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Cap XVI. - IL DONO DEL CONSIGLIO.

Un tempo, nei primordi del sacerdozio, egli era stato persuaso che i suoi figli avessero con lui inimitata confidenza; ma non tardò ad accorgersi, che il demonio era più furbo di lui.


Cap XVI. - IL DONO DEL CONSIGLIO.

da Don Bosco

del 14 dicembre 2011

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La luce spirituale di Don Bosco ebbe i massimi fulgori verso il tramonto dell'età, quando, consolidate le sue opere e giunti alla loro maturità i discepoli formatisi alla sua scuola, il debilitarsi della fibra più non consentiva che egli si mescolasse al ritmo della vita quotidiana. Allora i carismi straordinari, che, a dir vero, fin dai nove anni non avevano cessato di mandare sprazzi luminosi, rifulsero in lui più vividi e frequenti, sicché da ultimo il soprannaturale quasi ne avvolgeva l'esistenza.

Dio sa con quale trepida apprensione mi sono accostato all'anima di Don Bosco nelle parti precedenti del nostro studio; ora poi, non volendo omettere qui sull'ultimo di trattare di doni carismatici, la trepidanza si cambia in sacro terrore, quale di chi si appressava all'arca del testamento. La teologia mistica non è detta il «piano nobile» della scienza sacra? E che dire delle esperienze mistiche, non esposte in trattati, ma vissute in atto?

Il celebre apologista francese Augusto Nicolas, uomo venerando per canizie, dottrina e santità di vita, recatosi a visitare Don Bosco pochi anni prima che il Servo di Dio abbandonasse la terra, gli si pose davanti in ginocchio e là volle stare con le mani giunte durante tutto il colloquio, religiosamente cogliendo dalle sue labbra le sante parole, quasi suono mortale dell'immortale Verbo divino. Ecco il migliore atteggiamento che si convenga nel cospetto di tanta grandezza.

Dio con Don Bosco ha veramente largheggiato a dismisura nelle sue grazie, per farsene strumento a' suoi disegni provvidenziali. È infatti nell'ordine della Provvidenza che Dio, scegliendo una creatura per un ufficio determinato, la disponga prima e la prepari a compiere bene la missione destinatale.

Ora, fra le grazie speciali, di cui il Signore volle arricchire Don Bosco, bisogna mettere il dono del consiglio, che ne illuminò la vita intera, associato quasi per concomitanza ad altri insigni privilegi da non doversi né trascurare né toccare superficialmente.

Mediante il dono del consiglio lo Spirito Santo perfeziona nell'anima fedele la naturale virtù della prudenza, dandole un intuito soprannaturale, per cui essa pronto e sicuro si forma il giudizio su ciò che è da fare, massime nei casi difficili. Questo carisma ha dunque per oggetto la buona direzione delle azioni particolari nostre o altrui, secondo il variare di tempi, di luoghi e d'individuali circostanze. Applicando in concreto a Don Bosco quello che dottrinalmente insegna un gran Vescovo, diremo che con un tal dono il nostro buon Padre possedette sempre il sicuro discernimento de' suoi mezzi, vedendo ognora netta la propria via e percorrendola intrepido, per ardua e arida e ripugnante che troppe volte la gli si parasse dinanzi, e sapendo in ogni tempo aspettare il momento propizio.

Chi ci ha seguiti fino a questo punto, non cercherà ulteriori prove di tale asserto; non c'è quasi pagina qui sopra, che non dimostri com'egli abbia veduto chiaro, chiarissimo in tutte le cose concernenti il governo di se stesso. Sarebbe quindi un bis in idem 'indugiarvici ancora; studiamone piuttosto la chiaroveggenza nel governo degli altri.

Che Don Bosco fosse un uomo di consiglio, non per innata virtù d'ingegno e per mero effetto di umana prudenza, ma in grazia di lumi superiori, era convinzione così universalmente diffusa e radicata, che da tutte le parti si scriveva o si veniva a lui per averne la parola illuminata.

Persone innumerevoli, anche di grande affare, ricorrevano a Don Bosco per lettera su cose di coscienza e di vita spirituale o su faccende di altro genere. Dei tantissimi documenti della prima specie pochi ci rimangono, perché le missive, data la natura del contenuto, venivano ordinariamente da lui distrutte; ma abbondano negli archivi richieste di consigli su cose di famiglia, su l'opportunità di trasferimenti o d'impieghi o di professioni o d'imprestiti, su composizioni di liti, sul modo di regolare la propria casa o di educare un figlio, sulla scelta dello stato, insomma su dubbiezze e necessità senza numero, tanta era la fiducia generalmente riposta nella sovrumana saggezza de' suoi suggerimenti.

Lo stesso Papa Pio IX pensò a Don Bosco e a' suoi lumi superiori in un'ora trepida, allorché dopo la presa di Roma la sua mente ondeggiava fra il restarvi e il partirsene. Consigli per il secondo partito premevano da più lati sull'animo del Pontefice: il Papa, benché esitante, dava prudenti disposizioni per il viaggio; ma alle istanze perché rompesse gl'indugi, rispondeva d'aver chiesto consiglio a Don Bosco e di essere deciso a seguirlo, qualunque fosse. Il Servo di Dio, dopo aver pregato a lungo, inviò per mano sicura la risposta in questi termini: «La sentinella, l'Angelo d'Israele si fermi al suo posto e stia a guardia della rocca di Dio e dell'arca santa». Nella parola di Don Bosco il Papa intese la voce di Dio, e si confermò nel pensiero di non allontanarsi.

Chi poteva, si recava da Don Bosco personalmente. Per questo l'immane fatica delle udienze fu cosa che passa ogni immaginazione. Il padre Giuseppe Oreglia, gesuita, asseriva che, anche senz'altre penitenze, questa sola basterebbe a dimostrare il carattere eroico della sua virtù. La gente lo assediava in casa e per le vie, in città e fuori, né si conosceva in ciò discrezione o misura. Persone d'ogni classe sociale e d'ogni grado si succedevano a consultarlo; ecclesiastici e laici, principi e gente del popolo, ricchi e poveri, amici ed estranei, dotti e ignoranti, buoni e cattivi ne affollavano le anticamere; molto spesso chiedevano di parlargli superiori d'ordini o di comunità religiose, direttori di monasteri, suore d'ogni colore.

Don Bosco, a guisa di chi disimpegna un ufficio, a cui sia tenuto indistintamente verso tutti, non guardava in faccia a nessuno: chiunque si presentasse, lo trattava come se glielo mandasse Dio, usando sempre maniere dolci e soavi. Ascoltava senza interrompere, interessandosi di quanto gli si esponeva, anche se fossero le lungaggini inconcludenti di poveri scrupolosi; qualora, mentr'egli parlava, l'interlocutore gli troncasse il discorso, taceva all'istante; poi, quasi non avesse altro pensiero al mondo, non era mai il primo a finire il colloquio, né dava segno di volerlo abbreviare, sebbene gli toccasse dire e ridire, perché altri la durava imperterrito a ripetere le medesime cose.

A Marsiglia, mentre stava ragionando con una madre che non se n'andava mai, avvisato per la terza volta che molti aspettavano, disse all'avvisatore in un orecchio: «Le cose bisogna farle come si conviene o non farle. Qui non si perde il tempo. Appena si possa, lasceremo entrare altri».

All'Oratorio, in quella sua cameretta, scrive un testimonio, «aleggiava una pace di paradiso». Ma poiché quell'aura celestiale emanava dalla persona di Don Bosco e non dalle pareti della stanza, così anche fuori, nelle visite o nei viaggi, era sempre ricercato; dovunque s'intrattenesse, gli si formava tosto intorno un'atmosfera di serena e fiduciosa aspettazione, sicché le sue parole vi cadevano come oracoli, come panacee, come mistiche faville, a seconda dei casi.

Lo spirito del Signore, che parlava per bocca di Don Bosco, manifestavasi pure nella libertà mirabile, con cui, chiesti o non chiesti, egli largiva i salutari suoi consigli a persone d'ogni fatta, fossero povere o ricche, ignoranti o dotte, umili o altolocate. Sempre ispirandosi al Seminator casti consilii, senza rispetti umani nelle anime germi fecondi di sani e santi pensieri.

Che lo spirito del Signore fosse sulle labbra di Don Bosco nel consigliare, ce lo dice inoltre la facilità sua in dare i consigli e in darli aggiustatissimi e di un'efficacia irresistibile, anche se talora sapessero di amaro. Sono cose, delle quali nell'Oratorio fecero quotidiana esperienza preti, chierici e alunni, avvicinandolo in cortile, in camera e in confessionale.

I consigli del cortile si chiamavano parole all'orecchio. Don Bosco, fintanto che potè, partecipò alle ricreazioni dei giovani e quando non potè più fermarsi a lungo con essi, faceva qualche comparsa, offrendogli quel tempo occasioni propizie per conoscere i suoi figlioli e dir loro individualmente paroline opportune. Al qual proposito inserì nel regolamento delle sue case quest'articolo: «Ricordate l'esempio dei pulcini. Quelli che si avvicinano di più alla chioccia, per lo più ricevono da essa qualche bocconcino speciale. Così coloro che sogliono avvicinare i superiori, hanno sempre qualche avviso o consiglio particolare».

Negli anni estremi, non potendo far di meglio, allorché, percorso il ballatoio, giungeva alla soglia del suo appartamento, non entrava subito, ma, voltasi ai giovani che dal cortile acclamando ne avevano seguito con amorosi sguardi i passi lenti e stentati, lasciava cadere di lassù una parola buona, accolta con avida attenzione e salutata da lieto battimano. In altri tempi, quante di tali parole aveva su surrate ai singoli, secondo il bisogno di ciascuno! L'educatore che stia sempre sull’ammonire, passa facilmente per sospettoso agli occhi degli educandi, che lo prendono in uggia e, vedendolo comparire, cercano di scansarlo. Invece i giovani dell'Oratorio amavano le parole all'orecchio e le chiedevano a Don Bosco. Avverte la Scrittura: La riprensione fatta all'orecchio docile, è orecchino d'oro con perla rilucente. 

La cosa avveniva così. Posata una mano sul capo dell'alunno e curvatosi al suo orecchio, Don Bosco gli parlava in segreto, parandosi con l'altra mano la bocca, perché nessuno sentisse. Era questione di pochi secondi; ma che effetti magici! Bastava osservare i mutamenti delle fisionomie o le mosse: un sorridere di scatto, un farsi serio, un arrossire, un lacrimare, un risponder si o no, un rifare il gesto di Don Bosco parlando all'orecchio di lui e riudendone la parola nello stesso modo, un gridar grazie e orrer a giocare, un avviarsi alla chiesa. Talora accadeva questo fenomeno, che un giovane, udita la parola di Don Bosco, non gli si staccava più dal fianco, assorto quasi in un'idea luminosa. Altri effetti si scorgevano più tardi: accostarsi ai sacramenti, star più raccolti nelle preghiere, maggior diligenza nei doveri scolastici, maggiore urbanità, e carità verso i compagni.

Riferisce lo storico che parecchi, dei quali potrebbe fare i nomi, vennero portati per si semplici mezzi a tale fervore di pietà da abbandonarsi a penitenze straordinarie, sicché Don Bosco li doveva frenare; e che altri vegliavano di sera alla sua porta, picchiando leggermente ogni tanto, finché non venisse loro aperto, perché non volevano andar a dormire col peccato nell'anima.

Di parole all'orecchio il biografo ci presenta un bel florilegio; ma sono fiori d'erbario. Manca la vivezza dell'espressione, che veniva dall'accento, dallo sguardo, dal sorriso o dalla gravità di colui che le pronunciava; manca la freschezza dell'attualità, derivante dalle condizioni psicologiche di colui che le udiva. La figura di Don Bosco in mezzo ai giovani balza fuori da queste righe scultorie d'un testimonio: «Mi sembra ancora di vederlo a sorridermi, di udire le dolci sue parole, di ammirare quel suo amabile volto, nel quale era chiaramente stampata la bellezza dell'anima sua».

I consigli che Don Bosco dava in camera caritatis, fossero raccolti nella loro genuina semplicità, quale si ravvisa nei pochi saggi rimasti e si arguisce da apprezzamenti generici di testimoni, formerebbero un bel codice di cristiana sapienza. Chi li riceveva però, ne decantava ben volentieri il valore, ma se li teneva per lo più gelosamente in serbo.

Vive sempre nella memoria dello scrivente il ricordo del suo primo incontro con Don Bosco fra quelle benedette pareti: il punto culminante fu quando si sentì regalare dal buon Padre un aureo consiglio di vita spirituale, espresso con parole molto semplici, ma precise e dette là all'improvviso e proferite in tono non si saprebbe se più autorevole o paterno, talché dentro ne risuona tuttora l'accento.

In quella grand'arca di Noè che era l'Oratorio, a nessuno, fosse pure il più umile sguattero, s'interdiceva l'accesso alla camera di Don Bosco, nessuno si metteva in apprensione salendo a lui; tutti poi indistintamente venivano accolti con il medesimo cerimoniale, già accennato precedentemente. Sedeva Don Bosco a un modesto scrittoio, sul quale stavano affastellate lettere e carte, accresciute non di rado durante il colloquio dal sopraggiungere di nuova corrispondenza. Egli, senza darsene pensiero, metteva là ogni cosa, badando solo a chi aveva fatto sedere poco lungi da sé, come se non ci fossero altri da udire o da contentare, come se tutto il suo da fare stesse lì. Naturalmente si usciva di là illuminati, incoraggiati, contenti.

Il successore del teologo Murialdo nella direzione degli Artigianelli è stato ben felice nel ritrarre la sorte di coloro che dimoravano presso quel vero sacrario, donde s'irradiava tanta luce di consiglio. Ha detto: "Voi avete una gran fortuna in casa vostra, che nessun altro ha in Torino e che neppure hanno le altre comunità religiose. Avete una camera, nella quale chiunque entra pieno di afflizione, se ne esce raggiante di gioia». Della quale verità, commenta il biografo, «mille di noi han fatto la prova».

I consigli del confessore ci riaccostano per un istante ad argomento già delibato. Uno dei primissimi discepoli del santo, scrivendo di lui confessore, usa tre aggettivi che. condensano tutto: «caritatevole, opportuno, sapiente».

Episodi esigui, ma rivelatori illustrano magnificamente il triplice asserto del testimonio che giudicava di propria scienza.

La carità. Un giorno Don Bosco, negli ultimi anni della sua vita, in un circoletto di Salesiani che gli facevano corona, uscì a dire: - Stanotte ho sognato che volevo andarmi a confessare. Nella sagrestia c'era solamente il tal dei tali. Io lo guardai di lontano, e provavo quasi ripugnanza. È troppo rigoroso! dicevo fra me. Gli astanti ridevano di gusto, guardando all'effetto di quelle parole su colui che era il nominato, e che rideva al par degli altri e diceva piacevolmente: - Chi l'avrebbe mai immaginato? Io far paura a Don Bosco! La scenetta valse una lezione per tutti; chi non l'avrebbe capita a volo? L'opportunità, anche importuna. È voce unanime che Don Bosco non dicesse, confessando, molte parole, ma che le dicesse ben assestate, secondoché esigevano le circostanze, in modo da imprimere negli animi, con una grande idea del sacramento, ferma risolutezza di propositi.

Un giovane che frequentava l'Oratorio da esterno, aveva accettato di cantare in una parte religiosa al Teatro Regio di Torino. Sembrò un bell'onore per la casa a quei tempi! Ma Don Bosco non la pensava così; pavido per l'anima de' suoi, gli sapeva troppo male che un figlio dell'Oratorio andasse al teatro. Ma che cosa sarebbe accaduto al suo divieto? I superiori stavano sulle spine. La domenica mattina in confessione Don Bosco parlò e consigliò; il penitente annuì senza fiatare, e per tagliar corto alle chiacchiere altrui disse a chi incontrò - Quando c'entra la coscienza, è sempre il confessore che comanda.

La sapienza. Uno degli ideali più caldeggiati da Don Bosco fu, come dicevamo, di moltiplicare gli alunni del santuario. Il convincimento poi che egli parlasse sotto l'ispirazione di Dio conduceva a lui tanti e tanti bisognosi di consiglio intorno alla loro vocazione: un si o un no di Don Bosco in affare di si grande importanza dissipava ogni dubbio. Nel corso dei processi apostolici parecchi testimoni, toccando questo punto dello zelo sacerdotale di Don Bosco, hanno deposto all'unisono di non aver mai udito nessuno che si pentisse d'avergli dato ascolto, fosse o non fosse il suo consiglio per lo stato ecclesiastico, né di essersi mai imbattuti in uno solo che, avendo preferito agire di proprio capo, non se ne rammaricasse.

Una cronachetta inedita ci ha conservato il ricordo di un fatterello, che drammatizza quasi l'effetto straordinario prodotto da tanta carità, opportunità e sapienza sull'animo degli adolescenti che si confessavano da Don Bosco. Un giovane, finita la confessione, chiese a Don Bosco prima di andarsene, un favore: gli domandò il permesso di baciargli i piedi. Il Servo di Dio, senza menomamente scomporsi, gli rispose: - Non fa bisogno. Baciami la mano come a sacerdote. Il giovane allora, baciandogli con effusione la destra, esclamò: - Che fortuna sarebbe stata per me, se avessi prima aperti gli occhi, come stasera me li ha aperti lei!

Lo spirito del Signore, che a Don Bosco largiva tangibile assistenza nell'opera assidua di ben consigliare, gli accordava anche lumi superni per iscoprire peccati occulti e pensieri reconditi, tanto in vicini che in lontani.

Un fatto ci colpisce riguardo a questo favore, soprannaturale, ed è che Don Bosco ne parlasse senza reticenze. In un documento del 61 leggiamo: «Da dieci anni che io sono all'Oratorio, sentii Don Bosco a dire: Datemi un giovane che io non abbia mai conosciuto in modo veruno, e io guardatolo in fronte, gli rivelo i suoi peccati, incominciando a enumerare quelli della sua prima età». Una cronachetta manoscritta, sotto il 23 aprile 1863, riferisce testualmente il sermoncino della sera avanti, nel quale Don Bosco fra l'altro aveva detto: «Io in tutti questi giorni degli esercizi vedeva nel cuore dei giovani nel modo stesso che se leggessi in un libro: vedeva ben chiari e distinti tutti i loro peccati e i loro imbrogli». L'autore del documento sotto il 25 dello stesso mese scrive: «Don Bosco fu interrogato da me, se il suo leggere chiaramente nel cuore dei giovani era un fatto che avvenisse solo in tempo di confessione oppure anche in altro tempo. Egli rispose: - In ogni ora del giorno, anche fuori delle confessioni -». Il che devesi intendere non già nel senso che la lettura delle coscienze fosse continua, ma che poteva essergliene data la facoltà ogni volta che lo richiedesse il bene delle anime.

Chi sa mai perché Don Bosco, il quale teneva chiuso a sette suggelli quanto passava fra lui e Dio, si aprisse poi così liberamente intorno a queste arcane comunicazioni? Un gran perché ci dovette essere; forse anzi ve ne furono due. In primo luogo la notorietà di cosa si fuor del consueto e impossibile a tenersi celata non poteva non dar occasione a commenti nel piccolo mondo dell'Oratorio; prudenza voleva perciò che si schiarissero le idee in modo da far dileguare con la più schietta semplicità ogni ombra di dubbio circa l'origine e la natura del fenomeno.

Ma una seconda ragione ha per noi peso anche maggiore. Don Bosco, zelante cacciatore di anime con il mezzo della confessione, sapeva di avere contro di sé un avversario formidabile nel demonio muto, che tanti accalappia nel sacramento della penitenza con la mancanza di sincerità. Era questo un suo incubo perpetuo. Un ottimo parroco francese, che predicava frequenti missioni ed esercizi spirituali, atterrito alla vista di tante anime viventi nel sacrilegio per confessioni mal fatte, ma temendo che fosse illusione la sua, scrisse al nostro buon Padre per sottomettere al suo giudizio le proprie inquietudini. Don Bosco rispose: «E Lei dice questo a me, che ho predicato in tutta Italia e non ho quasi mai trovato altro?».

Un tempo, nei primordi del sacerdozio, egli era stato persuaso che i suoi figli avessero con lui inimitata confidenza; ma non tardò ad accorgersi, che il demonio era più furbo di lui.

Attingiamo dalla solita cronachetta, sotto il 12 aprile 1861. Ad un chierico, meravigliato di sentire che non pochi sogliono tacere i peccati in confessione, anche quando vi sia copia di confessori, Don Bosco, detto come non tutti i confessori abbiano «abilità, esperienza e mezzi per scrutare le coscienze e scovare le volpi che rodono i cuori», conchiuse dolorosamente: «Sono due grandi bestie la vergogna e la paura di scapitare nella stima del confessore». Ecco dove bisogna forse cercare il movente principale che in questa materia lo faceva uscire dal suo riserbo. Va bene che Don Bosco, leggendo nei cuori, vi scopriva chiaramente gli altarini; ma, quando egli diceva i peccati del penitente, il tentatore non l'aveva già prevenuto, inducendo a malizioso silenzio?

Giovava quindi in antecedenza mettere tutti sull'avviso, che al confessionale suo le diaboliche insidie sarebbero state smascherate; non si lasciassero dunque gabbare, ma piuttosto profittassero del dono di Dio per assicurarsi il buono stato delle loro anime. E così nel fatto la intendevano quei di casa. Molto spesso gli alunni, inginocchiatisi, davano principio all'accusa, pregando il confessore di dir loro i peccati; il che Don Bosco faceva con un'esattezza da farli strabiliare. Tanto ci è confermato da questa raccomandazione ch'ei rivolse ai giovani in un sermoncino della buona notte e di cui il Lemoyne diede lettura nei processi, traendola da un suo antico promemoria: «Finora, confessandovi, voi mi dicevate: - Dica lei - e io diceva. Ma in buona sostanza tocca al penitente e non al confessore. Io non reggo più a parlare per ore e ore; ne soffre il mio povero stomaco. Da qui innanzi dite voi, e, se sarete imbrogliati, allora vi aiuterò».

Anche fuor di confessione Don Bosco vedeva distintamente peccati e pensieri.

In seno alle comunità circolano modi di dire, che formano un repertorio locale, tutto in un senso convenzionale, da non interpretarsi col vocabolario alla mano. Di questo stampo era nell'Oratorio la frase leggere in fronte, , riferita a Don Bosco, significava indovinare i peccati.

Il convincimento che egli, guardando in fronte, vi cogliesse i segni rivelatori di magagne segrete, era così pacifico, che i giovani, quando non avevano la coscienza pulita, non ardivano andargli vicino per tema che leggesse loro in fronte; anzi, se chiamati o per altri motivi gli si dovessero presentare, si calcavano, tosto che potevano, il berretto sul viso o altrimenti vi facevano calare i capelli.

Si capisce che Don Bosco lasciava correre volentieri quell'espressione, perché gli serviva a occultare il carattere prodigioso del fatto; tuttavia si narrano episodietti di sfacciatelli che non vedevano niente di serio nella cosa e sfidavano Don Bosco a dir loro i peccati anche in pubblico. In quei casi la sua tattica era sempre la stessa: tirare il malcauto in disparte, mettergli una pulce nell'orecchio, farlo trasecolare, arrossire, piangere.

Press'a poco il medesimo avveniva dei pensieri; sebbene intorno alla lettura dei pensieri la notorietà fosse molto limitata. Don Rua per fatto personale attesta che, qualora si credesse opportuno celargli segreti d'affari, i quali egli aveva diritto di conoscere, ogni sotterfugio tornava inutile, perché, parlando, mostrava di saper tutto per filo e per segno. Un chierico, travagliato da scrupoli, mentre faceva l'esame di coscienza per la confessione, pensò segretamente così: - Se Don Bosco, volgendosi a me, mi dicesse di andare domani a far la santa comunione senza confessarmi, capirei che è tutto diavoleria il mio disturbo. Ed ecco nella penombra della sera una mano battergli sulla spalla, e la voce paterna di Don Bosco dirgli all'orecchio: - Domani andrai alla santa comunione; non è necessario che ti confessi.

nota: Il Lemoyne narra il fatto impersonalmente. Don Francesia ci fa sapere che egli era quel chierico, unendo al minuzioso racconto questa protesta: «Son vecchio, e alla mia età non si mentisce neppure per ridere». Fine nota.

Sempre a proposito dei pensieri, vogliamo riferire un aneddoto conosciutosi nel 1929, utile a sapersi anche perché ci si vede una volta più quale fosse lo spirito di Don Bosco. Un altro chierico, poi confondatore dei Giuseppini, Don Eugenio Reffo, avendo accompagnato fin dentro la camera di Don Bosco il suo superiore teologo Murialdo, se ne stava appartato in un angolo, mentre all'estremo opposto i due Servi di Dio conversavano fra loro. Dal cortile saliva il chiasso della ricreazione di tanti giovani, rafforzato dal fragore assordante degli allievi di una banda che faceva le prove. Il chierichetto pensò anche lui segretamente: - Ah, io non permetterei mai tanto baccano! Non in commotione Dominus.Ed ecco Don Bosco, sospeso il colloquio, venire difilato a lui e dirgli: - Sì, sì, Don Bosco ha ragione. Poi imitando col gesto delle mani il cozzare dei piatti turchi e il percuotere sulla grancassa: - Cin-cin, bum-bum. È così che vuole Nostro Signore. Chiasso, allegria, frastuono... cin-cin, bum-bum, a suo tempo.

E anche da lontano gli arrivavano misteriose notizie di cose occulte. Scrivendo dall'Oratorio ai collegi o da altre parti all'Oratorio, informava talvolta i superiori di ciò che vi succedeva a loro insaputa e che egli non poteva assolutamente conoscere se non per rivelazione. Declinava nomi, luoghi, circostanze con si perfetta rispondenza al vero, che, quando si trattava di mancamenti, i chiamati ad audiendum verbum di stucco e rinunciavano a mendicare scuse.

Una sera, durante il solito sermoncino della buona notte, poiché la familiare intimità dell'ora consentiva anche di muovere domande così in pubblico, Don Rua, che nell'Oratorio teneva le veci di Don Bosco, venutogli il destro, gli chiese come facesse a vedere le cose da lontano. Rispose faceto: «Per mezzo del mio filo telegrafico io, comunque lontano, stabilisco la mia comunicazione e veggo e conosco quanto può ridondare a onore e gloria di Dio e alla salute delle anime». A Barcellona, nell'86, altro che lettere o filo telegrafico!

Chi scrive, udì da quel Direttore il racconto particolareggiato dell'avvenimento, la cui storicità non può essere posta in dubbio. Don Bosco in persona, stando all'Oratorio, fu visto colà dal Direttore nel cuore della notte appressarsi al suo letto, farlo alzare, precederlo a luce di giorno in un giro per la casa, additargli qualche disordine, ricondurlo in camera, dargli ordine di provvedimenti immediati e sparire, lasciandolo là, in piedi, al buio, fuori di sé.  

Eugenio Ceria

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