Una lettera da commentare in famiglia

La lettera di Antonio, in regime di semilibertà, dopo oltre vent'anni anni passati dietro le sbarre. Vi era entrato con una condanna di pochi anni, quando ne aveva 19 e ne usciva a 44 anni. Aveva quattordici anni quando l'ha scritta, rivolgendosi alla mamma, che se n'era andata da casa, lasciandolo solo

Una lettera da commentare in famiglia

da L'autore

del 09 gennaio 2008

Lo scrittore francese Bernanos amava spesso scrivere i suoi articoli o romanzi, stando seduto ad un tavolino in un bar: gli sembrava di respirare il mondo delle persone, degli avvenimenti, che diventavano protagonisti delle sue storie. Si incarnava in loro, non era solo osservatore degli avvenimenti, il suo non era lo sguardo disincantato dai personaggi che rappresentava con arte drammatica. Non erano creazione della sua fantasia, nascevano dalla vita stessa, che cercava di descrivere con verità.

Non sono Bernanos e neppure un acuto studioso dei problemi giovanili, ma quando mi metto al computer per scrivere i miei commenti, mi sento quasi sommerso dalle esperienze dei ragazzi tra i quali vivo da sempre.

Domenica, festeggiando il cinquantesimo del Centro Salesiano di Arese, ho incontrato ragazzi che avevo conosciuto anni fa, ora padri di famiglia contenti. Venivano alla festa per dirti grazie, con la loro presenza, delle fatiche educative di quando erano adolescenti ribelli, devianti e tu per loro eri l’adulto, che li privava della libertà ed esigevi un cambio che non capivano, perché sulla strada loro stavano bene.

Tra i molti, uno, che aveva conosciuto i giorni amari del carcere: Antonio, in regime di semilibertà, dopo oltre vent’anni anni passati dietro le sbarre. Vi era entrato con una condanna di pochi anni, quando ne aveva 19 e ne usciva a 44 anni.

Mi ha chiesto un libro di Arese, Teatro, fattore di comunione, dove nel dramma La gabbia di Luigi Melesi, cappellano del carcere di San Vittore, c’era una sua lettera. Ve la trascrivo, lasciando a voi il commento, magari in casa, con i vostri figli. Aveva quattordici anni, quando Antonio l’ha scritta, rivolgendosi alla mamma, che se n’era andata da casa, lasciandolo solo:

«Cara mamma, io ti scrivo perché ti voglio tanto bene, anche se tu ci hai abbandonato. So però che tu tornerai a casa, che io pregherò sempre per te. Se tu torni a casa, noi tutti faremo una gran festa... Io sono sempre arrabbiato con tutti. Tutta la mia vita è servita a niente, e non servirà niente anche nel futuro, e a nessuno, perché io lo so, io sono un ragazzo che non sa amare, perché non sono mai stato amato da... nessuno. Vorrei tanto avere una bella famiglia, una casa, dei figli, ma so che non avrò mai tutto ciò. Mamma, torna a casa, senza di te la casa è vuota, anzi è come l’inferno perché non ci si vuole bene...».

La mamma non è tornata, Antonio si è fatto bocciare apposta agli esami di Licenza Media, consegnando i fogli in bianco e rifiutandosi di rispondere agli orali, pur essendo ben preparato.

L’ho rivisto 32 anni dopo, in cerca di un lavoro, impossibile da trovare per uno come lui, che «non è nato in carcere» come recita il titolo di un suo libro di poesie, ma è come se lo fosse, non trovando chi è disposto a ridargli fiducia, una speranza, una famiglia. Una donna oggi l’ha incontrata e una bimba down... ma se non trova lavoro, l’aspetta ancora una volta il carcere, essendo, ancora una volta (!), «in prova».

Da: Vittorio Chiari, Un giorno di 5 minuti. Un educatore legge il quotidiano

don Vittorio Chiari

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