17. L'Oratorio sfrattato

Non avendo niente di meglio, ringraziavamo il Cielo per quel poco che ci aveva concesso, ma aspettavamo una località migliore. Ci caddero però addosso delle gravi opposizioni...

17. L'Oratorio sfrattato

da Don Bosco

del 08 gennaio 2007Sette mesi di paradiso

Nella cappella vicino all'Ospedaletto di santa Filomena, l'Oratorio funzionava molto bene. Nei giorni di festa i ragazzi arrivavano numerosissimi per fare la confessione e la Comunione. Dopo la Messa facevo una breve spiegazione del Vangelo. Nel pomeriggio c'era tempo per il catechismo, l'esecuzione di canti sacri, una breve predica sulla dottrina cristiana, le litanie della Madonna, la benedizione con il SS. Sacramento.

Alternati a questi impegni c'erano giochi e gare che divertivano i ragazzi. Si svolgevano nel viale che correva tra il monastero delle Maddalene e la strada pubblica.

Trascorremmo così sette mesi. Ci sembrava di essere in paradiso. Invece, anche di là dovemmo partire per cercare un'altra sede.

La Marchesa di Barolo approvava ogni opera di carità. Ma il 10 agosto 1845 si sarebbe inaugurato il suo Ospedaletto per le ragazzine, e il nostro Oratorio doveva lasciare libero il locale avuto in prestito. Veramente, quelle due stanze (che ci servivano come cappella, scuola e luogo di ricreazione) non avevano nessuna comunicazione interna con 1'Ospedaletto. Persino le persiane erano state fissate con le stecche rivolte all'insù. Tuttavia abbiamo dovuto obbedire.

Emigrazione a San Martino

Rivolgemmo una domanda urgente al Municipio di Torino, accompagnata da una raccomandazione dell'Arcivescovo. Come risultato ci fu permesso di trasferire l'Oratorio alla chiesa di San Martino dei Molassi, cioè dei Mulini di città.

E così una domenica del luglio 1845 siamo andati a prendere possesso del nostro nuovo quartiere generale. Ognuno portava ciò che poteva, tra risate, tonfi, schiamazzi. Per il quartiere sfilavano bambini, ragazzi, panche, inginocchiatoi, candelieri, sedie, croci, quadri e quadretti. Una vera emigrazione fatta in allegria. In fondo al cuore, però, avevamo il rimpianto.

 

Don Borel e la predica dei cavoli

Alla partenza e all'arrivo don Borel tenne il suo bravo discorso. Con la vivacità popolaresca che lo rendeva tanto simpatico, quel bravissimo prete rialzò il morale a tutti:

- I cavoli, o amati giovani, per crescere con una testa bella e grossa, devono essere trapiantati. La stessa cosa dobbiamo dire del nostro Oratorio. È stato trapiantato da un luogo all'altro, ma ad ogni trapianto è cresciuto. I giovani che lo frequentano sono sempre più numerosi e più contenti. S. Francesco d'Assisi lo ha visto nascere con un po' di catechismo e un po' di canto. Là non si poteva fare di più. Nella prima stanzetta del Rifugio abbiamo fatto una fermata, come quelli che viaggiano in treno. In quelle settimane tutti hanno potuto avere un aiuto spirituale: la confessione, il catechismo, la spiegazione del Vangelo. E nei prati intorno abbiamo giocato allegramente.

Nel locale vicino all'Ospedaletto è cominciata la vera vita dell'Oratorio. Ci sembrava di aver trovato finalmente la nostra sede, avevamo tanta pace. Ma la divina Provvidenza ha per­messo il nostro sfratto e ci ha mandati qui a San Martino.

Ci staremo molto tempo? Non lo sappiamo. Speriamo di sì. Comunque, noi crediamo che al nostro Oratorio capiterà come ai cavoli trapiantati: crescerà il numero dei giovani che vogliono diventare buoni, crescerà la nostra voglia di cantare e di suonare, cresceranno le scuole giornaliere e serali per tutti quelli che le desiderano.

Non pensiamo a quanto tempo passeremo qui, se ci staremo tanto o poco. Pensiamo invece che siamo nelle mani del Signore. Egli provvederà al nostro bene. È certo che egli ci benedice e ci aiuta. Penserà a darci sempre un luogo adatto per dare gloria a lui e per far del bene alle nostre anime.

Le grazie del Signore formano come una catena, in cui un anello è collegato con un altro anello. Se noi accettiamo le prime grazie che Dio ci dà, siamo sicuri che egli ce ne darà delle altre, ancora più grandi. Se noi oggi, frequentando l'Oratorio, miglioriamo la nostra condotta, Dio ci aiuterà a crescere nel bene per tutta la nostra vita. E alla fine raggiungeremo la patria che Dio ci ha preparato, e Gesù ci darà il premio che avremo meritato con le nostre opere buone.

Quelle parole furono ascoltate da un numero grandissimo di giovani. Al termine cantammo con commozione un inno di ringraziamento al Signore.

Voci strane e inquietanti

La vita religiosa, nel nuovo Oratorio, si svolgeva come al Rifugio. Ma c'erano delle difficoltà. Non ci era permesso celebrare la Messa, né dare la benedizione eucaristica. I ragazzi non potevano perciò fare la Comunione, che è l'elemento fondamentale del nostro Oratorio. La stessa ricreazione era molto disturbata: i ragazzi dovevano giocare sulla strada o sulla piazzetta davanti alla chiesa, mentre passavano carri e cavalli. Non avendo niente di meglio, ringraziavamo il Cielo per quel poco che ci aveva concesso, ma aspettavamo una località migliore. Ci caddero però addosso delle gravi opposizioni.

Gli addetti ai mulini e le loro famiglie erano disturbate dai giochi, dai canti e dalle grida dei nostri ragazzi. Cominciarono quindi a lamentarsi con il Municipio. Fu allora che cominciarono a diffondersi voci inquietanti nei nostri riguardi. I raduni dell'Oratorio, si diceva, erano pericolosi. Poiché i giovani obbedivano ad ogni mio cenno, la loro massa poteva essere usata per sommosse e rivoluzioni. Si diceva anche (senza nessuna prova) che i ragazzi guastavano tutto, in chiesa e fuori chiesa, che demolivano addirittura il selciato. Se non venivamo subito allontanati, sembrava che Torino dovesse crollare.

Una lettera con accuse gravi

Le voci giunsero a un punto tale che il segretario dei Mulini scrisse una lettera al Sindaco di Torino, elencando e ampliando tutte le accuse che ci venivano rivolte. Arrivò ad affermare che il nostro Oratorio era un centro di immoralità. La lettera terminava dichiarando che le famiglie addette ai Mulini non avrebbero più potuto adempiere ai loro doveri né vivere in pa­ce finché noi non ce ne fossimo andati.

Il Sindaco capì benissimo che le accuse non avevano consistenza. Ma rispose con un'ordinanza che intimava la nostra immediata partenza. Ci fu molto rincrescimento, però abbiamo dovuto sgombrare.

È bene tuttavia notare che il segretario (qui don Bosco ne scrive il cognome, ma subito aggiunge « da non pubblicarsi mai ») dopo aver scritto quella lettera diffamatoria, non poté scriverne altre. Fu colpito da un violento tremito alla mano destra, e dopo tre anni morì. Suo figlio, abbandonato da tutti, venne a chiedere aiuto all'Oratorio di Valdocco, e ricevette pane e ospitalità. Così volle Dio.

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