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XIII. O selva beata del tuo amore.

Nessuno mai ti legherà, nessuno ti potrà mai esplorare e scoprire. Le strade che i temerari iniziarono a battere non penetrano molto addentro; all'improvviso si spezzano, c'è ancora nell'aria la delusione dei pionieri, si può capire con quale animo hanno dovuto far marcia indietro.


XIII. O selva beata del tuo amore.

da L'autore

del 29 gennaio 2009

Nessuno mai ti legherà, nessuno ti potrà mai esplorare e scoprire. Le strade che i temerari iniziarono a battere non penetrano molto addentro; all’improvviso si spezzano, c’è ancora nell’aria la delusione dei pionieri, si può capire con quale animo hanno dovuto far marcia indietro. Altri sentieri si sono aggiunti: erba di selva selvaggia li ricopre, alti tronchi sono caduti di traverso; la selva ha ripreso a fiorire e frusciare, illimitatamente.

Quando ero giovane ho pensato di poter venire a patti chiari con te. Ho visto davanti a me una strada rapida, mi venne del coraggio, mi legai lo zaino e cominciai ad arrampicarmi. Cercai di rendermi leggero abbandonando tutto «in spirito» secondo la tua parola. Per un certo tempo parve anche a me di salire verso l’alto. Ma quando oggi, dopo anni, alzo gli occhi, i tuoi Ottomila brillano più alti a perdita d’occhio che mai. Non si parla ormai più da lungo tempo di una strada.

Mi ero armato e rifornito di carte topografiche e di apparecchi di misurazione. Conoscevo i dodici gradini dell’umiltà a memoria e i sette argini e fosse tutt’attorno al castello dell’anima. Su certe cime vidi bandierine e segnali e segni rossi e blu sul terreno accidentato che indicavano almeno che qualcuno c’era passato. Le «istruzioni sulla vita beata» brulicavano su certi posti di bivacco come stagnola e scatole di sardine. Nello scorrere del tempo persi l’abitudine di far attenzione su simili melanconici residui, mi accorsi soltanto che essi si diradavano e mi apparivano vecchi e arrugginiti e prossimi a diventare un pezzo di selva anche loro, perduti nel folto della foresta vergine e nelle liane aggrovigliate.

E tutti coloro che là cercavano di eliminarti e disincantarti mi parvero puerili e goffi: mi sentii dentro dell’ira per essi, perché seducevano e deviavano le anime di coloro che avrebbero potuto comprendere il tuo incantesimo, o selva. Ma poi mi venne anche della compassione, perché ingannavano il mondo e se stessi a riguardo dell’optimum. E un bel giorno gettai tutto nel cespuglio: zaino, viatico e carta, e mi consacrai unicamente a te, paesaggio verginale, e divenni libero per te.

I maestri dicevano: tre sono le vie della sapienza. La via del sì, la via del no e, alta sulle due, la via dell’oltre. Trovarti in tutte le creature, perché tutte riflettono nella propria scheggia un raggio della tua luce. Abbandonare tutte le creature, perché i loro duri confini non afferrano il tuo essere infinitamente fluente. Alla fine rompere i gusci delle loro perfezioni e dilatarle fino alla misura immisurabile della tua eternità. Ma io finii per sapere che queste vie non sono una via. li sì è una sentenza e il no è una controsentenza, contraddizione; tutte si perdono le une nelle altre e portano alla fine all’orlo dell’abisso, e la terza via è l’impossibilità di poter andar oltre. Alcuni consigliavano: precìpitati nell’abisso affinché il tuo essere e i tuoi limiti vadano in pezzi, troverai così quello che vai cercando. I tuoi occhi si apriranno e sarai come Dio.

Una grande tentazione si annidava in questi discorsi e, adescante dalle profondità del cratere, appariva una lava aurea come cenni di una vita divina. Oro da quest’oro mi era sembrato che fosse la luce che leggendariamente erompeva talvolta di notte brillando verso le navi lontane dalle grotte più alte dell’Athos. E santa mi sembrò l’ebrezza in cui Plotino e Al Hallaj e i giovani del Bodhisattva si lanciavano di là dalle barriere.

Ma al tempo giusto mi ricordai del tuo cuore, Signore, e che hai amato i confini delle tue creature e sei poi disceso fino alla nostra valle terrestre, per rimanere tra noi fino alla fine del mondo, e per ammonirci riguardo alla seduzione dello spirito e al disprezzo di anche uno solo dei tuoi piccoli. E quando feci attenzione al modo come tu ti sedesti stanco alla fontana della donna perduta e come, con fango e saliva, hai spalmato gli occhi del cieco nato, mi venne il sospetto che quegli uomini sublimi nelle loro estasi altro non hanno attinto che lo spettro mummificato del loro vacuo desiderio. E dovevano così illudersi anche coloro che camminavano scantonando dalla tua umanità e pretendevano di conoscere, oltre di quella, il presunto fondo più profondo senza fondo del Padre.

Per meglio dire falliva qualsiasi strada che non eri tu stesso. Sbagliavano tutti quelli che non ti conoscevano, e nessuno ti conosceva che non fosse in te. Neppure il tratto da me fino a te era percorribile se prima non si camminava in te.

Ma tu stesso, Signore, come sei una via? Non assomigli a nessuna strada degli uomini. Nessuna delle tue parole è un segnavia sicuro verso quello prossimo, a quel modo che le pietre miliari indicano la distanza e la chiara direzione. Ogni direzione è un giudizio e una esecuzione, ogni uscita è una condanna, ogni comandamento è un castigo. La via che tu sei - e tu sei una via - deve toglierci da sotto i piedi ogni strada sicura, ogni passo avanti ci rimanda insieme indietro nella sempre più grande distanza del nostro nulla, e ci mette da parte perché, inginocchiati nella polvere, lasciamo passare da solo sulla strada te, il re della gloria. Opere noi dobbiam fare e crescere in opere, ma nel crescere diventare più piccoli e, guardando te, dimenticare tutte le nostre opere. Più grande dev’essere la nostra giustizia di tutta quella degli scribi e dei farisei, ma dobbiamo diventare più piccoli e più bassi come questo bambino. Tesori noi dobbiamo raccogliere nel cielo, e in fienili più sicuri, dove tignola e ruggine non consumano, ma dobbiamo a un tempo essere più poveri di tutti e beati mendicanti nello spirito, che non si preoccupano angosciosamente del giorno eterno di domani. Tutti protesi dobbiamo correre verso ciò che è davanti a noi, e tuttavia riposare, distesi e senza paura, come un uccello nella tua mano. Le nostre opere dovrebbero poter brillare davanti a tutti gli uomini, ma dobbiamo star attenti a compierle nel segreto. Dobbiamo essere perfetti come il Padre che è nei cieli, ma contriti come il pubblicano nel tempio e sentirci come peccatori che non valgono niente. Vigili e maturi come tuoi amici, veniamo iniziati nella profondità dei tuoi misteri, ma come schiavi dobbiamo desiderare di non sapere né il giorno né l’ora. Dobbiamo affaticarci per gli uomini e morire come madri in doglie, e tuttavia, se non ci ricevono passar via e scuotere la polvere dalle scarpe. Essere impassibili e senza bisogno di nulla, ma compartecipi in gioia e dolore, e aver aperta la mano in dare e ricevere. Lasciare che il tuo regno cresca in noi pazienti come sementi, come appunto un seme che cresce incessante tra molta zizzania, ma audaci come fulmini rapinarci il regno dei cieli nella scintilla della grande decisione!

Dove c’è la via qui, dove un indirizzo? Non è questa una selva selvaggia? E chi può capire il tuo regno, quello che è piccolo come un granello di senape e cresce alto al di là di ogni altra cosa, quello che è miscelato di buoni e di pigri, dentro cui però nessun cattivo entra, il regno che è lontano e non di questo mondo e che è però venuto qui vicino a noi ed è in mezzo a noi, che si avvicina quando siamo lontani e seduti nelle ombre di morte, e si allontana quando noi ci accostiamo e tentiamo di afferrarlo? Questo regno, la tua presenza nel mondo, è inafferrabile come pure tu sei. Perché è, a un tempo, tutto insieme: è povero e ricco, potente e impotente, così visibile che nessuno può non vederlo e non subire castigo, e così segreto che nessuno lo può vedere se non con gli occhi della grazia. In atteggiamento quasi da schiavo l’amore di Dio si mette nei sacramenti davanti ai nostri piedi, incatenato alla propria irrevocabile decisione, possibile a toccare nell’acqua e nel pane e nel vino e nell’olio, disponibile ovunque; ma se uno allunga le mani per impadronirsene, gli scorre via come vento tra le dita prensili, un vento che irride a ogni cortina di ferro. E tu, o chiesa, principessa e regina sulle nazioni, che siedi ritirata e intangibile alla destra dell’assoluto re, sposa senza macchia né ruga, ma anche grigia ancella e sgualdrina riprovata, commutabile spesso con la rossa Babilonia sulla schiena della Bestia! E voi, cristiani, luce del mondo e candelabri sopra il moggio, sale della terra e liberti di Dio, ma scandalo anche agli uomini e spregevoli per i vostri peccati e perseguitati, e anche giustamente e non in nome di Cristo! Cittadini del cielo, stranieri di questo mondo, ma che anche faticosi vi affaticate da un giorno all’altro, trascinandovi da una confessione all’altra: chi siete voi?

Selva anche nei cuori, che come onde s’incurvano, bramosamente riluttano, avanzanti indietreggiando. Selva nelle coscienze, quelle cattive e di nuovo buone, piene della certezza della adozione di Dio e incerte angosciose, non sapendo di essere degne di ira o di amore. Selva dello stesso amore, il quale non sa se ama veramente, il quale amore è forse ancora sempre bramosia insorgente tra le rose della dedizione, oppure una muraglia incrinata o franata, là dove pur sa con maggior sicurezza del dono dell’amore di Dio versato nel cuore, e della solida casa, innalzata in Cristo, il Signore.

Selva alla fine di tutto questo mondo ingrovigliato: rigida roccia e onda schiumante, eterno ritorno dell’identico e cammino verso una nascita che non è ancora mai avvenuta, ordine delle galassie e brulicame di atomi, incerto se proprio ogni legge che viene scoperta o inventata non vada scadendo in una libertà piena di enigmi. Mondo come giardino affidato all’uomo e alla sua cura e indefinito progresso, e sempre di nuovo come imperturbabile caos che travolge ogni steccato e argine, spezzando le punte più raffinate, piegando le curve ascendenti come naturalmente verso i precipizi, ripiegando all’indietro la forma giunta a maturazione verso il grembo selvaggio delle origini. Mondo, dove senso e controsenso si bilanciano eguali, e ogni sua parte evoca la controparte, che si chiude nell’uovo rotondo e coinvolge ogni impulso di cielo entro il cerchio delle sue terrene evaporazioni. E mondo che tuttavia è aperto, giace mai chiuso come una anatomia, gemendo dalle sue viscere incontro alla pienezza che da sé esso non è in grado di darsi; indicando Dio con tutte le sue dita, assetato di lui con tutte le vene del corpo come della pioggia di cui tutti hanno bisogno. Mondo dai cui abissi tutte le energie ascendono e che tuttavia aderisce inerte ai suoi bassifondi aspettando le grazie che devono discendere. Mondo ambiguo, la cui bi-unità o disunità è tuttavia evidente. Mondo intermedio, che tuttavia, tenendo distinti creatori e creatura, li unifica. Mondo mostruoso immenso, che inalberandosi ingoia Dio stesso in figura umana nelle sue fauci, mondo bambino, che tuttavia, come un lattante, sogna tra le braccia della Vergine Maria.

Chi capisce il significato cui tende il Signore nella sua creazione e al di sopra di essa? Chi lega con un filo breve il mazzo infinito della sapienza? Chi doma e controlla la giungla della sua incomprensibilità? Eccolo: come la conchiglia di una fontana spumeggiante, spirito ed essere dell’uomo giacciono sotto la cascata di ogni mistero. Lascia che scenda, lasciando scendere tu afferri ciò che puoi; e ciò che puoi è d’essere tu recipiente per l’onda. Apri cuore e cervello e non tentare di prendere e fermare; tutto spruzzato vieni purificato; ciò che ti intride di estraneo è esso il significato che cerchi. Quanto più rinunciando dispensi, tanto più ricca diviene la tua sapienza; quanto più temporeggiando ricevi, tanto più forte diviene la tua forza. Ecco, tutto vuole disorientarti, affinché tu, dal colmo del disorientamento riconosca l’amore che trabocca; tutto vuole svuotarti, affinché scavi te stesso a spazio concavo per la superpienezza della fede; tutto ti abusa come un panno, affinché tu, trasparendo affilato con tanti fili, diventi capace di ricevere la superpienezza della luce.

Giacché guarda, tutto viene dissolto nell’elemento e degradato fino all’atomo per ricristallizzarsi di nuovo in ordine all’unico cristallo del centro assoluto. Tutto muore nelle agonie mortali del non-sapere-più-nulla, perché soltanto dalla materia della perfetta impotenza viene tessuto il vestito regale del vincitore del mondo. Tutto finisce nel fiume, come i banchi di ghiaccio si spaccano con fracasso sotto il sole, e si volta a informe in direzione del mare, frantumandosi e mischiandovisi una cosa con l’altra. Ma il movimento è generato dal battito che pulsa nel centro, e quello che sembrava un flusso caotico è la circolazione del sangue nel corpo del Cristo cosmico.

In questo corpo tu devi confluire e sempre di nuovo, come goccia lasciarti trascinare attraverso rossi fermagli e arterie battenti. Nella grande circolazione sperimenterai sia la nullità della tua opposizione che ti blocca, sia la forza del muscolo che ti spinge avanti. Sperimenterai l’angoscia della creatura, che deve piegarsi e perdersi, ma anche il piacere della vita divina, che nella giostra inesorabile è fatta di amore che fluisce all’infinito. Via, trascinato sulle onde del sangue santo entrerai in rapporto con tutte le cose, come macerie si urtano con macerie nelle cataratte del torrente montano, ma anche come belle navi a vela si incrociano sopra il soave tappeto mobile di un fiume regale. Dissolto e trascinato nell’oscura solitudine imparerai a conoscere la comunione reciproca di tutti gli esseri, come pure il loro contatto e la loro singolarità lungo le strade scorrenti del corpo. E così, imparentato con tutte le cose e le nature, comunicherai finalmente anche con te stesso e verrai portato lungo l’amplissimo giro dell’auto-oblio verso la tavola festosa colma di doni, sulla quale tu, quello sconosciuto che sei, riporrai te stesso come un dono nuovo. Espulso dal cuore in tutte le membra dell’immenso corpo ti avvierai per un viaggio più vasto di quello di Colombo, ma come la terra si arrotonda in una palla, così le vene si piegano all’indietro verso il cuore ed eternamente l’amore esce e rientra. Lentamente imparerai il ritmo e non avrai più paura quando il cuore ti espelle nel vuoto e nella morte, perché ora lo sai: è la strada più breve per venir poi risucchiati in gioia e pienezza. E se ti si spinge fuori, via lontano da te, allora sappi: questa è la missione e, spedito via dal Figlio, così compi tu stesso la strada del Figlio, via dal Padre verso il mondo, e la via che porta lontano, dove Dio non è, è la via stessa di Dio che va via da se stesso, che abbandona se stesso, che si lascia cadere, che lascia in asso se stesso. Ma questa uscita del Figlio è anche l’uscita dello Spirito da Padre e Figlio, e lo Spirito è il ritorno del Figlio al Padre. All’estremo confine, sulla riva più lontana, dove

il Padre è invisibile e del tutto nascosto, là il Figlio espira il suo Spirito, lo soffia dentro nel caos e nella tenebra, e lo Spirito di Dio sta sospeso sulle acque. E sospeso nello Spirito il Figlio glorificato si piega nel ritorno al Padre, e tu con lui e in lui, ed uscita e rientrata sono la stessa cosa, niente è più fuori di questa unica vita scorrente.

QUANTO TI RINGRAZIO, SIGNORE, perché posso scorrere e non devo prendere, posso allargarmi e distendermi nella tua beata incomprensibilità e non devo inquietamente arzigogolare sopra segni e scritti. Giacché tutto è runa[1], ma essa sussurra di te, e tutto è segno e indica te, allude a te. E sull’enigma di tutte le cose scintilla il tuo mistero sorgendo come un sole, e nel tramonto di ogni luce del mondo albeggia silente la tua notte più grande. Violenta mi spinge ogni strada fuori da me verso la selva intricata, e poiché io non trovo più nessuna via, percepisco il tuo volo e respiro. Quanto ti ringrazio, Signore, perché trascendi il nostro cuore, dato che è alla fine spregevole sotto di noi quello che possiamo comprendere. E non a prendere, brama il nostro spirito, ma ad essere preso in te e, conoscendo, ad essere piuttosto conosciuto dal tuo cuore. Nel fallimento di ogni verità non è il non sapere che veniamo a sapere, ma la custodia di ogni verità in te. L’onda del mondo si inalbera ardita, ma il suo slancio precipita in polvere e si getta, lungo disteso, in adorazione alla tua riva. Quanto ti ringrazio, Signore, che non hai sciolto la tormentosa selva del mondo se non nella beata e folta foresta del tuo amore e che, quanto in noi si combatte e si reprime a vicenda, tu lo fondi nel crogiolo della tua potenza creatrice. E che tutto ciò che in noi brilla ambiguamente e quindi è pregno di seduzione si illumina riconciliato in te così redento (erlosend) nella sua unità biunitaria. Al posto dell’enigma tu ci metti, illuminandolo, il mistero. Tutto, perfino il peccato, è per te una materia e una pietra da lavoro: espiando vicariamente tu prendi su di te ogni cosa e le doni, senza annientare la sua sostanza, una sostanza nuova. Dell’immondizia tu fai dei gioielli, della fornicazione una verginità, ai disperati tu offri un futuro; la tua magica mano supera tutte le fiabe dei bambini. Tu sei la fonte sempre viva di ogni possibilità, e il reale si stende curvandosi tra le tue dita con fatica minore che non la creta sulla ruota del vasaio. Tu sei più fantastico di ogni sogno, e le nostre più pazze utopie sono idiozie e una piatta stereotipia di quanto tu hai già da lungo tempo realizzato. Però ciò che tu inventi e pensi liberamente è il sogno più intimo di tutte le cose, che esse non osavano neppure sognare e anche non potevano; ma se tu lo prendi in bocca e lo esprimi come a te piace, hai allora definito la loro essenza ed esse sono donate a se stesse. Quanto ti ringrazio, Signore, che il mio essere trascende se stesso in te, e il mio centro si trova al di là di me stesso in te. Lungo la linea obliqua del mio cuore devo allora, mi piaccia oppure no, e a dispetto di ogni mia resistenza, sfuggire via da me stesso, oltre me stesso, in te. E così tutte le cose si aprono a te come uova, da cui sguscia un pulcino come un germe che scoppia, e tutti gli esseri si sporgono dalle loro finestre incontro a te e trovano in te, al di là di se stessi, a un tempo te e se stessi. Essi si collocano in ordine attorno a te come foglie di fiori intorno alloro segreto pistillo, il cui silenzio si annuncia solo come profumo.

La rosa del mondo si sfoglia, tutti noi appassiamo e cadiamo, ma in un simile autunno fiorisce una primavera. Cadiamo come fogliame impallidito, ci guastiamo e marciamo, nella terra si muta ciò che viene dalla terra, il cuore che pensa terrestremente. E un’altra volta il giardino del cielo si muta in selva selvaggia brulicante. Noi non siamo Dio. Il silenzio del limite non è illuminabile. Il limite è la nostra forma, il nostro destino, la nostra felicità. Non possiamo fare a pezzi la nostra forma, tu stesso hai rispetto della nostra forma. Indietreggiamo nella distanza. L’amore è solo nella distanza, l’unità è solo nella distanza. Dio stesso è una unità dello Spirito solo nella distinzione di Padre e di Figlio. Il fatto che noi siamo di fronte e di contro e specchi riceventi è il sigillo in noi della tua paternità originaria assoluta. Nel fatto che noi non siamo te assomigliamo a te. Nel fatto che ci siamo ritirati nella lontananza della rispettosa venerazione abbiamo parte alla vicinanza dell’amore. Poiché l’amore è casto e il seno di Dio è verginale. E la regina, tua Madre, è Vergine e ancella.

Ci prostriamo e ti adoriamo. Alla fine tu sei ancora tu, cuore nel centro. Noi non siamo. Ciò che è buono in noi sei tu; ciò che noi siamo non merita considerazione. Noi scompariamo davanti a te e non vogliamo essere altro che specchio e finestra per i nostri fratelli. La nostra caduta davanti a te è la tua salita sopra di noi, il nostro confluire in te e il tuo ingresso in noi. Poiché anche il nostro scomparire in te porta la figura del tuo proprio scomparire, e anche la nostra colpevole lontananza da te non ci appartiene, perché tu ne hai fatto la lontananza tua propria. TI peccato ha la forma della salvezza.

Così tu rimani alla fine solo, e tutto in tutto. Sei una sola cosa con te, e senza perdere te tu ti versi nell’essere multiplo; rimanendo nella pluralità dei molti membri tu li prendi su tutti in casa nell’unità del corpo. Nel fatto che tu ti svuoti nell’estrema debolezza e nella rinuncia all’amore sta l’azione della tua forza estrema e del tuo amore immutato, e quando tu sei al massimo debole e tutti ti calpestano come un verme, allora tu sei l’eroe e hai calpestato il serpente. Che cosa è poi vuoto? Che cosa è poi pieno? Quale dei due è il mancare? Se tu sei vuoto e hai sete di pieno, allora siamo noi, la chiesa, la tua pienezza. Se tu sei pieno e sei bramoso di venir scaricato, come una nutrice con il petto traboccante che le fa male: anche allora siamo noi, la chiesa, la tua pienezza. Tuttavia sempre sei tu la pienezza, e noi la vuotezza, sempre, anche quando tu sei sfinito e dilavato, riceviamo noi tutti dalla tua pienezza grazia su grazia. La tua chiesa è solo il tuo calice, solo il tuo organo. Tu sei la fontana traboccante che scorre; e anche se zampilla da noi una sorgente fino alla vita eterna, allora è questa pure la bevanda che tu ci hai dato, poiché da te sgorgano fonti di acqua viva. E quando tu vai per il mondo come un essere povero e grigio, avvolto nel vestito degli umili e diseredati, ti nascondi dietro peccatori e pubblicani, e noi, dispersi, compiamo su di te le opere della misericordia, anche allora tu solo sei colui che dona e che rende possibile in noi l’amore di dentro e di fuori.

Tu rimani solo. Tu sei tutto in tutto. Anche quando il tuo amore vuole noi per svolgersi nell’unità di due e per celebrare il mistero della generazione e del grembo, allora è pur sempre TUO l’amore sia di qua che di là; l’amore che là dà e viene dato, seme a un tempo e grembo, e il bambino che vi si partorisce sei tu un’altra volta. Quando l’amore ha bisogno di due piedi per camminare, allora chi va è Uno solo, e questo sei tu. E quando l’amore ha bisogno di due amanti, di uno che ama e che viene amato, l’amore è pur sempre uno solo, questo sei tu.

Tutto ha relazione al tuo cuore che batte. Il tempo e la durata martellano ancora e creano, e con colpi grandi e dolorosi spingono avanti il mondo e il suo divenire. È l’impazienza dell’orologio, e impaziente è il tuo cuore finché noi non riposiamo in te, e tempo ed eternità sprofondano l’uno nell’altra. Ma: state calmi, io ho vinto il mondo. Il tormento del peccato è già affondato nella calma dell’amore. Più oscuro è diventato per questo, più fiammeggiante e ardente, causa l’esperienza di ciò che è il mondo. Ma l’abisso più futile della rivolta è inghiottito dall’insondabile misericordia, e coi suoi colpi maestosi regna tranquillo il cuore divino.

 

[1] Runa significa ciascun segno grafico dell’antica scrittura germanica. (ndt)

Hans Urs Von Balthasar

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