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A 25 anni dalla scomparsa di don Zeno Santini. Zeno racconta Zeno.

Obbedientissimo ribelle, truffatore per il ministro degli Interni, eretico per il nunzio, babbo per 4.000 figli. La voce di don Zeno è stata una voce profetica che continua a scuoterci, tirandoci fuori da quegli schemi abituali in cui preferiamo spesso rinchiuderci. Con stile originale, Fausto Marinetti, per 10 anni suo aiutante confidente, ce ne ripropone la figura, lasciando che sia lo stesso don Zeno a parlare.(1)


A 25 anni dalla scomparsa di don Zeno Santini. Zeno racconta Zeno.

da Teologo Borèl

del 22 aprile 2006

Dieci anni al tuo fianco: 1969-79. Mi parli sempre di nuova civiltà, popolo nuovo, giustizia. Ti esalti di aver rifiutato la scuola, di essere stato in seminario un anno. «I teologi pretendono spiegare Dio. Lo mettono al microscopio, lo rimpiccioliscono tanto che non lo vedono più. Sapere è vedere la verità, vivendola. Io sono come i bambini, i quali, più che ragionare, vedono. L’uomo animale vede con gli occhi, l’uomo di Dio vede con lo Spirito. Non si possiede la verità se non la si vive».

 

Chi ti vuol capire deve mettersi nella tua pelle, perché «chi partecipa comprende, chi non partecipa non comprende. Anche la proposta di Cristo, se l’accetti solo con la testa non ci capisci niente. La rivoluzione di Nomadelfia è entrare nel giusto rapporto tra l’uomo e le cose, tra l’uomo e gli altri uomini, tra gli uomini e Dio. Dall’uomo si va a Dio e da Dio si va all’uomo. Mio fratello don Vincenzo mi chiede: “Hai avuto delle visioni, delle ispirazioni per fare quello che fai?». «No. Ho imparato in campagna: a chi semina patate, nascono patate, a chi semina fagioli, nascono fagioli, a chi semina amore, nasce amore. Se pianto Vangelo, nasce Vangelo».

 

 

LA FORZA DEL LIEVITO EVANGELICO

 

Negli anni ’50 pretendi svuotare gli orfanotrofi, liberare i carcerati, fare la politica di Dio. Sono gli abbandonati a farti sentire la nausea dell’assistenza, la passione per il cambiamento di rotta. Tra disuguali ci si aiuta, tra fratelli alla pari si condivide. Dimostrerai che il lievito evangelico trasforma famiglia, lavoro, società; che la fede ci è data solo per fare cose impossibili: superare i vincoli del sangue, fraternizzare le famiglie, produrre i beni in comune, creare una nuova società.

 

Perché perdere tempo a buttare giù i ruderi? Meglio costruire un’alternativa. Durante il servizio militare a Empoli l’Arno ti dà una lezione. «Risaliamo la valle inondata: 250 reclute agli ordini d’un ingegnere. La gente sui tetti chiede soccorso. Arrivati all’argine sfondato tutto si fa chiaro: la vera sapienza è andare all’origine, alla causa del male. C’è chi ha la vocazione del buon samaritano e chi quella di piantare il seme in una società senza più vittime».

 

Fin da bambino noto le differenze sociali. La mia famiglia benestante, mi ripugna essere diverso. Vivo tra i contadini, sento i problemi del popolo. Sotto le armi, a Firenze, ho un contraddittorio con un amico anarchico. Sostiene che Cristo e la Chiesa sono di ostacolo al progresso umano. Parla di noi cattolici ibridi, che mangiamo Cristo in chiesa e fuori produciamo i poveri. Un’ipocrisia, una bestemmia! Non un santo ma un anarchico mi fa vedere il mio peccato sociale, la tragedia dell’uomo ridotto a merce. Mezz’ora di sangue d’anima. Guardo l’orizzonte, un lampo: «Non più padrone, non più servo, cambio civiltà». Studio legge e teologia. Amo una ragazza ma amo ancora di più proporre un esempio di vita nuova. Dai venti ai trent’anni mi preparo a questa missione: cambiare civiltà. Fondo una scuola di arti e mestieri per i piccoli delinquenti, ma sono angustiato, perché sono funzionale al sistema e non rispondo all’anarchico. Di giorno sereno, di notte tormentato. Non trovo né preti né giovani cattolici disposti al cambiamento di rotta. Non voglio farmi prete, intendo fare qualche cosa per il popolo. La laurea in mano, mi dico: «Sono stanco di fare del bene, perché tutto rimanga come prima. Mi faccio sacerdote e prendo gli abbandonati come figli. Basta con l’assistenzialismo». Il 6.1.’31 vado all’altare, sposo la Chiesa, le do un figlio, il primo di quattromila. L’ho prendo come figlio, perché non voglio che mi stenda la mano. Odio l’assistenza. Applico il Vangelo: se un figlio ti chiede il pane della paternità non gli dai l’istituto con l’assistente a ore e con lo stipendio.

 

 

IL SOGNO DI VIVERE DA FRATELLI

 

Poi mi faccio padre del popolo, esercitando il sacerdozio in modo rivoluzionario. Non programmo quello che devo fare. Ci pensa il Signore a dare il segno, a fare un piano. In parrocchia faccio i burattini, le caldarroste, i vestiti e la cena per i bambini poveri, la slitta con i giovani, la radio per gli adulti, il cinema per tutti. La piazza diventa chiesa, la chiesa piazza.

 

La canonica si riempie di abbandonati ma la società non cambia. Parlo sempre del mio sogno di vivere da fratelli come famiglie. Perché il Vangelo è appannaggio dei frati e delle suore? Per le famiglie è inapplicabile, cioè utopia? I tempi esigono una santità sociale. Constato che la famiglia è un fortino. Per forza i figli asfissiano! Gesù dice: Se amate amici e parenti, che fate di speciale? Perfino gli animali si prendono cura dei loro cuccioli. Lo spiego alle donne nelle piazze, nelle osterie: «Da ragazzo osservo due gattine. Una muore, l’altra porta gli orfanelli nel suo nido e li tira su tutti assieme. Foste come le gatte, almeno! Io non credo alla famiglia isolata. Ogni giorno vai al lavoro e non sai se farai ritorno la sera. Come andare in aereo senza paracadute, perché esponi i tuoi cari al rischio di restare orfani. Chi porta in collegio i figli scomodi e all’ospizio i genitori anziani? Da parroco quante volte, sulla via del cimitero, mi ferisce il commento delle donne: “Quando muore una mamma, sarebbe meglio mettere il figlio nella bara con lei”. O è crudele Dio a fare orfani e abbandonati o crudeli siamo noi, che non sappiamo trovare soluzioni. Se con il vincolo del sangue si sono fatte le tribù, i clan, le famiglie patriarcali, che cosa si potrebbe fare con quello della fede?».

 

 

UN POPOLO NUOVO: NASCE NOMADELFIA

 

Nel ’41 arrivano le mamme di vocazione, nel ’43 una dozzina di preti si affratellano anche con le loro parrocchie, nel ’45 interpello i parrocchiani: come si esige la fraternità tra gli individui, perché non pretenderla dalle famiglie? Si accontentano di una società di mutuo soccorso. Non ci sto: o fratelli come famiglie o niente. «Il sogno che avete nel cuore e non riuscite a realizzare, lo realizzerò con i miei figli. E voi, vedendo, farete». Da noi il bambino ha la certezza di non rimanere mai abbandonato, perché vive sotto la cupola dell’affetto non di una coppia ma della comunità. La famiglia passa, la comunità rimane. La famiglia “da Dio” perfeziona quella naturale. O la si ricostruisce con la fede o va a rotoli. Nel ‘47 occupiamo l’ex-campo di concentramento, riunendo le famiglie sparse in varie parrocchie. I giornali parlano di guerra degli angeli. Nasce un popolo nuovo, Nomadelfia, dove la fraternità è legge. Dando ai fanciulli la maternità e la paternità diamo la fraternità al mondo, l’Unum, perché nessuno sarà escluso da questo amore. Questa è una sentenza per il mondo e il suo sistema sociale egoista: siamo fratelli. Le mamme prendono dal brefotrofio di Roma 120 scartini e il cardinal Schuster ne affida loro 36, in Duomo, dicendo: «Donna, ecco tuo figlio, figlio ecco tua madre». Il mio commento: «Questa mattina è arrivato il pullman con i fanciulli. Mi guardano con la loro personalità di ribelli ad una società che non li capisce. Ne fisso uno negli occhi. Non mi sento più don Zeno, ma Milano, Londra, New York. Mi dico: “Che male hai fatto, ragazzino che mi guardi senza parlare? Va là, troverai la mamma”. Mi guarda, mi sorride. Lo saluto. Li abbraccio tutti, ma quello mi fissa mentre scendo dal pullman. E a nome vostro, a nome di tutti gli dico: “Perdonaci”».

 

L’immersione negli orrori della guerra mi convince, che o si cambia politica o non cambia niente, anzi si è complici delle ingiustizie. «Io ho una vocazione politica, facendo una proposta di solidarietà universale. Perché facciamo Nomadelfia? Per i bambini abbandonati? Ne salviamo così pochi! Siamo un popolo, quindi abbiamo una vocazione politica. Una stufa non tiene il calore per sé. Il nostro é amore di popolo».

 

Nel ’45, fisarmonica a tracolla, Vangelo nel cuore, parlo nelle piazze: «Volete riprendere i partiti che ci hanno dato il fascismo? Sono fondati su ideologie, ci dividono. In piazza siamo tutti uguali, abbiamo le stesse esigenze di lavoro, salute, pane». Propongo il movimento dei due mucchi: «Da una parte chi ha i soldi, dall’altra chi non li ha. Noi che non ne abbiamo siamo il 95%, andiamo al potere e facciamo le leggi che vanno bene per noi». Se uno non fa politica è un imbecille, perché non partecipa. Un popolo non può essere né cristiano né comunista: ha delle esigenze e quindi la politica non è cristiana ma di tutti. Lo stato deve applicare la giustizia con la legge. Tocca a lui fare le scuole, non alle chiese! Deve provvedere al bene comune, non a quello dei cattolici, dei preti. Non si può fare un partito cristiano. Il delitto di questo secolo è avere in mano i mezzi per sfamare il mondo e non lo fa.

 

Come non accettare, da uno che parla con il cuore in mano, certe bordate? Nei giorni delle barricate il giornalista ti chiede: «E se lei fosse papa...?». «Chiuderei tutte le chiese e le riaprirei solo a chi porta i conti, a chi non sperpera». Quando Pio XII mi riceve, dico: «Santità, mi lascia usare il suo telefono?». «Cosa intende fare?». «Chiamare i capi di stato e dirgli: “Se non fate osservare almeno la legge naturale della giustizia, vi sconfesso…”». «Il papa non può fare di queste cose. La faccia lei, la rivoluzione, la faccia, la faccia…». Lo prendo sul serio ma le cose non andranno lisce…

 

 

“BISOGNA FARE UNA RIVOLUZIONE”

 

Rifiuto d’essere ridotto a funzionario del culto. Scavo nelle piaghe della Chiesa come nelle stigmate di Cristo. Mando lettere e cuore al papa per ottenere un segno di approvazione per il movimento politico, ma la paura che i comunisti facciano di me un utile idiota farà fallire tutto. La Chiesa, in fondo, mi fa tenerezza, perché è nostra figlia. Siamo noi che la generiamo. Oggi è in lacrime. Come una madre che ha tanti figli: pochi stanno bene, molti stanno male. È ancora bambina. Non può fare Nomadelfia, perché deve interessarsi di tutti, influenzando il mondo con la pastorale. Non può proporre un sistema civile, perché è una religione, ma noi sì, perché siamo un popolo. Se avessimo in mano mille parroci avremmo la Chiesa in pugno. In un ritiro ai preti dichiaro: «Noi siamo l’ultima generazione, quella del cimitero dei seminari. Ce lo meritiamo, perché siamo nepotisti, carrieristi, avari. In Italia, ogni settimana, ci dovrebbe essere un funerale di preti, perché noi non siamo d’accordo e non possono sopportarci. Invece è tutto un molla, molla... Quando non si vede la forza, che si ha in mano è perché si è già finiti e il Signore ci abbandona. La religione è diventata marginale, non incide sulla vita. Quello che conta, oggi, è il problema sociale, un problema tutto cristiano, una sfida storica. Non basta curare le vittime, bisogna fare una rivoluzione: non più padroni né servi, non più benefattori né beneficati, tutti fratelli. I cristiani credono di risolvere con la politica dei cerotti. Noi preti siamo un macello! C’è chi dice: «Io aiuto gli altri, ma applicare il vangelo nel sociale, smantellare la borghesia è impossibile. La Chiesa si deve adattare». Forse che Cristo non ha capito niente in questo campo? Noi ci siamo battuti nella Chiesa, però sempre nella barca di Pietro, sia pure in compagnia dei topi nella stiva.

“Che dire del tuo martirio”?

E che dire del tuo martirio nel ‘52? Vieni allontanato dalla comunità con il pretesto dei debiti. Il governo DC impone la liquidazione coatta, la polizia riporta i figli in istituto e alcuni tornano in galera. Dentro di te, un’obiezione di coscienza: come obbedire alla Chiesa e al dovere d’essere padre? «C’è da meravigliarsi che il clero abbia accettato gli orfanotrofi? A Pompei hanno fatto la Casa dei figli dei carcerati. Come è possibile chiamare così coloro che Dio ha scelto per figli prediletti, perché rifiutati dagli uomini? Disprezzati dal mondo è un conto, ma dalla Chiesa non è troppo? Siamo come il sacerdote e il levita della parabola del samaritano? Il Calvario è la storia di Dio nell’umanità. La Chiesa riprenda i figli rinati lì». Nell’ora di Barabba, dedicando al papa il libro Non siamo d’accordo, scrivo: «In rerum natura non si sono mai visti i babbi e le mamme ricchi o benestanti e i figli poveri, affamati, ignudi e senza casa. Si è visto e si vede spesso l’inverso. Noi ecclesiastici, che siamo padri per divina elezione, di fronte ai figli in necessità siamo quindi contro natura, in peccato».

 

Anche in questa circostanza esigi da te e dai tuoi un’obbedienza eroica, perché nell’emergenza si è tenuti ad essere eroi. Hai sempre voluto applicare il Vangelo fino alle estreme conseguenze. Come un bambino che apre la conchiglia per trovare la perla. La tua perla: un piccolo popolo nuovo, un pugno di famiglie che fanno l’esperienza di vivere da fratelli secondo Cristo: “Siate uno, come io e il Padre siamo uno”. Una sola strada per realizzarlo: “Tutto quello che è mio è tuo tutto quello che è tuo è mio”.

 

Certi ecclesiastici ti danno dell’esaltato, sognatore, utopista. Eppure, tu, prete contadino, pretendi arare il Vaticano, convertire il S. Offizio. Attacchi, denunci, scuoti le fondamenta di san Pietro: “Le opere di Dio per loro natura portano lo scompiglio nelle coscienze”.

 

I tuoi figli, i quattromila salvati dalla strada, ti chiamano anche oggi con il titolo più semplice del mondo: “Babbo”.

 

Solo tu, prete irregolare, puoi scrivere la tua avventura. Io, il tuo scrivano, non faccio altro che mettere insieme le tesserelle del tuo puzzle.

 

 

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1 - Zeno, obbedientissimo ribelle, truffatore per il ministro degli Interni, eretico per il nunzio, babbo per 4.000 figli. “Autobiografia” di don Zeno Saltini redatta da Fausto Marinetti. Edizioni La Meridiana, Molfetta 2006.

2 - Fausto Marinetti (1942) licenziato in teologia, cappellano in istituto per minorati: il passaggio dai manuali alle tragedie quotidiane lo sconvolge. Disorientato, s’imbatte in don Zeno Saltini, che per dieci anni (1969-79) gli insegna a coniugare nuovi “verbi”: “giustizia, non elemosina”; “popolo nuovo, nuova civiltà”. La scintilla diventa roveto e s’immerge nelle stigmate del nordest brasiliano. Denuncia le cause dell’ingiustizia strutturale: se ci sono popoli “Lazzari”, è perché ci sono popoli “Epuloni”. Quale Dio annunciare ai popoli-naufraghi alla deriva? Se non c’è l’uomo, dove appoggiare il cristiano? “Perché loro muoiono come mosche e io no? Privilegio o condanna? Ne aiuti dieci, ne arrivano cento, mille… Forse è tempo che il missionario rinasca nel Giordano del terzo mondo: non più fare per loro ma essere con loro”.

 

Promuove progetti di solidarietà, ma tutto resta come prima. Con una decina di famiglie si istalla su un grande terreno. L’idealizzazione del misero gli aveva fatto credere, che fosse più facile mettere insieme il niente. Invece anche il nullatenente può essere “ricco” nel desiderio. Visita diversi paesi per vedere se altrove si sta tentando l’avventura di vivere “da fratelli”. Concluderà: solo certe tribù indigene conservano tracce di vita comunitaria. Rientrato in Italia (2000) constata: i popoli del nord sono talmente sazi e annoiati, che gli manca di provare a essere… fratelli! Forse il primo mondo è il più predisposto al cambiamento. Risolto il problema della sopravvivenza, ha cultura e mezzi sufficienti per farlo, si rifà al messaggio di Zeno, perché non ha trovato niente di più “vero”. Nel 25° del suo trapasso gli dice “grazie” con questo libro-di-vita.

 

Il libro può essere ordinato anche presso lo stesso autore, il quale garantisce a chi ne acquista olre due copie un buono sconto. Il suo indirizzo: Fausto Marinetti, Via F.lli Bandiera, 67 – 60019 Senigallia (AN). Tel. 071- 793.14.86 – e-mail: fausto@60019.it

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