Intervento di don Eugenio Riva, ispettore del nord-est, al 'MEETING MGS Triennio e oltre' a Mestre: -Vorrei raccontarvi una storia vera, non una favola. Quello che vi narro è veramente capitato al popolo di Israele più di 500 anni prima di Cristo...-
del 17 settembre 2007
Carissimi Giovani,
                                   vorrei raccontarvi una storia vera, non una favola. Quello che vi narro è veramente capitato al popolo di Israele più di 500 anni prima di Cristo.
            Il popolo di Israele si trovava in esilio a Babilonia. Era un gruppo piccolo, povero, miserabile e insignificante. Il potente re Nabucodonosor, nel 586, li aveva sradicati dalla terra di Giuda e li aveva deportati nella terra di Babilonia. Il profeta Geremia ci parla di circa 4.600 persone (cf Ger 52,28-30). Il tempio di Gerusalemme era stato distrutto, la dinastia del re Davide era terminata e il popolo si era quasi convinto che era terminata anche l’opera di Dio a favore di Israele. Vincitori erano gli dèi di Babilonia. La fede antica si era raffreddata e molti si erano rivolti ai culti pagani degli stranieri vincitori.
            C’è un detto dei Chassidim - un movimento ebraico che ebbe origine nell’Europa orientale intorno alla metà del 1700 -, che narra: «Fu chiesto al Rabbi di Kozk: “Non è già detto espressamente nei Dieci Comandamenti: “Non avere altri dei?”». Egli rispose: «Il senso è: Dio non deve essere presso di te uno straniero» (M. Buber, I racconti dei Chassidim, Milano 1985, p. 606). Dio era diventato per il popolo di Israele uno straniero. E questa è la tentazione che prende anche noi quando dimentichiamo di essere figli di un Padre buono e andiamo alla ricerca di un significato della vita senza ricordarci del Suo amore, dimenticando che è Lui che tesse la trama della nostra esistenza. A volte ci domandiamo: «Ma dove abita Dio»? Il mondo di oggi ha perso l’orientamento e sembra che sia persa la mappa per ritrovarne il «luogo». Ci siamo dimenticati di una verità elementare: «Dio abita dove lo si fa entrare» (Ib., p. 605).
            È in questa stato di desolazione che Dio riprende a parlare al suo popolo. Un popolo che ha dimenticato il suo Dio e si è rivelato cieco (cf Is 42,19), non attento (cf Is 42,20); non è stato fedele al piano del Signore (cf Is 42,21); è caduto nel peccato e nella disobbedienza (cf Is 42,19); si è dimostrato spiritualmente insensibile (cf Is 42,25). Il castigo dell’esilio non è bastato a risvegliare la coscienza del popolo di Israele e a preparare il terreno per il ritorno in patria.
            L’unica consolazione del popolo, rimasto senza il tempio di Gerusalemme e senza la possibilità di offrire un culto a Dio è la parola di Dio annunciata dal profeta, il secondo Isaia. Ma sono timorosi. Temono un giudizio severo di Dio per la loro infedeltà.
            Ma Dio parla al suo popolo e gli annuncia invece un messaggio di salvezza: apre una speranza per il futuro e promette che sarà liberato dalla schiavitù e ritornerà a Gerusalemme, nella sua patria. Sono belle le parole del secondo Isaia: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni» (Is 43,1).
            «Ti ho creato», «ti ho plasmato», «ti ho riscattato», «ti ho chiamato per nome», «tu mi appartieni» (Is 43,1), «Io sono il Signore tuo Dio» (Is 43,3), «io sono con te» (Is 43,5). Dio è il «redentore» (go’el). Nell’antichità quanto un parente era ridotto in prigione o in schiavitù per debiti, il capofamiglia trattava per la liberazione e pagava il prezzo del riscatto. Un gruppo piccolo, povero, miserabile ed insignificante di uomini sradicati dal proprio suolo è raggiunto dalla promessa. Io, dice Dio al suo popolo, sono colui che ti riscatta, il tuo liberatore. Io ho pagato «il prezzo del tuo riscatto» (Is 43,3). Ho venduto persino delle nazioni, l’Egitto, l’Etiopia e Seba, per riscattarti. Tu, proprio tu, - dice Dio - sei l’oggetto del mio amore; tu, così come sei, sei per me prezioso e pregiato: «Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo» (Is 43,4). Dio è fedele e mantiene il suo popolo come suo tesoro personale, un tesoro prezioso, e non gli toglie la dignità di essere suo popolo, anzi, lo stima.
            Nel linguaggio giuridico dei popoli antichi l’espressione «tu sei mio», era una formula legale con la quale qualcuno si dichiarava proprietario di qualcosa o di qualcuno. Dio ripete a ciascuno di noi: «Tu mi appartieni» (Is 43,3), tu sei mio. Sono io che ti ho creato e ti ho plasmato; sono io che ti ho salvato: Io sono entrato in una relazione personale con te, ti ho amato di un amore fedele ed eterno. Io ti ho insegnato la via della vita, Io ti ho liberato dai pericoli del deserto e della solitudine, Io ti aiuto a superare i pericoli della vita, Io ti sono accanto anche quando tu non mi consideri e mi sei infedele, Io ti seguo anche quando tu ti allontani e fuggi da me. Dio è un papà di famiglia e ci riconosce tutti come suoi figli, così come ci troviamo davanti a lui: ci ama e ci stima. Questa è la fonte della nostra dignità di persone. Dio ci educa così: con il suo amore e la bontà dei suoi gesti di fedeltà e di misericordia.
            Nei racconti dei Chassidim si narra il seguente apoftegma: «Rabbi Schlomo disse: “Qual è la cosa peggiore che possa compiere l’Istinto del Male?”. E rispose: “Che l’uomo dimentichi di essere figlio di re”» (Ib., p. 327). Siamo figli di un Re che ha inviato Suo Figlio, il quale ha dato la vita per noi e che sulla croce ha rivelato tutta la stima che il padre che è nei cieli ha per ciascuno di noi: «Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo» (Is 43,4).
 
 
don Eugenio Riva
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