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Voi avvertite immediatamente che, sia il riferimento all'insieme della comunità come luogo della varietà dei doni dello Spirito, sia il richiamo all'autorità come strumento privilegiato dello Spirito perché il popolo di Dio cammini sui sentieri di Dio, fanno emergere i rischi di continui sbilanciamenti da una parte o dall'altra.


AFFINCHÉ POSSIATE DISCERNERE: QUAL È LA VOLONTÀ DI DIOLa strada del discernimento

da Teologo Borèl

del 27 ottobre 2006

La precedente meditazione ci ha portato a concludere che tutta la nostra esistenza apostolica è buona ed è valida nella misura in cui diventa risposta a domande fondamentali come quelle evocate rileggendo l’esperienza della conversione e della vocazione di Paolo. Stando così le cose, è utile, soprattutto nel quadro di un corso di Esercizi, dilatare un poco la nostra riflessione e considerare, in maniera più diretta, il problema dei criteri essenziali ai quali ispirarci per individuare le scelte più importanti che dobbiamo compiere a livello personale e pastorale: come scoprire la volontà di Dio sulla nostra vita? Come individuare un cammino del quale possiamo dire, con qualche sicurezza, che è quello voluto da Dio per noi? È possibile indicare delle regole fondamentali di discernimento spirituale per la scoperta e la fedeltà alla nostra vocazione apostolica e per le opzioni quotidiane su questo o quell’aspetto particolare della nostra missione?

Per rispondere a questa domanda possiamo trovare un valido aiuto in Paolo stesso che, in diverse lettere, tocca esplicitamente la questione del discernimento spirituale.

Un primo testo si trova nella lettera ai Romani: «Vi esorto fratelli per la misericordia di Dio ad offrire i vostri corpi quale sacrificio vivo, santo, gradito a Dio, come vostro culto spirituale. E non vogliate conformarvi a questo mondo, ma trasformatevi col rinnovare la vostra mente affinché possiate discernere qual è la volontà di Dio, ciò che è bene, ciò che gli è gradito, ciò che è perfetto» (Rm 12,1-2). In questa pagina si parla dunque dell’ubbidienza come sacrificio gradito a Dio e si fa riferimento al discernimento da operare attraverso una trasformazione e un rinnovamento della nostra mente.

Per meglio comprendere il pensiero di Paolo potremmo aiutarci con almeno altri due testi che troviamo nella prima lettera ai Tessalonicesi e nella prima ai Corinti.

Ai Tessalonicesi raccomanda: «Non estinguete lo Spirito, non disprezzate le profezie, esaminate tutto e ritenete ciò che è buono» (1 Ts 6,19-21). Si tratta di un invito esplicito a compiere un’analisi che porti a un giudizio.

Scrivendo ai Corinti egli parla della diversità dei carismi che vengono dati dal medesimo Spirito; si riferisce anche alla diversità dei ministeri che si radicano nell’unico Signore, venuto non per essere servito ma per servire; e accenna, infine, alle diversità di operazioni che si riconducono all’unico Dio operante tutto in tutti. In questa meditazione vorrei, in modo particolare, sottolineare che, tra le manifestazioni dello Spirito, «ad uno viene dato il discernimento degli spiriti» (1 Cor 12, 10). Come si vede, si tratta di un dono dello Spirito effuso su alcune persone, talvolta anche in misura straordinaria, in favore del Corpo di Cristo che è la Chiesa.

 

Se questi testi esprimono un insegnamento di Paolo, altri illustrano la storia di Paolo. Ne ricordo almeno due.

Il primo è At 22, 10, testo già citato all’interno di uno dei racconti della sua conversione, quando alla domanda posta da Paolo: «Che cosa devo fare, Signore?», il Signore risponde: «Alzati, va’ a Damasco e li ti sarà detto quello che dovrai fare». E a Damasco abitava un certo Anania, uomo pio secondo la legge, di cui tutti i Giudei della città rendevano buona testimonianza. A lui Paolo si presenta.

Come si vede, nella storia di Paolo, il discernimento che dai suoi molteplici doni. Le prime due comprendono un’accentuazione «antropologica», le due seguenti un riferimento «teologico-spirituale» e le ultime due presentano una fisionomia «ecclesiale».

 

1. L’«intima verità di sé»

 

La prima regola consiste nel chiamare in causa se stessi, con piena responsabilità. Se vogliamo vivere in stato di discernimento dobbiamo aprirci all’impegno pieno, onesto di quanto di meglio può nascondersi dentro il nostro cuore, impegnando cioè la nostra coscienza di uomini in termini di verità, di giustizia, di coraggio. Incomincia un discernimento dal momento in cui ci responsabilizziamo di fronte alla vita, alla storia, agli altri, a noi stessi, e puntiamo a fare emergere quanto di meglio vi è in noi.

A questo riguardo noi ci incontriamo o ci scontriamo abbastanza spesso con un dato problematico, che va tenuto in conto perché, se non viene affrontato correttamente, il discernimento viene sostanzialmente compromesso. Voglio dire: occorre talvolta constatare che si può sfuggire per anni, magari per una vita, al compito di guardare in faccia se stessi, la fisionomia della propria vita, le esigenze reali della propria condizione. È come se si vivesse contemporaneamente in due mondi, secondo due logiche, attuando (o pretendendo illusoriamente di attuare) due promesse tra loro inconciliabili.

Questo è uno dei fenomeni più impressionanti da me incontrato nel lavoro educativo: una persona, per anni, può sfuggire all’invito di guardare in faccia la realtà, di impegnare la propria coscienza, di chiamare, con coraggio e semplicità, le cose col loro nome.

Mi sono chiesto quale spiegazione dare di un fatto di questo genere. Le spiegazioni sono molte.

Anzitutto (ed evidentemente) il peccato originale, che è soprattutto orgoglio, per cui tutti siamo esposti a questo rischio. A ciò si aggiungono altri motivi.

Talvolta, per esempio, la spiegazione potrebbe essere una grave immaturità personale. Qualche altra volta, eccezionalmente, potrebbe essere addirittura uno squilibrio psicologico che rende impossibile all’interessato considerare la propria situazione con obiettività. Qualche volta il motivo è una specie di scelta di furbizia che si accompagna alla persuasione che tutto è un gioco di forme, è un gioco delle parti, che tutto è falso, o comunque che tutto è sostenibile e che quanto in noi vi è di buono non viene compromesso per il fatto che siano presenti, nella nostra condotta, elementi di ambiguità o contraddizioni anche gravi. In conclusione, quando si è guidati da una simile logica, si affronta la vita nell’ambiguità, quasi giocando. E il risultato è che non si fa la verità.

Si può aggiungere che vi sono, talvolta, dei coadiuvanti alla rimozione della verità. Per esempio, uno stile di superficialità che permea il quotidiano; l’attivismo, cioè il buttarsi freneticamente, quasi sotto l’effetto di una droga, nelle attività; il portare avanti una specie di «progetto alternativo» a quello della vocazione o del ministero.

Oppure ancora, il cullarsi in tante compensazioni, per cui mentre si dice di vivere «a causa di», si vive «a causa di altro» e questo «altro» finisce per essere, di fatto, ciò che più conta; e così si procede nella menzogna.

Ora, se vogliamo fare discernimento, tenendo conto di tutto quanto sta sotto la superficie della nostra vita, la prima regola ci chiede una scelta che, con uno stile di autenticità, metta a nudo ciò che veramente vogliamo, ciò che veramente pensiamo, ciò che veramente ci sta a cuore. Chiede quindi sincerità, che, se non è ancora verità, è però desiderio di verità. E chiede obiettività: garanzia di una conoscenza realistica delle situazioni che dovremo affrontare in rapporto alle nostre responsabilità.

Questa prima notazione può parere non propriamente religiosa. E, in effetti, non lo è. Tuttavia, Paolo stesso sembra suggerirla come fondamentale: «Tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile..., questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4, 6). E i giorni degli Esercizi Spirituali possono essere particolarmente idonei a far conoscere e riconoscere l’intima verità di sé.

 

2. Lo «status quaestionis»

 

L’ultima osservazione introduce le altre regole, e in particolare la seconda, che può essere enunciata così: occorre una lucida e pensosa osservazione di quelli che siamo stati abituati a chiamare i «segni dei tempi». In altre parole, il discernimento evangelico personale (sulla propria persona e quella degli altri) e pastorale domanda di passare normalmente attraverso un lavoro molto umile, talvolta anche faticoso e lento di analisi e di ricerca; consiste nel considerare i tanti elementi della storia di coloro che noi incontriamo, del tempo nel quale viviamo, della cultura con la quale ci confrontiamo, delle condizioni ecclesiali e socio-politiche che caratterizzano il presente.

In vista di un discernimento spirituale, questo lavoro non deve essere dimenticato e va compiuto usando gli strumenti più appropriati, nel rispetto della relativa autonomia dei vari ambiti della ricerca umana (filosofia, scienza, storia, politica, cultura in generale, ecc.). Con questo non si vuole dire che i più grandi esperti di discernimento siano i sociologi; si vuole dire piuttosto che, quando, per esempio, ci raduniamo come presbiterio, non potremo accontentarci di qualche battuta o di procedere sull’onda dell’emotività.

Un serio discernimento chiede anche a noi di sviluppare un discorso, di dare spazio ad un’analisi, di compiere un vero ragionamento pastorale. Lo esige non soltanto il fatto che siamo gente adulta e responsabile, ma anche un’esigenza squisitamente spirituale: non essere dei ciechi che guidano degli altri ciechi.

Se questo è il criterio, dobbiamo confessare che, a volte, è impressionante la superficialità del nostro approccio ai problemi teologici, etici e pastorali. Esprimendomi in questo modo non vorrei assolutamente dare l’impressione di pensare che, per fare bene il nostro cammino e per favorire quello della Chiesa, dovremmo tutti diventare degli esperti. Non è questo il problema, e sarebbe anzi pericoloso mettersi su questa pista, pretendendo di dedurre un discernimento spirituale da queste analisi di vario genere. Intendo semplicemente dire che è sempre doveroso e positivo considerare con serietà, i problemi, i progetti, i programmi.

La costituzione pastorale Gaudium et spes, del Concilio Vaticano II, non è forse un esempio, a questo riguardo?

 

3. La preghiera

 

Quanto detto fin qui è importante. Ciononostante bisogna dire che ci troviamo soltanto sulla soglia del discernimento spirituale cristiano, e soprattutto di quello che Paolo chiama «dono» del discernimento.

Procediamo, dunque.

Il terzo criterio a cui voglio fare riferimento è la preghiera. Essa è anche di più che non una regola di discernimento; meglio sarebbe dire che essa è luogo e fattore di discernimento. Motivo: la preghiera cristiana è una esperienza che ha come protagonista lo Spirito e perciò è luogo della grazia; anzi, di quella grazia per la quale i segreti di Dio divengono - appunto per un dono gratuito di Dio e non in maniera puramente naturale - i nostri segreti. E una delle «forme» della preghiera cristiana è quella che si compie per cogliere e attuare la volontà di Dio.

Come scrive Paolo ai Romani: «Lo Spirito viene in soccorso della nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Rm 8,26-27).

In termini pratici, fare preghiera in vista di un discernimento, vuol dire lasciarsi condurre, nel colloquio col Signore, a intraprendere una certa strada di comportamento, a dire certe parole e non altre, a usare un certo tono, a scegliere un determinato momento per incontrare l’altro e parlargli, ecc.

Questa considerazione di ciò che significa pregare potrebbe portarci a capire che alcuni gesti, pur molto modesti, manifestano in modo significativo la nostra concezione del cammino ecclesiale. Per esempio, è significativa la «preghiera per il discernimento» che viene compiuta quando ci si ritrova per approfondire un problema pastorale; o la preghiera che precede l’incontro del Sacerdote con la Comunità o con qualche gruppo per l’omilia, per la catechesi, ecc. in vista di ottenere che il Signore ci ispiri le parole giuste e ci indichi il giusto sentiero per entrare nei cuori. E ancora, è significativa la preghiera che accompagna il colloquio con una singola persona e che diventa non solo preghiera «per» questa persona, ma «su» questa persona e su quanto sarà oggetto dell’incontro. Come diceva Aelredo di Rievaulx nel suo trattato L’amicizia spirituale, il padre spirituale si rivolge a colui che chiede di essere guidato dicendo: «Eccoci qui tu ed io; e tra noi, terzo, Cristo».

Ricordo di aver fatto, un giorno, una proposta di destinazione pastorale a un prete giovane, di avergliela spiegata e poi di avergli suggerito di rifletterci. Egli è tornato da me dopo alcuni giorni dicendomi di avere riflettuto e di essersi, tra l’altro, appartato per un giorno a pregare. Ecco: mi sembra che quel Sacerdote ha tentato di compiere, anche in quel modo, un discernimento cristiano.

Il Concilio Vaticano II, e cioè un’assise pastorale che voleva leggere i «segni dei tempi» di questo secolo ventesimo, ha approvato come primo documento (e poteva anche non essere così), quello sulla Liturgia. Il Papa Giovanni XXIII ne era felice. Gli sembrava che si dovesse partire dalla preghiera per affrontare, secondo Dio, il nostro tempo.

 

4. La Parola di Dio

 

La quarta regola si connette strettamente con la terza e, insieme con quella, viene da noi sperimentata in questi giorni di Esercizi Spirituali: essa ci chiede di vivere intensamente l’ascolto della Parola di Dio.

Quando viene ordinato un Vescovo, a un certo punto della celebrazione viene collocato sul suo capo il libro dei Vangeli. Non è difficile cogliere l’eloquenza di questo gesto liturgico. Esso dice infatti che il Vescovo dev’essere veramente sottomesso, non materialmente ma spiritualmente, alla Parola di Dio e misurarsi con essa.

Ebbene, noi tutti - Vescovi e Sacerdoti - ci mettiamo in stato di discernimento se possiamo dire, oggi, di volere affrontare la giornata, gli avvenimenti, gli incontri, rimanendo sottomessi alla Parola di Dio; e se potremo dire, domani, rileggendo l’oggi: «Sì, mi sono veramente posto in ascolto della Parola di Dio, mi son lasciato scuotere da essa, mi son lasciato interrogare, ho lasciato che la Parola di Dio fosse lampada sui miei passi».

Quando possiamo dire di fare, per quanto possibile, tutto quanto fin qui ho indicato nel rapporto con la Parola di Dio, non si avrà, come risultato, quello di avere la risposta (o meglio, dovremmo dire, la rispostina) a tutte le nostre domande. La Parola di Dio non è un’enciclopedia o un computer con risposte pronte per tutto. Il processo dell’ascolto di Dio è un altro. Certo, non raramente la Parola di Dio ci offrirà risposte nette e forti senza alcuna possibilità di dubbio.

Ma il cammino al quale siamo chiamati è un altro: quello che realizza, tra noi e la Parola di Dio una certa «connaturalità»; una sintonia profonda con Dio, con il suo pensiero, con la sua azione. Proprio come avveniva ai primi cristiani che interpretavano il loro presente sulle parole della Scrittura (A.T.), sulla testimonianza dei padri nella fede, sulle parole e gli avvenimenti della vita di Gesù.

Il Concilio Vaticano II, tra i suoi documenti fondamentali, ha la costituzione Dei Verbum. Essa chiede esplicitamente che il cammino storico delle persone e delle Comunità sia illuminato e nutrito dalla Parola di Dio. Qualche voce autorevole dice, però, che la Dei Verbum è ancora da estrarre dagli scaffali della libreria (anzitutto di ogni Sacerdote) per diventare «statuto» della vita personale e pastorale.

 

5. I fratelli nella fede

 

Oltre alla preghiera e all’ascolto della Parola, richiamo altre due regole, tra loro strettamente connesse, e che nel loro insieme compaginano grandi capitoli sul discernimento cristiano, a livello di criteri generali o di regole fondamentali.

La quinta regola dice che dobbiamo camminare riconoscendo che la Chiesa tutta intera è luogo della presenza e della effusione dei doni dello Spirito Santo e della varietà dei suoi doni. Ciò significa che nella Chiesa di Dio si fa discernimento tanto più quanto più i fratelli aiutano il fratello, quanto più ogni fratello guarda agli altri come a strumento del quale Dio può servirsi per farci comprendere la sua volontà.

Questo sarà, per esempio, lo sguardo del Vescovo sui suoi Sacerdoti e su tutti i fedeli; questo sarà lo sguardo dei Sacerdoti, anch’essi chiamati ad avere gli occhi aperti sui doni che lo Spirito dissemina dove vuole nelle loro comunità; e questo sarà lo sguardo dei laici sui loro fratelli cristiani e su ogni uomo attraverso il quale Dio ci interpella e ci istruisce.

Il Concilio Vaticano II ha spinto i Vescovi a dare evidenza proprio a quanto sto dicendo (cfr costituzione dogmatica Lumen Gentium). Ma il Concilio Vaticano II, su questo punto come su altri che ho ricordato poco fa, è «davanti» a noi, non alle nostre spalle. Vogliamo recepirlo? Vogliamo assimilare, in particolare, i primi due capitoli della Lumen Gentium?

 

6. L’autorità ecclesiale

 

Ultima regola (e non per questo poco importante): ricercare il discernimento all’interno della comunità cristiana comporta non solo di accettare, ma anche di desiderare e di volere l’apporto di coloro che, nella Chiesa, hanno la responsabilità pastorale di condurre il popolo di Dio.

Per i cristiani il fare riferimento all’autorità nella Chiesa significa - o meglio, dovrebbe significare - qualcosa di diverso dal modo di guardare all’autorità nella società politica. Per essi l’autorità ecclesiale è un dono particolare e rilevante di Dio perché possano scoprire più facilmente e più sicuramente la volontà di Dio circa le loro responsabilità e le scelte che li attendono.

In particolare, il Papa è un fratello che ci è dato perché questa ricerca sia più certa e profonda. E, quanto si dice del Papa, va detto di tutte le figure di autorità esistenti nella Chiesa. Tale è anzitutto il Vescovo e tale è pure il Sacerdote per la sua comunità.

A proposito dei Sacerdoti, è forse opportuno dire che non devono vergognarsi di pensare a se stessi come a un importante riferimento per le comunità. Facendolo, riconoscono semplicemente il compito loro affidato da Dio. Né debbono vergognarsi di dirlo e di aiutare i fedeli a scoprire che questo è il loro ministero, non casualmente detto «pastorale».

Voi avvertite immediatamente che, sia il riferimento all’insieme della comunità come luogo della varietà dei doni dello Spirito (cfr capitoletto precedente), sia il richiamo all’autorità come strumento privilegiato dello Spirito perché il popolo di Dio cammini sui sentieri di Dio, fanno emergere i rischi di continui sbilanciamenti da una parte o dall’altra. E infatti molti di noi conoscono per esperienza personale situazioni o stagioni ecclesiali nelle quali si tende a ignorare l’apporto spirituale ed evangelico offerto dalla comunità dei fratelli, così come conoscono tempi (oggi?) nei quali, al contrario, si tende a cancellare, magari polemicamente, l’apporto dell’autorità al cammino ecclesiale.

Dovremmo tentare di rispettare tutta la verità delle cose (o meglio del mistero della Chiesa), e perciò valorizzare nei debiti modi i fattori indicati, ciascuno al suo livello e secondo le sue modalità.

 

L’ubbidienza «della» Chiesa

Soprattutto dalle due ultime regole dovrebbe apparire chiara una verità: le varie piste di discernimento cristiano che riguardano la Chiesa non conducono semplicemente ciascuno di noi a ubbidire alla Chiesa; piuttosto si dovrebbe dire che esse illuminano l’ubbidienza «della» Chiesa.

Certo, v’è spazio per l’ubbidienza alla Chiesa (e sarebbe del tutto irrealistico ignorarlo), ma la Chiesa stessa, tutta intera la Chiesa - dal Papa all’ultimo dei fedeli - è realtà chiamata a ubbidire al Signore e alla sua volontà, sempre.

E l’autorità, nella Chiesa, è chiamata ad essere «missionaria» della ubbidienza nel senso che non soltanto anch’essa ubbidisce, ma «sta davanti», precedendo la comunità nell’ubbidienza al Signore (cfr A. HAYEN, L’obéissance dans l’Eglise aujourd’hui, pp. 92 ss.).

A questo mira tutto il processo finora descritto di discernimento spirituale e, mentre esso passa attraverso le diverse modalità indicate, tende a condurre precisamente e unicamente ad aderire alla volontà del Signore. In definitiva, è soltanto al

Signore che si ubbidisce; anche se questa ubbidienza al Signore si attua al di dentro di una vicenda concretissima e storica che chiede, inevitabilmente, di fare i conti con mille realtà e prende, in particolare, il volto di obbedienza «alla» Chiesa.

 

 

Preghiera

O Signore,

tu puoi certamente dire a noi, oggi:

¬´Le mie vie non sono le vostre vie;

i miei pensieri non sono i vostri pensieri.

Quanto dista la terra dal cielo,

tanto dista il vostro cammino

dal mio cammino» (cfr Is 55, 8-9).

Per questo ci rivolgiamo a te

e, con san Paolo, ti diciamo:

Che cosa vuoi che io faccia? Dove vuoi che io vada?

Quali parole vuoi che io dica?

Quali scelte vuoi che io metta in atto?

Trasforma e rinnova la nostra mente,

o Signore;

aiutaci ad esaminare tutto

e a ritenere ciò che è buono; arricchisci anche noi

con il dono del discernimento degli spiriti,

fa’ che, per non sciupare

il dono presente in noi e negli altri,

sperimentiamo le attenzioni che,

almeno in certa misura,

ne favoriscono la fioritura e i frutti.

Maria, Madre del buon consiglio, prega per noi!

 

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