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Cap V. - NELLA SECONDA TAPPA DELLA MISSIONE.

«Era meraviglia il modo, col quale si lasciava comandare una moltitudine poco prima a me sconosciuta, della quale in gran parte poteva dirsi con verità che era sicut equus et mulus, quibus non est intelectus...»


Cap V. - NELLA SECONDA TAPPA DELLA MISSIONE.

da Don Bosco

del 14 dicembre 2011

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In seminario Don Bosco aveva fatto una conoscenza, che gli doveva riuscire preziosa: un teologo Borel di Torino, venuto ivi a dettare gli esercizi spirituali. «Egli apparve in sacrestia, scrive Don Bosco, con aria ilare, con parole celianti, ma sempre condite con pensieri morali». Dicono che la prima impressione sia la vera; può darsi che non sia sempre così, tanto di soggettivo suol entrare in un'impressione; ma quella fu ottima e verissima. Infatti si ebbe la riprova. Il prete si rivela prete in iis, quae sunt ad Deum; li discerne, se il prete è uomo di pietà o povero abitudinario.

Il chierico Bosco, avendone osservato «la preparazione e il ringraziamento della messa, il contegno, il fervore nella celebrazione», si accorse «subito» che era «degno ministro di Dio». Notevole quel «subito», che ci fa pensare all’intelligenti pauca. cose di pietà, il chierico Bosco era buon intenditore e capiva a volo. Quando poi lo udì predicare, lo giudicò senza più «un santo»; volle quindi «conferire con lui sulle cose dell'anima». Volle, dunque vi s'indusse di sua spontanea volontà: e che cosa volle?

Volle non solo confessarsi, com'è uso, ma conferire, che è avere colloqui intimi e importanti; e questi versarono su cose dell'anima, vale a dire intorno ai bisogni della vita spirituale.

Il ricordo di quegli esercizi rimase profondamente scolpito nell'animo di Don Bosco; onde nei tre anni del Convitto si stimava felice ogni volta che avesse occasione di scambiare qualche parola con l'esemplare sacerdote, il quale dal canto suo, conoscendolo bene, lo invitava volentieri a servire nelle sacre funzioni, a confessare, a predicare insieme con lui: inviti non infrequenti, data la proverbiale attività del suo zelo, gli metteva l'argento vivo addosso, tanto da farlo chiamare presso i colleghi «il bersagliere di santa Chiesa». Erano proprio due spiriti nati fatti per intendersi.

Don Bosco dunque aveva già familiarità e con la persona del teologo e con il luogo della sua dimora, quando si ventilò la proposta ch'egli passasse a prendere stanza presso di lui. Questo fu allo spirare del triennale soggiorno nel Convitto ecclesiastico. L'idea o meglio l'ispirazione venne a quell'altra anima santa del Cafasso, risoluto d'impedire che Don Bosco andasse via da Torino.

Il teologo abitava al così detto Rifugio, sotto il qual nome i Torinesi designavano sommariamente tutto un complesso di benefici istituti fondati dalla regale generosità d'una munifica dama, la Marchesa di Barolo; colà egli faceva da rettore e da direttore spirituale.

Con pia docilità di figlio verso il padre dell'anima sua, Don Bosco, ravvisando nel consiglio di Don Cafasso la pura e semplice manifestazione del divino volere, gettate dietro le spalle altre considerazioni che gli si affacciavano alla mente, trasferì al Rifugio il quartier generale dell'Oratorio che s'incamminava a diventare un'istituzione.

Quartiere generale sembrerà parola un po' grossa, se la si applica all'angusto quartierino assegnatogli per sua abitazione; non così se si pensi che ivi resiedette per tre anni il comando supremo di un bell'esercito giovanile. A compimento dell'immaginazione marziale diremo ancora che il suo stato maggiore era costituito dalla carità, cui facevano corona le virtù poste al suo seguito da san Paolo nel celebre capo tredicesimo della prima lettera ai Cristiani di Corinto.

Continue soprattutto gli spuntavano fra i piedi le occasioni di rammentare a se stesso, che caritas patiens est. suoi da trecento a quattrocento monelli urtarono i nervi alla Matrona del Rifugio, che un bel giorno, stanca di sopportare, lo costrinse a metterli alla porta, e da ultimo si rassegnò con rammarico a privarsi definitivamente dell'utilissima opera sua, vedendolo sempre fermo in non voler abbandonare l'impresa; urtarono l'amore del quieto vivere o le pretensioni esorbitanti di cittadini domiciliati nei pressi delle località, dove successivamente egli diede convegno alla sua turba domenicale; urtarono le ombrose suscettibilità di autorità civili e politiche, le quali, tenendo bordone a privati, lo sfrattavano ora da un luogo ora dall'altro o lo invigilavano quasi fosse persona pericolosa all'ordine sociale; urtarono secolari consuetudini parrocchiali, destando preoccupazioni sulle conseguenze che sarebbero potute nascere da tali non mai viste novità; urtarono infine il maltalento di gente che aveva interessi più o meno confessabili a gettargli bastoni fra le ruote, massime allorché, respinto da ogni parte, si ridusse a tenere le sue adunanze in un gran prato, che era a un bel tiro fuor dell'abitato.

Impensierito ma non abbattuto, afflitto ma irremovibile, opponeva a sempre rinascenti ostilità quell'eroica fortezza d'animo che è dono dello Spirito Santo. Una fortezza di si eccelsa origine fa che l'uomo sia pronto a tutto, intrepido contro tutti e scevro di ogni ostentazione, come si vedeva per l'appunto in Don Bosco. Oh, non era certo una delizia, umanamente parlando, trascorrere le domeniche intere fra tanti ragazzi rozzi, chiassosi, rissosi, talora sconoscenti e villani; non era una delizia nemmeno istruire, com'egli faceva, giovinastri ottusi o caparbi o svogliati. Oggi anche ragazzi d'infima condizione nei di festivi ti compaiono davanti lindi e puliti, che paiono signorini; ma allora quanta ragazzaglia analfabeta e scapigliata scorazzava per vie e piazze nei sobborghi della capitale piemontese! Si sarebbe dovuto ammirare e favorire Don Bosco, o almeno lasciarlo in pace fra i suoi birichini, di cui amava proclamarsi il capo; ma le opere di Dio sorgono e crescono bersagliate da nemici e da amici. Egli soffriva calmo, levando gli occhi al cielo, donde aspettava aiuto e conforto; già allora, quanto s'incontrasse di più arduo e ripugnante alla natura, sembrava in lui facile e soave.

La fortezza dei Santi è d'altra tempra che quella stoica, dura e inflessibile: i Santi, fidenti nel condorso soprannaturale della grazia, pregano, pazientano e vincono. La fortezza filosofica si esaurisce nell'egoistica soddisfazione dell'amor proprio, da cui piglia ispirazione e norma; la cristiana aguzza l'ingegno a escogitare sempre nuove vie, umili talora e umilianti, pur di raggiungere la meta vagheggiata, senz'altra ambizione che di promuovere gl'interessi della gloria divina e procurare il bene del prossimo.

Oratoriani della prima ora, che non si staccarono più da Don Bosco, ma vissero sempre o con lui o non lungi da lui, accanto al ricordo di quegli anni eroici serbarono viva in cuore la sua immagine veramente paterna, cioè cara e buona, cara perché buona, ma buona di quella bontà che il giovane del Vangelo lesse in volto a Gesù, quando gli chiese: Maestro buono, che cosa farò io per acquistare la vita eterna? un uomo così complesso e completo come Don Bosco la bontà non aveva nulla di certa sensibilità che degenera facilmente in debolezza; la bontà di Don Bosco, illuminata da intelligenza e da fede e infiammata nell'abituale contatto con Dio, si traduceva in soprannaturale benevolenza, uguale con tutti, e per tutti elevante.

Ecco perché in mezzo alle fortunose vicende, di cui quei primi allora intravidero appena e solo più tardi compresero la ripercussione dolorosa sull'animo suo, lo scorgevano costantemente tranquillo e sereno farsi tutto a tutti nell'espansione di un affetto operativo e spiritualissimo. Così egli rubava i cuori dei giovani, che, dovunque si recasse a confessare, non volevano più sapere d'alcun altro, facendogli ressa intorno ilari e confidenti. Ecco perché, contesogli un palmo di suolo entro le mura e spinto a trasferire l'Oratorio in aperta campagna, vedeva i giovinetti, anche durante gl'inverni torinesi, seguirlo con tanta fedeltà, che, portando seco il mangiare, stavano con lui fino al tramonto. Quei primi, fatti adulti, rivedendolo nel pensiero quale l'avevano visto allora nella realtà, esclamavano: - Era in mezzo a noi un angelo!  

Questo giudizio ci richiama al protomartire santo Stefano, del quale, tempestato di accuse, narrano gli Atti nel tribunale gli astanti vedevano il suo volto come volto d'angelo, era la calma dignitosa che vi traspariva, essendo il suo spirito pieno di grazia e di fortezza.

La prodigiosa condotta di Don Bosco in mezzo a tante traversie non aveva altra origine. Lo sanno i Santuari suburbani della Vergine, dov'egli guidava in pellegrinaggio le nomadi schiere a impetrare con la preghiera e i sacramenti le benedizioni celesti; lo sa il Santuario della Consolata, la cui taumaturga immagine ascoltò le tante volte lui e i suoi figli, irradiandolo di superni incoraggiamenti; lo sapevano il teologo Borel e altri degni ecclesiastici, testimoni del religioso fervore trasfuso dallo zelante apostolo nelle mobili anime giovanili; lo seppero anche certi giovinetti più inclini a pietà e perciò da lui tratti in disparte e uniti più strettamente a sé nella preghiera e guidati per la via di una maggiore perfezione.  

Sono fatti che bisogna rievocare, se si vogliono intendere a pieno queste parole delle sue "Memorie": «Era meraviglia il modo, col quale si lasciava comandare una moltitudine poco prima a me sconosciuta, della quale in gran parte poteva dirsi con verità che era sicut equus et mulus, quibus non est intelectus.

Devesi aggiungere che in mezzo a quella grande ignoranza ammirai sempre un gran rispetto per le cose di Chiesa, pei sacri ministri, ed un gran trasporto per imparare i dogmi e i precetti della religione». Per cavallini matti e per muletti bizzarri non c'era male davvero! Ma il domatore o dominatore loro possedeva per tutti in copia quel dono dell'intelletto, che prima ad essi mancava e che poi in essi veniva penetrando. Ora ci spieghiamo più facilmente come il beato Cafasso ribattendo le recriminazioni che si portavano dinanzi a lui contro Don Bosco, finisse invariabilmente col ritornello: - Lasciatelo fare! Lasciatelo fare!

Ma la domenica era un giorno solo della settimana; e gli altri sei? Non si creda che il vero Oratorio festivo importi occupazioni soltanto domenicali; l'Oratorio, quale Don Bosco l'ha concepito, è sede di un'autorità paterna, che, cattivandosi l'animo dei fanciulli, dappertutto li segue e direttamente interviene presso parenti, padroni, maestri, dovunque sia possibile esercitare un salutevole influsso sulla loro condotta. Poi per Don Bosco c'erano istituti religiosi, collegi, scuole pubbliche e private, carceri, ospedali, scuole serali, prediche, studi, pubblicazioni, oltre il Rifugio: un campo di lavoro quotidiano che non aveva confini.

Tanta attività lo metteva naturalmente in rapporto con ogni ceto di persone, molte delle quali, bisognose dell'opera sua o della sua parola, gli davano quasi la caccia, dov'egli si recava a celebrare il divin sacrificio. Prova ne sia anche un proponimento scritto da lui appunto nel 45; lo riferiamo qui, non per usurparne il compito ai biografi, ma perché giova al nostro scopo. Dice: «Siccome giunto in sacrestia per lo più mi si fanno tosto richieste di parlare per aver consiglio o di ascoltare in confessione, così prima d'uscire di camera procurerò che sia fatta una breve preparazione alla santa messa».

Notizia preziosa e significativa, la quale, mentre con quel «breve» esclude qualsiasi scrupolo di coscienza, col resto ci rivela come Don Bosco, anziché rifugiarsi dietro il comodo paravento del lasciar il Signore per il Signore, piamente anticipare la debita preparazione.

Appartengono pure a questo tempo certi cartoncini, usati da lui per quarant'anni come segnacoli del breviario, autografi parlanti dei pensieri che voleva a sé familiari. Undici sentenze bibliche gli richiamavano alla mente la Provvidenza divina, la fiducia in Dio, la fuga delle occasioni, il distacco dai beni della terra, l'allegrezza della buona coscienza, la liberalità del Signore coi generosi, il riflettere prima di parlare, il divin tribunale, l'amore dei poveri, l'onore dovuto ai superiori, l'oblio delle offese.

Cinque massime patristiche gli ricordavano il frequente esame della coscienza, l'adesione umile e intera agl'insegnamenti della Chiesa, la gelosa custodia dei segreti, l'efficacia del buon esempio, lo zelo per le anime altrui e per la propria. Tre citazioni dantesche, tratte dalla fine delle singole cantiche, lo sollevavano alle «stelle», ossia alla considerazione del paradiso. Venivano ultimi quattro versi di Silvio Pellico, meritevoli di essere riferiti, non perché siano peregrini, ma perché ci sembra che stessero li ad ammonire, quale politica dovesse avere per sua l'uomo di Dio in un periodo di si roventi passioni pubbliche: la politica cioè dell'Italia una nella fede, speranza e carità:

Ad ogni alta virt√π l'Italo creda, Ogni grazia da Dio lo Stato speri, E credendo e sperando ami e proceda Alla conquista degli eterni veri.

Il Pellico e Don Bosco si conoscevano molto bene. Per Don Bosco il poeta aveva composta la notissima lode che comincia: Angioletto del mio Dio, nutriva per lui sincera stima. Essendo segretario della Marchesa di Barolo, gli toccò certamente di minutare la lettera, con cui la nobile signora comunicava al rettore del Rifugio le sue decisioni sul conto di Don Bosco, ripetendo in termini diplomatici il brusco aut aut à intimato a lui stesso senza mezzi termini oralmente: o lasciare l'Oratorio o lasciare il Rifugio.

La lunga lettera, recante la firma dell'aristocratica gentildonna, ma redatta nell'amabile stile del segretario, ci è carissima per via di questo periodetto, che ne costituisce il punto più luminoso: « [Don Bosco] piacque anche a me dal primo momento e gli trovai quell'aria di raccoglimento e di semplicità propria delle anime sante». Lo scrittore vestì di forma eletta l'altrui giudizio, che rispondeva sicuramente anche al suo.

Eugenio Ceria

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