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Volto di Cristo, segnato dal dolore (9° puntata)

Il Cristo appeso alla croce presiede gran parte della nostra vita personale, comunitaria, liturgica e anche civile. Lo si è convertito persino in una “moda” o in un “talismano” che si appende al collo o all'orecchio... È, quindi, il volto di Cristo che con ogni probabilità vedono più frequentemente i cristiani oggi. Come tali, e a differenza di altri, siamo invitati a fissare uno sguardo di fede anche sul suo volto profondamente segnato dalla sofferenza e dalla morte.


Volto di Cristo, segnato dal dolore (9° puntata)

da Teologo Borèl

del 29 aprile 2005

 

Problematiche suscitate dalla morte di Ges√π in croce

 

Non pochi cultori di altre religioni e di altre fedi fanno fatica a capire come si possa comporre la figliolanza divina di Ges√π, professata dai cristiani, con la fine disastrosa che ha segnato la sua esistenza terrena. Spesso la ritengono un assurdo incomprensibile.

La problematica non è nuova. Già Paolo scriveva ai suoi giorni che “Cristo crocifisso, [era] scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1 Cor 1,23). Ma anche all’interno della stessa chiesa degli inizi è stata vivamente sentita. I primi cristiani, particolarmente quelli proveniente dal giudaismo, trovavano difficoltà ad accettare “la parola della croce” (1 Cor 1,18).

Infatti, non pochi  in Israele aspettavano un messia glorioso e potente che avrebbe instaurato con la forza la sovranità di Dio sul popolo e sul mondo intero, sconfiggendo tutti i suoi nemici. Numerosi testi dell’Antico Testamento nutrivano tali attese, benché non mancassero altri, come il quarto canto del Servo di JHWH (Is 52-53), o il misterioso oracolo del profeta Zaccaria (Zc 13,6-7), o certi salmi (Sal 2,2; 109,2-4; 118,22; ecc.), che orientavano nella direzione opposta.

Ora, anche se già prima della risurrezione i discepoli sembrano aver intravisto l’identità messianica di Gesù (Mt 16,16; Mc 8,29; Lc 9,20; ecc.), in realtà fu solo a partire da essa, e grazie ad essa, che cominciarono ad annunciarlo apertamente come messia (At 2,36; 3,17; ecc.). Tale affermazione poneva un serio interrogativo a coloro che avevano nutrito la loro speranza in un messia potente e glorioso: come era possibile che Gesù fosse il messia atteso se era morto nella massima debolezza e impotenza, nell’ignominia così umiliante della croce? Si dovettero perciò impegnare per trovarne il senso. E lo fecero ricorrendo soprattutto all’Antico Testamento. Le tracce dei loro tentativi si possono ritrovare, secondo gli studiosi, nei diversi scritti neotestamentari. 

In alcuni di essi si asserisce che Gesù morì sulla croce perché, in fondo, ogni profeta, secondo una convinzione largamente diffusa in Israele, aveva pagato con la vita la propria testimonianza (Lc 6,22; 11,49-59), ed egli, il Profeta per eccellenza degli ultimi tempi (Mt 21,11; Gv 6,14; 7,14), non poteva fare eccezione. In altri, perché il Giusto per eccellenza (At 3,14; 7,52; 22,14) impersonato da Gesù doveva subire, e in forma ancora molto più intensa, le sofferenze e le persecuzioni che dovettero sopportare tutti i giusti che precedentemente avevano voluto mantenersi fedeli a Dio. In altri ancora, ci si appella al misterioso disegno di Dio che implicava una conclusione simile della sua vicenda: “era necessario” è la formula usata da questa risposta per esprimere tale modo di vedere le cose (Lc 17,25; 24, 7.26; At 1,16; 2,23). Infine, una quarta e ultima interpretazione mette in rapporto la morte di Gesù con la figura del Servo sofferente di Is 52-53, vedendo in essa il Gesù-servo consegnatosi al sacrificio per il perdono dei peccati del suo popolo e dell’intera umanità (Mc 15,28; At 8,32).

Il valore di queste interpretazioni è relativo, nel senso che nessuna di esse può pretendere l’esclusività, dal momento che esistono anche le altre, le quali appartengono pure al deposito della fede. Ciò spiega il fatto che, col passare del tempo, ne siano andate nascendo delle altre nella comunità credente.

Fra esse, alcune sono riuscite a gettare profonde radici nella fede del popolo cristiano, e vi sono tuttora presenti. Soprattutto quelle che si connettono pi√π direttamente alle due ultime appena ricordate.

Anzitutto, quella che interpreta la passione e la morte di Gesù mediante il modello del sacrificio espiatorio, e pensa che egli morì in croce per espiare il peccato dell’umanità, placando così l’ira di Dio provocata dall’offesa dell’uomo; poi, quella che utilizza il modello della redenzione e del riscatto, e pensa che Gesù fu, secondo l’espressione di Is 53,10, “stritolato per i nostri peccati”, e in questo modo liberò l’uomo dalla condanna che pesava su di lui a causa del suo peccato; infine, una terza, molto diffusa specialmente nell’ambiente protestante, che utilizza il modello della soddisfazione sostitutiva o vicaria, e pensa, appellandosi ad un’altra espressione dello stesso cantico di Isaia, che “grazie alle sue sofferenze noi siamo stati salvati” (Is 53,5), ossia che egli soffrì al posto dell’umanità il castigo che essa si meritava per i suoi peccati, e caricò sulle sue spalle il peso del peccato dell’umanità intera. È, così, l’agnello che porta su di sé il peccato del mondo.

Oggi tutto ciò è in revisione. Molti cristiani non si ritrovano più in questo modo di interpretare le cose, e la teologia ha iniziato a rivederlo.

 

Le cause storiche della morte di Ges√π in croce

 

Tra l’altro, un nuovo approccio alla figura di Gesù Cristo, quello che viene identificato come una “cristologia dal basso” perché preferisce partire non dal Verbo eterno che si fa carne, come faceva la teologia di altri tempi, ma dall’uomo Gesù di Nazaret, ha chiamato l’attenzione sull’importanza di non “saltare” le cause storiche della morte di Gesù per capirne il senso. Sostiene che le formule “per la nostra salvezza”, “per i nostri peccati”, e altre simili con cui si rispondeva alla domanda sulle cause della sua passione e morte, valide in sé, corrono il rischio di dimenticare la vicenda storica di Gesù e l’importanza che essa ha per capire la sua identità.

È importante, anzi indispensabile, si afferma, ritornare a considerare il comportamento di Gesù nel suo impegno per il Regno come quadro di riferimento che dà senso alla sua passione e alla sua morte.

In base ai dati abbondantemente forniti dai vangeli, bisogna dire che Gesù morì in croce – fu quindi giustiziato! – perché ciò che andava proclamando come messaggio divino si scontrò con le posizioni di coloro che non la vollero accogliere.

Come si è avuto occasione di vedere in articoli precedenti, il suo modo di concepire il regno di Dio era diverso da quello di tutti gli altri gruppi religiosi di Israele. Egli proponeva un ribaltamento radicale di tutto ciò che si opponeva alla possibilità di vita vera e piena per tutti, a cominciare dai più privi di essa, e ciò implicava necessariamente un nuovo ordinamento della convivenza ad ogni livello. Per questo denunciò e combatté tenacemente e con grande coraggio atteggiamenti, rapporti e strutture che si opponevano ad esso.

Combatté, anzitutto, un certo modo legalista di rapportarsi con Dio che faceva dell’uomo uno schiavo e non un figlio. Egli diede chiari segni di non poter sopportare che il rapporto con quel Dio che invocava come “abbà”, potesse essere vissuto nel timore e nella legalità. E soprattutto che una tale religiosità venisse imposta ad altri, riducendoli a schiavi viventi nella paura, stanchi e oppressi dal giogo della legge (cf Mt 11,28-30). È questa  una delle cause storiche della sua morte violenta. Coloro ai quali davano fastidio e perfino incutevano paura il suo modo di concepire il rapporto con Dio e la sua critica a tutto il sistema religioso che su di esso poggiava, decisero di neutralizzare la sua azione eliminandolo dal popolo. Capirono che o lo lasciavano andare avanti con la sua proposta, e allora avrebbero dovuto cambiare radicalmente tante cose nel modo di vivere religiosamente, o lo bloccavano perché ciò non avvenisse. E scelsero questa seconda alternativa.

Gesù contestò, inoltre, il sistema di purità legale vigente ai suoi giorni, un sistema che spaccava il mondo in due: persone, animali e cose pure, e persone, animali e cose impure. Una divisione a sfondo religioso, ma che aveva poi delle ricadute sociali molto notevoli. Egli non solo non vi si sottopose, ma lo trasgredì consapevolmente quando andavano di mezzo il bene, la felicità e la vita di qualcuno (Mc 1,40-41; 5,25-34.41; ecc.). E ciò non poteva non scatenare le ire di coloro che a questa legge ci tenevano con estremo zelo. Anche da questo punto di vista, se la condotta di Gesù arrivava a diffondersi, tante cose si sarebbero dovute cambiare nella convivenza d’Israele. E non solo nella convivenza interna, ma anche in quella dei giudei con coloro che non lo erano. Perché lo schema della purità legale si applicava anche globalmente al rapporto tra il popolo giudeo e il resto degli uomini e donne. I “pagani”, infatti, venivano considerati globalmente e con disprezzo come esseri impuri da evitare (At 10,28).

C’erano poi i conflitti globali che attraversavano l’intera convivenza sociale, già ricordati anteriormente. Quelli esistenti tra i giusti e i peccatori, tra i ricchi e potenti e i poveri, tra gli uomini e le donne. Gesù contestò, tanto con le parole quanto soprattutto con la sua condotta e i suoi atti, tutte le forme di emarginazione da essi create. Le sue opzioni davanti a questi conflitti lasciavano chiaramente intravedere, a chi le guardava con un minimo d’intelligenza, che egli proponeva una società organizzata esattamente al rovescio di come era allora organizzata. Non quindi i deboli e piccoli esclusi ed emarginati, per di più schiacciati dai forti e dai potenti, ma al contrario destinatari di attenzione preferenziale. Ora ciò comportava necessariamente una perdita della situazione di privilegio da parte dei vincenti in questi conflitti. Essi, se volevano stare alle proposte di Gesù, dovevano fare come Zaccheo (Lc 19,1-11): rinunciare ai loro ingiusti vantaggi e convertirsi alla vera e reale fraternità. Ma, da quel che si può cogliere nei vangeli, pochi erano disposti a farlo. Piuttosto si indurirono nella difesa dei loro interessi, e decisero di eliminare colui che sovvertiva le cose. Di sovversione, infatti, lo accusarono davanti al tribunale, esigendo la sua morte (Lc 23,2).

Un’ultima situazione contraddittoria denunciata da Gesù fu quella che coinvolgeva il Tempio. Quel luogo sacro sul monte di Sion era stato per secoli il cuore pulsante della vita del popolo, perché era ritenuto la dimora del Dio che aveva strappato Israele dalla schiavitù d’Egitto e lo aveva portato a possedere la terra della promessa. Ai tempi di Gesù era gestito dalle famiglie dei sommi sacerdoti, i quali lo avevano convertito in uno strumento di arricchimento. Così, la casa di Dio si era convertita in un “covo di briganti” (Mc 11,17). Si può capire la reazione sdegnata di Gesù davanti a tale situazione. Tutti e quattro gli evangelisti, benché ognuno a modo suo, raccontano l’episodio del suo intervento (Mt 21,12-16; Mc 11,15-18; Lc 19,45-46; Gv 2,13-16). Giovanni dice che egli “fece una frusta di cordicelle, e scacciò tutti dal tempio” (Gv 2,15). Lo zelo per la casa di suo Padre lo spinse ad una tale azione (Gv 2,17). L’intervento però gli attirò le ire dei capi religiosi del popolo, che decisero di farlo morire (Mc 11,18). Era un uomo pericoloso. Con le sue critiche al sistema religioso instaurato nel Tempio poteva produrre un ribaltamento della situazione. Tanto più che la folla lo ammirava. Si rendeva quindi necessaria la sua eliminazione. E questa fu decretata.

Sono questi i principali motivi storici che portarono Gesù al patibolo della croce. Infatti, stando sempre a quanto dicono i vangeli, il primo capo d’accusa che gli venne imputato durante il processo giudiziale davanti al Sinedrio fu quello di aver parlato contro il Tempio  (Mt 26,60-61; Mc 14,58); il secondo, invece, davanti al tribunale romano, quello poco sopra ricordato di “sovvertire il popolo” (Lc 23,2). Sono, come si vede, motivi strettamente legati alla sua attività per il regno di Dio, da una parte, e alle reazioni di certi gruppi nei suoi confronti, dall’altra.

La croce di Gesù non è quindi espressione di quella fatalità divina che erroneamente pensano alcuni cristiani. Non è neppure qualcosa che non abbia uno stretto legame con tutto ciò che egli fece precedentemente. È invece l’apice di una esistenza vissuta per il regno di Dio. Perciò è la massima manifestazione del suo amore per la vita in pienezza degli uomini, e anche la massima espressione del suo amore verso il Padre.

 

L’obbedienza di Gesù fino alla croce

 

È anche in questa cornice che va intesa l’obbedienza di Gesù, di cui parlano diversi testi del Nuovo Testamento (Gv 4,34; 8,29; Fl 2,6-8; Eb 5,8...).

Un modo abbastanza diffuso tra i cristiani intende l’obbedienza di Gesù a Dio come il suo fare (eseguire, adempiere) la volontà di Colui che lo ha inviato. In ciò segue indubbiamente i testi ricordati. Solo che li interpreta secondo una certa linea apocalittica, stando alla quale Dio ha in cielo un piano deciso anche nei minimi dettagli sin dall’eternità sulle persone e sulla storia, e ai suoi fedeli corrisponde il compito di scoprire quale sia il suo volere momento per momento per eseguirlo sulla terra. Oppure, peggio ancora, li interpreta in quella forma tipica di quegli islamici che davanti a quanto accadde reagiscono dicendo: “Era scritto”.

I vangeli, letti i profondità, portano a capire in un altro modo l’obbedienza di Gesù. Essa consistette nel vivere una totale adesione alla volontà di Dio, ma non da esecutore passivo di un qualcosa deciso da Lui in maniera ineluttabile, bensì come corresponsabile del suo grande Progetto in favore del mondo.

Gesù ha scoperto l’unica grande volontà del Padre suo, quella di rendere viventi, pienamente viventi, tutti e ognuno dei suoi figli, e l’ha abbracciata con passione incontenibile, facendola totalmente e creativamente sua, e cercando in tutti i modi di attuarla. Anche a rischio della sua vita: “Si è fatto ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce”, dice l’inno di Fl 2,4-8. A questo grande sogno del Padre, diventato anche totalmente suo, ha sacrificato anche la propria vita.

Il volto di Gesù in croce è, quindi, il volto di chi ha sofferto fecondamente per la vita del mondo. È già in realtà, perciò, il volto pieno di luce che si manifesterà nella sua risurrezione.

 

  

Articolo tratto da: NOTE DI PASTORALE GIOVANILE. Proposte per la maturazione umana e cristiana dei ragazzi e dei giovani, a cura del Centro Salesiano Pastorale Giovanile - Roma.

Luis A. Gallo

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