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4.4 La preghiera, la speranza e la profanità

Il cristiano deve imparare sempre più a fondo la espropriazione. Per lui, che deve la sua libertà a Cristo, essa diventa preghiera.


4.4 La preghiera, la speranza e la profanità

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Il cristiano deve imparare sempre più a fondo la espropriazione. Per lui, che deve la sua libertà a Cristo, essa diventa preghiera. La preghiera, finché l’uomo è peccatore e quindi egoista, è appesantita dal rapporto con l’io. Egli si dà pensiero e fa sforzi per la sua salvezza, per ‘un Dio clemente’. Ha tutte le ragioni di implorare il perdono per i propri peccati, per la sua debolezza. Inoltre pregherà anche per amici, conoscenti, persone che gli sono affidate. Ed in margine, se gli viene in mente, per la cristianità ed il mondo. Ma a mano a mano che impara a conoscere Cristo, la sua preghiera diviene disinteressata. Egli prega per il perdono dei peccati; in ciò la sua propria colpa è presente, è pesante e nondimeno come scomparsa: infatti ora la cosa più terribile è che esiste il peccato, chiunque l’abbia commesso. Prega per l’avvento del regno, per la santificazione del nome, per la volontà che deve essere fatta in terra, per il pane che Dio deve elargire a noi tutti ed in primo luogo agli affamati, per l’allontanamento della tentazione e del male, soprattutto in coloro che sono sopraffatti, senza quasi più speranza, dalle tenebre.

Quanto meglio l’orante impara a pregare, tanto più il suo cuore diviene disinteressato. Egli deve fare una singolare scoperta, che inizialmente lo sorprende e quasi gli riesce insopportabile: ciò che egli considera come sua privata cameretta silenziosa, dove riteneva di comunicare con Dio nella più completa solitudine, ha pareti soltanto verso il mondo, ma non verso il cielo. Ognuno nella Chiesa gloriosa può guardarvi dentro. NeApocalisse tutto avviene in cielo e sulla terra come in una grande sala pubblica. Le preghiere dei santi, visibili ad ognuno, sono prese dagli angeli e salgono come incenso dinanzi al trono di Dio. Non c’è nulla di privato. Quanto più un amore è intimo, personale, tanto più è pubblico nel regno di Dio, tanto più ognuno vi ha diritto. Non soltanto il pavimento celeste è di cristallo trasparente, ma anche tutte le pareti. Nella casetta di Nazareth, ognuno ha accesso al cuore della Vergine, anche persone dalle scarpe sporche e dagli abiti cenciosi, che non mandano affatto odore di gigli.

Qui i cristiani hanno ancora da imparare: i più sono borghesemente smorfiosi, quando si tratta della loro devozione privata. Essi devono riflettere seriamente se qui non siano in coda alla evoluzione della coscienza. La loro esistenza, il loro cuore, la loro preghiera è un pane a cui tutti devono partecipare. Perché i cristiani non dovrebbero poter aver parte al mistero eucaristico?[1] Se essi sono membra di Cristo, il capo ne può disporre. Essi sono in servizio, e la misura dipende dal capo che se ne serve, essi devono sapersi e sentirsi totalmente impegnati, occupati, consumati. E devono regolare in tal senso i moti del loro cuore, la loro preghiera. Devono imparare a recitare il Padre Nostro onestamente e conforme al senso, cioè nel senso di Cristo, e non restringerlo ad ogni frase in modo contrario al senso, ponendo se stessi al centro. Nel Padre Nostro non compare affatto l’io, ma soltanto il noi. In questo noi l’io è in buone mani, ma appunto per questo è annullato.

Non si comprende come una volta ci fosse nella teologia l’opinione che ognuno potesse avere la speranza soltanto per sé, quella speranza cristiana cioè che ‘non inganna’. Si dovrebbe dire piuttosto il contrario. Ognuno deve avere la speranza per tutti i suoi fratelli, ma per conto proprio difficilmente egli può rinunziare ad un elemento di timore. Certamente, l’amore perfetto spazza via il timore: ma chi può dire di avere l’amore perfetto? Tuttavia dietro il fratello che incontra, egli scorge il Figlio dell’uomo, che per lui è morto e per lui interpone l’intercessione presso il Padre (1Gv. 2,1). Egli lo scorge dietro ognuno, dietro il mondo intero. Di ciò si nutre la sua speranza. Non gli viene più in mente di sperare per sé – ad esempio di giungere il più presto possibile dopo la morte alla visione di Dio -, mentre gli altri possono restare tranquilli. La vera speranza cristiana è escatologica e comunitaria. Fa parte dei ‘gemiti della creazione’, che tutta vuole aver parte alla redenzione. In questa speranza è superata l’opposizione tra vita presente e vita futura. Secondo l’opinione di taluni Padri della Chiesa anche i santi in cielo sperano nella piena e definitiva redenzione del mondo. E infatti lo si vede nelle preghiere dell’Apocalisse. San promessi un nuovo cielo ed una nuova terra. Ci sarà un nuovo cielo quando la terra sarà giunta in cielo. E ciò sarà allora anche la nuova terra, in cui la volontà di Dio si compie in terra come in cielo. Così la speranza dei cristiani non corre via dalla storia, ma lungo la storia corre verso la fine.

Con ciò anche lo slogan del ‘mondo mondano’ e della profanità moderna è trasformato in una vera frase cristiana. Pro-fano significa: fuori dinanzi al santuario (fanum). Il ‘pro’ significa per noi che non siamo ancora dentro, ma significa pure che siamo sempre dinanzi e che ci avviciniamo ad esso. Così in ogni incontro con un uomo; esso ha luogo dinanzi al santuario, ma non avrebbe affatto luogo se il cristiano attraverso la profanità non guardasse al santo, ed in questo guardare attraverso non camminasse anche verso di esso. A mano a mano che cammina scompare la differenza tra profano e sacro. Ma sempre soltanto camminando. Gli amari discorsi dei trascendentalisti sulla profanità totale del mondo negano il passo della speranza, al pari dei discorsi ebbri dei teilhardiani sulla sacralità totale del cosmo.

Il piccolo passo della speranza è illuminato per colui che nell’obbedienza di fede è espropriato. Egli osa il passo senza domandare se è in esilio od in patria. Se si sente in esilio, sa che il suo passo si avvicina alla patria e che la patria non è altro se non l’esilio che ha trovato la patria.

[1] «Poiché Gesù come tutto in tutti è puro, tutta la sua carne è un cibo e tutto il suo sangue è una bevanda. Infatti ognuna delle sue parole è vera. Perciò quindi la sua carne è un vero cibo ed il suo sangue una vera bevanda. In secondo luogo sono un cibo puro Pietro e Paolo e tutti gli apostoli, in terzo luogo i loro discepoli. E così ognuno, a seconda dell’entità del suo impegno o della purezza della sua mente, può diventare un cibo puro per il suo prossimo. Ogni uomo ha in sé un determinato cibo. Se esso è buono ed egli vi attinge e dai buoni tesori del suo cuore trae fuori cose buone, offre al suo prossimo un cibo puro». (Origene, Omelia 7 sul Levitico).

Hans Urs Von Balthasar

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