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Cap XV. - APOSTOLO DI CARIÀ.

Come tutti i Santi, Don Bosco praticò la carità universale, secondo le circostanze. «Far del bene a tutti, del male a nessuno», fu una sua massima ripetuta ancora poco prima di morire.


Cap XV. - APOSTOLO DI CARIÀ.

da Don Bosco

del 14 dicembre 2011

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Vediamo di cogliere ancora qualche lineamento atto a integrare la figura di Don Bosco, quale ci è apparsa nelle pagine che precedono. Seguendolo passo passo nel corso della sua esistenza, abbiamo potuto rilevare lo spirito che lo animò nelle varie età e nelle svariate contingenze della vita. Ci è passato dinanzi fanciullo e adolescente, chierico e giovane sacerdote, fondatore di opere e ministro del Signore, sempre divorato da zelo per la gloria di Dio e la salute delle anime e provato quasi del continuo da tribolazioni d'ogni fatta, ma senza mai perdere quella sua calma imperturbabile, quella sua tranquillità e pace, che gli venivano da perfetta, intima, ininterrotta unione con Dio. Ora, poiché indubbiamente la vita di Don Bosco fu tutta un grande apostolato di carità, studiarlo sotto un tale punto di vista e vedere che cosa vi abbia avuto di proprio, sarà l'argomento di questo capo. Argomento vasto per sé, ma che non deve portarci oltre i limiti consentiti dall'indole del libro.

Don Bosco fu essenzialmente un apostolo. L'apostolo è un inviato. Egli venne inviato, come abbiamo visto, per una missione specifica di carità in favore della gioventù, missione provvidenziale, ma non esclusiva. Nell'invito a tale apostolato gli s'indicarono pure i mezzi, con i quali prepararvisi: doveva incominciare col rendersi umile, forte e robusto, e poi passare all'acquisto della scienza. Preparazione dunque anzitutto fisica, morale, e ascetica, indi anche scientifica. L'avvenire doveva chiarirgli quello che allora egli non capiva.

L'esecuzione del mandato importava un faticoso lavoro, attraverso difficoltà e contraddizioni e in una larga opera d'istruzione e di educazione; necessitavano perciò buona salute, tempra d'animo, buona cultura. Sarebbe stato così fornito di quelle attitudini naturali, che Dio vuole sempre in una sua creatura destinata a una missione straordinaria, come indispensabile al compimento della missione stessa. Ma non gli sarebbe bastato affidarsi a' suoi sforzi umani né alle virtù naturali: in questo modo avrebbe prodotto solo risultati naturali, che non rispondevano ai disegni del cielo. Ci voleva insieme e soprattutto il potente aiuto della grazia divina, la quale non viene concessa se non agli umili di cuore. «L'umiltà, insegna S. Tommaso, è una disposizione che facilita all'anima l'acquisto dei beni spirituali e divini».

Con l'umiltà di tutta la vita Gesù trionfò del mondo; non altrimenti avrebbe Don Bosco trionfato degli infiniti ostacoli sollevatigli contro dai nemici del bene, conducendo a felice termine il grande compito assegnatogli da Dio. E bisogna convenire che la Provvidenza gli procacciò le occasioni per ben fondarsi nell'umiltà: umili natali, umile stato di biennale servitù in casa d'altri, umile condizione servile dai sedici ai ventun anni.

Così il suo spirito, che si sentiva fatto per cose grandi e portato ad alta estimazione di sé, si andò macerando allungo e avvezzandosi a non ricusarsi 'mai a nulla anche di più umiliante, ogni volta che poi lo esigesse la gloria di Dio e il bene del prossimo, senza mai considerarsi più che un povero strumento nelle mani del Signore. L'umiltà diventò il segreto della sua unione intima con Dio, dalla quale, come da fonte, scaturì l'azione esteriore. Così è di ogni vero apostolo.

Non è un particolare trascurabile il fatto, che gl'impartì questa lezione la Madre di Dio. L'apostolato di Don Bosco presenta una spiccata impronta mariana, che ne forma un carattere distintivo. Maria Ausiliatrice e Don Bosco potrebbe essere titolo d'un magnifico poema. Don Bosco non è nulla, ripeterà egli fino all'ultimo respiro; chi fa tutto è la Madonna.

Ogni apostolato ha un oggetto proprio e preciso. Come tutti i Santi, Don Bosco praticò la carità universale, secondo le circostanze. «Far del bene a tutti, del male a nessuno», fu una sua massima ripetuta ancora poco prima di morire.

Nel campo della carità, vasto quanto la vastità dei bisogni umani, una porzione speciale toccò a lui in sorte, l'educazione cristiana dei figli del popolo. Accintosi a tale opera, creò due famiglie religiose, informandole del suo spirito. Quale spirito? Lasciati da parte elementi comuni, mi fermo a tre soli accennati sopra, che si possono dire particolari e caratteristici: spirito di carità operosa, di carità gioconda, di carità indipendente.

Il primo elemento è Inoperosità, o se si vuole, la laboriosità. Sarebbe difficile trovare un altro Santo che, nella misura di Don Bosco, abbia coniugato e fatto coniugare il verbo lavorare. Per Pio XI la sua fu «una vita di lavoro colossale».

Questo aspetto della vita di Don Bosco viene delineato, come non si potrebbe meglio, dal Servo di Dio Don Leonardo Murialdo nella testimonianza seguente: «A me non constano di Don Bosco né prolungate orazioni né penitenze straordinarie; ma mi consta il lavoro indefesso, incessante per lunga seria di anni in opere di gloria di Dio, con fatiche non interrotte, fra croci e contraddizioni d'ogni fatta, con calma e tranquillità al tutto unica e con un risultato per la gloria di Dio e il bene delle anime al tutto straordinario».

Sul lavoro Don Bosco aveva una dottrina propria sia per sé e per i suoi sia circa il modo. Per conto suo, e lo scrisse fra i propositi in occasione del presbiterato, riguardava il lavoro come un'arma contro i nemici dell'anima. Non intendeva però di un lavoro qualunque. Secondo lui, il prete ha l'obbligo di lavorare e lavorare tanto, che, se anche vi lascia la vita, non fa più del suo puro dovere. Questo l'obiettivo, questa la gloria dei preti: non stancarsi mai di lavorare per la salute delle anime.

Sentendosi poi chiamato a opere di larga portata, riteneva che senza grandi fatiche non sia mai possibile arrivare a grandi cose. Persuaso inoltre che il mondo odierno vuol veder i preti a lavorare e sperimentando quanto anche i nemici della Chiesa apprezzino nel clero chi lavora, pensava che oggi non basti pi√π pregare, ma che, non dimenticando mai la preghiera, bisogna operare, intensamente operare.

Movendo da tali principi, non fa meraviglia che impiegasse tutte le sue forze a lavorare per la gloria di Dio e la salute delle anime, e che, consigliato a prendersi un po' di riposo, rispondesse piacevolmente: - Mi riposerò quando sarò qualche chilometro sopra la luna. La sua salda costituzione fisica gli avrebbe permesso di vivere anche fin oltre novant'anni; invece si consumò letteralmente si consumò in un improbo lavoro diurno e notturno. Onde si può ben credere quanto sia vero che settantenne, al dire di testimoni, soffriva pensando al gran lavoro che prima poteva fare, mentre allora non gli bastavano più né le forze né la vista per una centesima parte.

Il medesimo spirito di laboriosità volle veder fiorire nella Congregazione Salesiana. Già, lo diceva apertamente a coloro che domandavano di entrarvi: - Lo spirito della Congregazione è questo, che niuno vi entri sperando di starvi con le mani sui fianchi. Un'esperienza fatta nei primordi della Società lo incoraggiava a far lavorare senza tregua.

Allora, non potendosi parlare liberamente di vita religiosa, perché idee ostili dominavano un po' dappertutto nel popolo, e avendo necessità di prepararvi coloro che fra i giovani chierici dell'Oratorio vi stimava adatti, non esigeva molto in materia di pratiche religiose, ma faceva lavorare a più non posso. Orbene, che avvenne? Chierici anche divagati, che, assoggettati a regole restrittive, sarebbero andati via, lavoravano di buona voglia e molto sotto la sua vigile direzione, e appresso, cambiate le circostanze, diventarono preti salesiani di ottimo spirito.

In seguito, rassodate le cose, ebbe agio di fare un'altra esperienza, essere cioè la poca volontà di lavorare una delle cause che allontanano dalla vita religiosa, mentre il lavoro continuato, oltreché a svegliare molteplici forme di attività che senza quello sarebbero rimaste latenti, serve a conservare le vocazioni. In questo suo modo di vedere lo confermò la parola di Pio IX. Il grande Pontefice due volte gli aveva manifestato in proposito un pensiero conforme al suo.

Nel 1869 gli aveva detto stimar egli in condizione migliore una Congregazione, dove si preghi poco e si lavori molto, che non un'altra, nella quale si facciano molte preghiere e poco lavoro. Perciò nel 1874 lo autorizzò ad affidare ai novizi occupazioni volute dalle Regole dopo la professione. Occupateli a lavorare, a lavorare! gli disse il Papa.

Ciò posto, veniva da sé che non risparmiasse il lavoro a' suoi. Raccomandava bensì la cura della sanità, ma per poter lavorare molto. Il suo esempio e la sua parola erano stimoli potenti ed efficacissimi. Con palese soddisfazione rilevava come tutti quelli che crescevano nella Società, acquistavano un amore, anzi un ardore tale per il lavoro, che non gli pareva potersi da altri superare. Finché dura questo gran lavoro, diceva, si andrà avanti a gonfie vele.

Dinanzi a siffatte disposizioni d'animo potè permettersi più volte affermazioni come questa: - Quando avverrà che un Salesiano soccomba e cessi di vivere lavorando per le anime, allora direte che la nostra Congregazione ha riportato un grande trionfo, e sopra di essa scenderanno copiose le benedizioni del cielo. E simili casi si avveravano, specialmente nelle Missioni. Onde il Santo nella sua prima relazione triennale del 1879 sullo stato della Società alla Santa Sede non si peritava di scrivere: «Il lavoro supera le forze e il numero degli individui, ma niuno si sgomenta, e pare che la fatica sia un secondo nutrimento dopo l'alimento materiale».

Ma altro è lavorare molto, altro lavorare bene. Chi non sa che l'apostolato, mentre può e dev'esse; re mezzo di santificazione, diventa invece, per chi si lascia sopraffare dall'attività esteriore, una causa di snervamento spirituale? Don Bosco non aveva bisogno di chi gli segnalasse un pericolo così evidente. A cominciare da lui, possiamo appellarci al giudizio di un Papa come Pio XI, conoscitore degli uomini e buon conoscitore di Don Bosco.

Nel discorso del 19 novembre 1933 per l'approvazione dei miracoli, disse: «Vien proprio fatto di domandarsi quale Fosse il segreto di tutto questo miracolo di lavoro. E proprio il Beato ce l’ha data la spiegazione, la chiave vera di questo magnifico mistero: ce l'ha data in quella sua perenne aspirazione, anzi continua preghiera a Dio; poiché incessante fu la sua intima conversazione con Dio e raramente si è come in lui avverata la massima qui laborat, orat, é identificava appunto il lavoro, con la preghiera».

Quanto agli altri, non si contentava che lavorassero molto, ma insegnava loro a lavorare spiritualmente, ossia con fede, speranza e carità. Con fede mirando a fare in tutto e sempre la volontà di Dio senza mai cercare le lodi degli uomini; con speranza, aspirando alle celesti ricompense delle fatiche sostenute quaggiù e non alle misere soddisfazioni terrene; con carità verso Dio, offrendo ogni fatica a Lui, che solo è degno di essere amato e servito, e con carità verso il prossimo, cercando esclusivamente, mediante la dolcezza di san Francesco di Sales e la pazienza di Giobbe, il bene delle anime.

Temeva, temeva assai che l'efficacia e il merito del lavoro andassero in fumo per l'infiltrarsi della volontà propria, che bisognava invece vincere e rinnegare, considerando lavoro da cristiano e da religioso anzitutto l'adempimento dei doveri del proprio stato, piacessero o no all'amor proprio. Dopo una voce venutagli dal cielo nel 1876, ripeteva con frequenza: - Lavoro e temperanza faranno fiorire la Congregazione Salesiana. Sono due armi con cui noi riusciremo a vincere tutti, e . Con la temperanza una seconda virtù giudicava indispensabile che si accompagnasse al lavoro.

Per sollevare gli spiriti amava in certe occasioni rappresentare il bene straordinario che la Congregazione era chiamata a compiere nel mondo, e lo faceva con si vivi colori come se le cose già fossero; ma alla fine metteva in guardia contro qualsiasi presunzione, raccomandando di unire al lavoro e alla temperanza anche l'umiltà. Insomma, si deve dire che fu ben ispirato quel Capitolo Generale della Società, che nel Regolamento per le Case di Noviziato fece un dovere ai Maestri dei Novizi d'instillare nei loro alunni «quella operosità instancabile santificata dalla preghiera e dall'unione con Dio, che dev'essere la caratteristica dei figli di Don Bosco».

Non mi indugio a misurare il campo della operosa carità di Don Bosco verso il prossimo, segnatamente a vantaggio dei figli del popolo. Per questo rimando ai quattro capi, dove si tratta di Don Bosco confessore, predicatore, scrittore, educatore. Là si vede come la sua laboriosità senza pari fosse accoppiata sempre a un'interiorità perfetta, facendo di lui un Santo al tutto singolare.

Operoso, operosissimo il suo apostolato di carità, ma di una carità gioconda. L'Epistola della Messa di S. Giovanni Bosco, tolta da S. Paolo, incomincia con le parole: State allegri sempre nel Signore; lo dico per la seconda volta, state allegri. o! L’allegria albergava in lui ed emanava da lui. Quanti motivi ebbe di attristarsi, dalla fanciullezza alla vecchiaia! Eppure le testimonianze di coloro che meglio furono in grado di conoscerlo, sono tutte concordi nell'asserire che la giovialità fu il carattere di tutta la sua vita. Chi avrebbe detto i che era assillato di mille cure, quando dava ai giovani quelle 'buone notti' scoppiettanti del più ama; bile buon umore o quando scendeva in cortile e calmo e sorridente dispensava motti di spirito, che destavano l'ilarità e facevano tanto bene a chi erano indirizzati?

Esistono sue lettere, scritte sotto l'incubo di dure fatiche e di gravi fastidi, eppure infiorate di arguzie, che però avevano lo scopo di arrivare per tal modo al cuore altrui e deporvi il germe di qualche buon sentimento. Il suo esempio influiva talmente su quanti ebbero la sorte di convivere con lui, che essi stessi senz'accorgersene si sentivano inclinati per costante abitudine a pigliare le cose contrarie al proprio gusto con invidiabile serenità d'animo ed anche con disinvolto sorriso. Dal cuore ricolmo del divino amore proveniva in Don Bosco il perenne gaudio spirituale che, unito a perfetto dominio di sé, lo rendeva sereno nelle vicende della vita e apportatore di serenità ai suoi figli piccoli e grandi.

Non posso passare qui sotto silenzio due cose, sulle quali influì questo suo fondo di gioconda carità. La prima riguarda la pietà dei giovani e più precisamente la frequente comunione.

Nulla ripugnava tanto alla sua maniera di pensare sulla bontà del Signore quanto gl'ingombranti residui di severità giansenistica che sopravvivevano ancora qua e là in Piemonte, aduggiando le anime specialmente nella pratica dei sacramenti. Don Bosco si accinse con coraggio a farli dileguare col promuovere fra i giovani la cordiale partecipazione alla mensa eucaristica. Forte del genuino insegnamento della Chiesa, si spinse più in là dello stesso san Francesco di Sales, generalizzando l'uso della comunione non solo settimanale, ma quotidiana. Non si era mai visto alcun che di simile.

Sono spiegabili quindi le osservazioni in contrario e a volte anche le fiere rimostranze. Cadevan proprio dalle nuvole certuni, vedendo nell'Oratorio alla Messa della comunità le processioni di ragazzi, che ogni giorno si affollavano alla balaustra. Ma egli lasciava dire, e il suo esempio a poco a poco s'impose e la pratica si fece strada, finché il santo Pontefice Pio X troncò per sempre la questione, emanando il celebre decreto, che segnò il trionfo dell'ascetica sacramentale di san Giovanni Bosco e usando perfino sue stesse parole.

L'altro benefico effetto della sua gioconda carità è la forma da lui impressa al sistema preventivo nell'educazione della gioventù. Le sobrie, ma sapienti e feconde norme ch'ei dettò, sono la consacrazione della lieta cordialità in un'opera delle più delicate che si possano intraprendere a vantaggio della tenera età. Egli che fanciullo si sentiva già stimolato a farla da apostolo in mezzo a' suoi piccoli coetanei ed a' suoi stessi compaesani più grandi, valendosi dell'abilità di giocoliere acquistatasi proprio a tale scopo; egli che adolescente esercitò l'apostolato fra i condiscepoli, organizzando un'associazione intitolata dell'allegria; egli che, giovane prete, all'inizio della sua missione si attirava i birichini torinesi facendosi lietamente piccolo coi piccoli e nei primordi dell'Oratorio escogitava i mezzi più geniali per riempire di gioia la casa: quando prese la penna e mise in termini precisi le norme che dovevano regolare l’educazione giovanile così com'era da lui concepita, fece della carità gioconda una conditio sine qua non tutto il suo metodo educativo, che si riduce in ultima analisi al più bel servite Domino in laetitia.

L'ho detto apostolo di una carità indipendente, superiore cioè a giudizi e pregiudizi: giudizi di coloro, a cui beneficio la esercitava, e di quegli altri che o lo mordevano con le loro critiche o gli tributavano grandi lodi; pregiudizi di chi per malintesi frapponeva ostacoli al suo zelo, e di chi per malanimo combatteva le sue istituzioni e le avrebbe perfino volute distruggere.

Anzitutto, la carità che gli ardeva in petto, lo faceva essere ministro di Dio con ogni genere di persone. Con chiunque aveva da trattare, non appena intuiti i suoi sentimenti nei riguardi della religione, trovava la maniera d'invitarlo a pensare all'anima. La carità che ve lo muoveva, gli comunicava una singolare franchezza apostolica la quale, congiunta con là più schietta semplicità, non mancava di far breccia. In questi casi non sapeva che cosa fosse quel rispetto umano, che trattiene a volte i sacerdoti dal toccare certi tasti.

Conscio di rendere così il miglior servigio che si possa aspettare da un prete, non badava alle prime impressioni prodotte o producibili dalle sue parole in chi gli stava dinanzi. Erano spesso nobili scienziati, professionisti, uomini politici, personaggi potenti, noti per le loro idee contrarie alla Chiesa, che quindi a tutta prima avrebbero facilmente arricciato il naso; ma egli senza preoccuparsene condiva la sua libertà con tale gentilezza di modi, con tali espressioni di stima, riverenza e affetto e opportunamente anche con inaspettate e urbane facezie, che non consta di un caso solo, in cui alcuno se la sia avuta a male.

Quanti gustosi episodi si narrano a questo proposito!

Biasimi e poi lodi gli fioccarono da ogni parte e in ogni tempo; centinaia di volte la stampa si occupò della sua persona prò o contro. La sua carità non si sgomentava dei primi, e nelle seconde ravvisava al più un valore di propaganda per le sue opere di bene. Quale fosse intorno a ciò il suo intimo sentimento, lo diede a vedere abbastanza in un articolo che si leggeva già nell'antico Regolamento delle Case Salesiane e che fu mantenuto nella prima edizione del 1877 e nelle successive.

In quell'articolo Don Bosco dice ai giovani che si avvezzino ad accogliere con indifferenza il biasimo e la lode. Non è davvero esiger poco a quell'età! Per parte sua, quando gli si parlava di lodi o di biasimi a lui rivolti, soleva ripetere che chi lo lodava, diceva quello che egli sarebbe dovuto essere, e chi lo biasimava, diceva quello che era. Più comunemente due Cose gli rinfacciavano i suoi critici, che permettesse tanta pubblicità intorno alla sua persona e alle sue opere e che si familiarizzasse troppo con gente avversa alla Chiesa.

Ma nella pubblicità egli vedeva soltanto un mezzo per far conoscere e sostenere le sue istituzioni, nel che ebbe il merito di capire i tempi: a poco a poco la cosa acquistò si gran voga, che perfino suoi censori vi si appigliarono, se vollero riuscire in qualche loro buona impresa.

Della seconda accusa gli tornava facile scagionarsi: non trovava infatti che fosse male avvicinare tutti per fare a tutti del bene e, trattandosi di autorità costituite, rispettarle e dare a Cesare quel che è di Cesare, per ottenere che non si neghi a Dio quel che è di Dio. Del resto non corteggiava nessuno: fossero deputati, senatori o ministri, si diportava cortesemente, ma francamente e da prete con ognuno, senza omettere al solito ai arre 'verità che non avrebbero mai sentite da altri.

La sua carità si mantenne pure indipendente da altrui pregiudizi, si svolse cioè eludendo saviamente ogni azione deleteria, che avrebbe potuto da questo lato intralciare il corso provvidenziale. I pregiudizi a lui sfavorevoli ebbero un triplice carattere: ecclesiastico, religioso e politico.

L'Opera di Don Bosco si affacciava al mondo con elementi nuovi, che non sembravano conciliabili con venerande tradizioni. Oggi novità importate da lui sono entrate nella vita della Chiesa; ma i precursori non trovano facile adito dappertutto presso gli uomini del passato: donde riserve, diffidenze, opposizioni. In questo campo le difficoltà insorsero talvolta si gravi e prolungate da poter scoraggiare chi non avesse avuto la coscienza di una missione superiore. Egli tuttavia non si smarrì né cambiò rotta: pazientò, si umiliò, parlò, scrisse, finché verso la fine de' suoi giorni provò il conforto di vedersi universalmente compreso, approvato e benedetto.

Per i pregiudizi della seconda specie intendo le false idee dei tempi circa lo stato religioso. Il Governo sopprimeva i conventi e ne disperdeva gli abitatori. Continuamente la stampa nei giornali, nei libri, nel teatro li denigrava e copriva di dileggi. Anche famiglie cristiane ne subivano l'influsso, non guardando con simpatia i religiosi. Non sempre il clero secolare li teneva in pregio. Religioso voleva dire frate, e frate allora passava per sinonimo di uomo da poco e fannullone. I ragazzi ridevano volentieri dietro le cocolle, quando rare ne comparivano. Eppure Don Bosco mirava proprio a fondare una nuova Congregazione religiosa. Avrebbero avuto un bel dire che la sua era diversa dalle altre: nemmeno i giovani dell'Oratorio gli avrebbero dato ascolto, e gli avrebbero risposto che preti sì, ma frati non volevano essere. S'immagini dunque com'egli, dovendo attaccarsi proprio ad essi e venirseli preparando, avesse bisogno di andar cauto per non urtare i comuni pregiudizi e non sciupare le uova nel paniere! La bontà, la pazienza e la sagacia gli diedero finalmente causa vinta. Solo una carità lungimirante potè sostenerlo nell'ardua impresa.

Veniva infine la pregiudiziale politica. Il sorgere della Società coincise col periodo delle guerre per l'indipendenza e l'unità d'Italia. Idee punto ortodosse di riforma, di progresso e di libertà, fermentate sotto il Pontificato di Gregorio XVI, esplosero all'avvento di Pio IX. Deliranti manifestazioni popolari suscitavano smanie di cose nuove anche in membri del clero secolare e regolare, che o per insofferenza di disciplina o perché esaltati dalla lettura dei libri giobertiani o perché illusi dalla propria ingenuità, si abbandonavano alla corrente. Se tutto fosse stato patriottismo puro, meno male; ma c'era chi pescava nel torbido o tirava l'acqua al suo mulino, ed erano settari, nemici di Dio e della Chiesa. Troppi dei buoni o di corta vista non vedevano o allucinati pigliavano lucciole per lanterne.

Si fece di tutto per trascinare anche Don Bosco nel mare magno della politica; ma il suo animo profondamente sacerdotale gli indicò la vera linea di condotta: niente politica che divide, sempre e in tutto la carità che unisce. Ebbe molto a soffrire allora e in conseguenza anche dopo. Egli tuttavia non piegò. Prudente, calmo, rispettoso, badava a raccogliere fanciulli abbandonati per farne buoni cittadini e buoni cristiani, e si studiava intanto di preservare dalle comuni aberrazioni il crescente stuolo dei giovani, che destinava tacitamente a essere le pietre fondamentali del costruendo edificio.

L'esperienza di quell'agitato periodo gli fu maestra nel periodo successivo, quando veniva rassodando la Società Salesiana. Di fronte al nuovo Stato si prefisse, e ne ebbe lode da Pio IX, di far conoscere che, rispettando le leggi della carità, si può dare a Cesare quel che è di Cesare senza mai compromettere nulla e nessuno e senza essere mai distolto dal dare a Dio quel che è di Dio. Egli considerava questo come il massimo problema dei cattolici in quei tempi.

Nella pratica incontrò serie difficoltà, che cercava di risolvere per le vie della carità evangelica. Nei nemici della Chiesa l'arte purtroppo era raffinata e i loro mezzi immensi; Don Bosco tuttavia, mantenendosi nella legalità e accaparrandosi con la carità il favore personale degli uomini che sedevano al potere, pur attraverso a sacrifici d'ogni maniera, eres se il suo edificio su basi solide, tanto solide che, se altri vollero ridar vita ad antiche istituzioni, non isdegnarono di seguire il suo esempio.

Il Papa della canonizzazione alludeva all'insieme di tante contrarietà, che attraversarono al Santo il cammino e dalle quali egli col divino aiuto si affrancò, quando nell'omelia del gran giorno diceva: «Dedito interamente alla gloria di Dio e alla salute delle anime, egli non si arrestò davanti all'altrui diffidenza; ma con arditezza di concetti e con modernità di mezzi si accinse all'attuazione di quei nuovissimi propositi che, per quanto sembrassero temerari, egli, per superiore illustrazione, conosceva essere conformi alla volontà di Dio». E più innanzi: «Davanti alle difficoltà di ogni genere, davanti alle irrisioni e agli scherni di molti, egli, sollevando i suoi occhi luminosi verso il cielo, era solito esclamare: - Miei fratelli, questa è opera di Dio, è volontà del Signore: il Signore è quindi obbligato a dare gli aiuti necessari. Gli avvenimenti mostravano la verità delle sue parole, tanto che gli scherni si cambiarono in ammirazione universale».

Si avverò così per lui quello che scrive l'Apostolo della carità: Perfecta caritas foras mittit timorem. stragrande amor di Dio e del prossimo lo rese tetragono a tutto, e così raggiunse il fine della sua missione.

Qui il pensiero torna spontaneo alla bella Messa approvata dalla Chiesa per S. Giovanni Bosco. Si apre essa con le parole, che la Scrittura dice di Salomone e che Pio XI fece sue varie volte in discorsi su Don Bosco: Insieme con sapienza e prudenza straordinaria Dio gli diede larghezza di cuore immensurabile com'è l'arena che sta sul lido del mare. si addiceva a chi, e lo suggerisce la Messa medesima, doveva diventare pater multarum gentium.

 

 

Eugenio Ceria

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