore egli ha date a Dio, praticando eroicamente in mezzo alle croci inviategli ogni virtù dal principio alla fine della sua mortale carriera. La vita di lui ci sta dinanzi in una chiarità diafana, nella quale niente si sottrae al nostro sguardo scrutatore; ebbene niente vi scorgiamo che non sia santità.

Dice il Cagherò, e con le sue parole affrettia moci alla conclusione: «L'eroismo delle sue virtù praticate nella fanciullezza e gioventù mi fu attestato più volte da' miei conterranei; da sacerdote, e direttore dell'Oratorio e Superiore della Congregazione lo attestano con me tutti gli altri confratelli, spettatori della sua vita. Di ritorno dall'America, trovai il Servo di Dio più sensibile e più ardente nella sua carità, più unito con Dio e maggiormente ripieno di spirituale bontà; vidi anzi, se l'amor filiale non m'inganna, la sua veneranda canizie circondata da una specie di celeste aureola e di angelico aspetto e in qualche modo quasi già glorificata la sua vita, spesa tutta nel sacrificio di se stesso per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime».

Ancora un'osservazione. Ma dunque anche Don Bosco è stato un mistico? Sappiamo bene che a non pochi sembrerà questa, per non dir peggio, un'idea peregrina; ma la colpa non è della mistica certamente. Due false idee stravolgono le menti dei profani. Credono che mistico opponga a reale, si oppone a fisico naturale. Mistico si dice di ciò che costituisce una realtà soprannaturale. E poi s'immaginano che gli uomini detti mistici vivano così assorti nelle loro contemplazioni che nulla vedano e nulla intendano delle cose di questo mondo.

Invece un autore che fa testo in materia, tratteggia così la figura dei mistici: i veri mistici sono persone di pratica e di azione, non di ragionamento e di teoria. Hanno il senso dell'organizzazione, il dono del comando e si rivelano forniti di ottime doti per gli affari. Le opere da essi fondate sono vitali e durevoli; nel concepire e dirigere le loro imprese danno prova di prudenza e di ardimento e di quella giusta idea delle possibilità che è il carattere del buon senso. E infatti sembra proprio che il buon senso sia la loro qualità predominante: un buon senso non turbato né da esaltazioni morbose, né da immaginazioni disordinate, e unito a una molto rara facoltà di discernimento». Questo, se non m'inganno, è il vivo ritratto di Don Bosco, nel quale la contemplazione illuminava e dirigeva l'azione.

Donoso Cortes diceva che, se avesse dovuto trattare con qualche diplomatico la questione più spinosa, avrebbe cercato per consigliere e guida l'uomo più mistico. Chi più mistico di san Bernardo? Ebbene, si occupò di tutto e di tutti, sicché non si può scrivere la storia della sua vita senza scrivere quella del suo tempo. E santa Teresa e tanti altri? Si può applicare a Don Bosco quello che fu detto di san Bernardo, sempre occupato in tanti affari: «La periferia, in quella sua vita, non dava noia al centro, e il centro non dava noia alla periferia». Periferia era l'attività esteriore, centro il mistico raccoglimento interno. Che le anime pure e illuminate non siano buone a nulla, dice l'autore citato, è una scoperta moderna.

Eugenio Ceria

Versione app: 3.13.5.5 (0d94227)