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C'è bisogno di occhi nuovi per guardare il mondo

“Pretendere” e “tendere”. Due verbi, due diversi atteggiamenti di fronte alla realtà. Sono azioni entrambe; entrambe prevedono soggetti attivi, non passivi di fronte alla vita. La pretesa è strada senza sbocchi, vicolo cieco come la rabbia che è esplosa. Sarà prigione. “Tendere” è un'altra cosa.


C’è bisogno di occhi nuovi per guardare il mondo

da Quaderni Cannibali

del 23 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

          “Pretendere” e “tendere”. Per capire il primo verbo non serve andare lontani nel tempo o nello spazio. Ciascuno trova esempi in se stesso, nella sua storia, o nelle persone che conosce. Un esempio, chiarissimo, l’attentatore di Brindisi. Un nome, un cognome, una data di nascita, un volto, una mente che pensa, architetta, organizza, predispone, dispone. Una mano che aziona il dispositivo, occhi che, sadici, guardano la scena…

          Non è un’entità astratta, costui. E’ un uomo. Lo ha ripreso una telecamera. Gli inquirenti lo definiscono, ora, “uno che forse si sente ‘vittima’. Arrabbiato col mondo intero, in guerra col mondo intero”, ma, nelle indagini, dicono che non trascureranno nessuna pista; che nessuna ipotesi verrà esclusa.

          La rabbia cova nel cuore. Scoppi tu o scoppia lei, come una bomba. E fa strage, perché lascerà segni indelebili nei corpi e nella memoria.

          Chissà che rabbia è quella che ti fa pensare alla vita, al mondo, agli altri come nemici “a prescindere”. Chi lo sa. In ogni caso, tu sei tu, hai le tue ragioni, hai ragione, ed è il mondo che deve piegarsi. Pretendi (“che cosa” lo sai solo tu. Ce lo racconterai, forse, il giorno in cui ti costituirai? Il giorno in cui ti staneranno?). La pretesa, quando i pugni battuti su un tavolo non bastano più, le lamentele non bastano più, i comizi non bastano più, i cortei indignati non bastano più, le vetrine sfasciate non bastano più, può arrivare a colpire gli esseri umani, i più deboli. Pretendo di farmi sentire. Pretendo, invisibile, visibilità. Se è mitomaniaca fa lo stesso.

          E intanto la pretesa distrugge: l’opinione dell’altro, le cose, le persone, se occorre. Il loro futuro… La pretesa però diventa boomerang, lo è già diventata. Dopo la mano che aziona il dispositivo, dopo quegli occhi che guardano i corpi che bruciano, resta solo la fuga. E la fuga è sconfitta, sempre.

          La pretesa è strada senza sbocchi, vicolo cieco come la rabbia che è esplosa. Sarà prigione.“Tendere” è un’altra cosa.

          Sabina, quindici anni, malata di fibrosi cistica, lo racconta. La sua vita, tutta, è tesa come un arco. Sabina tende al massimo, sempre. Non è disposta ad accettare niente che non sia per un “di più”. Anche quando tocca fare i conti con il dolore. Anche quando per un po’ non è a casa, o a scuola, o con gli amici, ma in un reparto di ospedale. La tensione non risparmia la fatica: “è” fatica. Ma tendere è dirigersi, essere rivolti ad una meta; è fare di tutto per raggiungerla. Tendere è gesto di forza che dona forza, come le vele: le gonfia il vento e allora la barca, leggera, va da sé. Sabina non si sente vittima. Ha imparato e ci insegna che la vita non è una nemica. Alla vita bisogna tendere la mano, e cioè accoglierla. Sabina non pretende, tende. E’ in pace con sé, con la vita, con gli altri, con il mondo. E’… libera.

“A volte, più che di un mondo nuovo, c’è bisogno di occhi nuovi per guardare il mondo”

          Spesso le persone pensano che l’ospedale non sia un bel posto, ma si sbagliano: basta guardarlo con occhi diversi.

          Conosco una persona che è malata e ha bisogno ogni tanto di ricoverarsi per qualche settimana. A volte le chiedo come fa a non odiare quel posto che gli altri detestano. Lei mi risponde sempre che, non esistesse quel luogo, lei non sarebbe viva, e che in fin dei conti non è per niente male: basta vederne il lato positivo. Dice che vale per l’ospedale, come per qualsiasi altra cosa ci accada nella vita.

          Lei sa che a noi, che non siamo ‘‘ frequentatori abituali’’, l’ospedale può fare paura. Secondo lei invece dovremmo soffermarci tutti a riflettere un po’ su quello che in realtà è un reparto di ospedale, specie quando è pensato per persone che vi si recano per periodi a volte anche piuttosto lunghi.

          Poco tempo fa le ho chiesto di raccontarmi com’è l’ ospedale dal suo punto di vista ed ecco cosa mi ha detto: “Per me l’ospedale è una seconda casa. Ogni volta che vado lì per un ricovero tutto è famigliare e tutti mi conoscono, infatti mi chiamano ‘‘ Principessa’’. So che quando uscirò sarò più forte e starò meglio e perciò cerco di farmi coraggio. La mancanza della famiglia, degli amici e di tutte le persone care è forte, ma la presenza dei dottori, delle infermiere, della fisioterapista e della psicologa mi è fondamentale per andare avanti, perché senza di loro, senza la loro premurosa compagnia sarei persa. Mi aiutano ad affrontare ogni momento al meglio standomi vicini, e, nelle giornate in cui sono triste, riescono sempre ad inventarsi qualcosa per strapparmi un sorriso.

          Le persone con cui sono più legata sono sicuramente la mia fisioterapista Roberta, il dottor Poli e la psicologa Sara. Fin da piccola mi hanno sostenuto e incoraggiato, non solo per quanto riguarda la malattia, ma anche nella vita di ogni giorno. Con loro posso parlare di tutto, soprattutto con Roberta. Il nostro è un rapporto così speciale che è diventata come una madre per me: so che con lei posso confidarmi e che con il suo aiuto posso dare risposta ad ogni mia preoccupazione. Il dottor. Poli è stupendo: è la persona più gentile, professionale e brava che conosco. Mi fa morire dal ridere e quando faccio la spirometria e vede che non è andata bene, mi dice sempre: ‘‘Guarda che ti tiro lo zoccolo, eh!'. Me lo dice perché sa che posso fare meglio; io così mi concentro, mi impegno più che posso ed è vero che dopo faccio meglio! Ogni volta che sono ricoverata mi viene a trovare e perfino la domenica riesce sempre a fare un salto da me, anche solo per salutarmi e per vedere come sto.

          Con Sara è da poco che ci conosciamo, ma subito si è creato un legame forte: quando parlo con lei mi sento bene, cosa che non mi succede spesso. Riesce sempre a farmi vedere il lato positivo delle cose e a chiarirmi le idee, aiutandomi a maturare, giorno dopo giorno.Non so proprio cosa farei senza loro!

          A parte loro, ci sono tutti gli altri medici che ho conosciuto nei ricoveri precedenti e che per vari motivi sono andati via o lavorano in vari reparti e non ci sono spesso. Li ricordo ad uno ad uno. Poi ci sono le infermiere e l’infermiere; ogni volta che sto per andare a mettere l’ago per la flebo diventano gialli peggio di me, perché sanno che trovarmi le vene sarà un’impresa titanica perché ormai sono tutte “usate” e così pregano Dio di non farmi tanti buchi per niente.

          Ecco, quello della puntura è il momento che odio maggiormente, perché è come un incubo che si avvera: odio venire bucata per niente e fa pure male e poi mi dispiace anche per le infermiere che perdono tempo con me inutilmente. Loro mi dicono sempre che non devo scusarmi perché non mi “vanno” le vene, perché non è colpa mia, ma io… sono fatta così: chiedo sempre scusa...

          Oltre alle persone, in ospedale ci sono quattro cose che adoro: c’è una sala giochi grandissima, con dei volontari che ogni giorno vengono a fare compagnia ai ricoverati. In questa sala c’è di tutto: la tv, il calcetto, un’infinità di libri, la Nintendo wii, la Playstation 3, altri giochi di questo genere e tante altre cose, quindi il tempo passa velocemente. In secondo luogo, ogni volta che devo entrare per un ricovero, ho sempre la mia stanza privata, in cui c’è pure la tv. Lì posso stare in pace tutto il giorno. C’è poi un menù che mi permette di ordinare quello che voglio, ed il cibo non è niente male. Insomma: i reparti non sono una “prigione”, perché, a parte quando faccio le terapie, posso uscire quando voglio e andare dove voglio!          Ogni volta conosco gente nuova, con cui posso confrontarmi e con la quale trascorro molto tempo e mi diverto; spesso, le amicizie nate dentro, continuano anche fuori dall’ospedale.Spero si sia capito che non è poi così male andare in ospedale e vorrei che la gente capisse questo e capisse anche cosa c’è dietro tutto questo: che tipo di persone fantastiche ci sono al mondo e quanto la loro presenza e il modo di stare accanto ai degenti possono influenzare in positivo la vita di qualcuno, perché vivere con una malattia non è facile, ma un posto che per gli altri è orrendo per me è… meraviglioso, perché mi fa vivere. Quando guardo le cose da lì, capisco di più il mondo dentro e fuori l’ospedale, ed ogni volta che esco mi ritrovo con il cuore più grande e voglio più bene alla vita”.

Saro Luisella

http://www.culturacattolica.it

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