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Se la fede va in campo...

La segreteria telefonica di Kakà: «Lasciate un messaggio dopo il bip, che il Signore vi benedica». Icone, volti di Gesù, s'è visto di tutto, ma niente ha fatto scalpore come i 39 brasiliani inginocchiati mano nella mano sotto la pioggia di Yokohama il 31 giugno del 2002...


Se la fede va in campo...

da Attualità

del 17 marzo 2005

 Un giorno di qualche anno fa ad Appiano Gentile, Marcello Lippi, allora allenatore dell’Inter, durante una partitella, si ritrovò il giocatore nigeriano Taribo West con le treccine al vento davanti al portiere avversario. Fermò il gioco. «Non ti avevo detto di stare in difesa?». «Mi scusi, ma Dio mi ha ordinato di giocare all’attacco». «Non mi risulta di aver mai parlato con te»: così Lippi troncò la discussione. Taribo, per non sbagliare più interlocutore, ora fa il predicatore. All’Inter, dopo il caso della maglia evangelica di Adriano, è evidente la particolare attenzione per il senso religioso.

 

Chi è Dio? La prima domanda del catechismo dovrebbe essere posta un po’ a tutti, da quelli che si bevono il «Codice da Vinci» immemori di quanto imparato da ragazzi e anche a quelli che citano le lettere di San Paolo sulla maglietta della salute. A questa categoria appartengono specialmente i calciatori brasiliani. Certo, anche Luciano Moggi, Beppe Signori e tanti altri indigeni hanno la loro forte devozione a Padre Pio, ad esempio, ma, non mostrando la canotta in mondovisione, fanno meno notizia. Bisogna farsi vedere, come Giovanni Trapattoni, con l’Acqua Santa della sorella suora in panchina. Ogni tanto si parla della Fede di Demetrio Albertini, ex centrocampista del Milan, ora al Barcellona, che ha un fratello prete e che convinse i suoi compagni di squadra a non bestemmiare. Fu una bella iniziativa.

 

Non è facile trattenersi al giorno d’oggi, tanto più che non è più in circolazione l’arbitro Menegali quello che, il 12 ottobre 1975, a un minuto dalla fine di Como-Juve (2-1 per la squadra di casa) fischiò una punizione dal limite a favore dei bianconeri per un bestemmione di Correnti. Tiro deviato da Fontolan, autorete: 2-2. Se ne discusse a lungo. E non senza tirare in ballo nuovamente il Padreterno. Il calciatore di Fede non è nato ieri. Amoroso, ex Udinese e Parma, era più diretto: «Grazie Dio», stampò sulla maglia. Meno complicato di Adriano Leite Ribeiro, che ha citato un versetto di San Paolo (Filippesi, 4,13). Cosa c’è sotto? Un omaggio al padre morto, un messaggio contro chi lo ha criticato? La solita dietrologia nostrana. Per Adriano, appartenente alla Chiesa Evangelica, semplicemente una preghiera a Dio. E basta. Adriano è solo l’ultimo dei calciatori che offre la sua Fede su un campo di calcio. A noi, che tacciamo di integralista chi s’azzarda a uscire dalla sacrestia, la cosa ha sempre creato una specie di morboso interesse. Non siamo abituati al calciatore credente, piuttosto a quello miscredente che usa la religione per giustificare la furbata, come Maradona dopo il gol malandrino all’Inghilterra (Messico ’86): «È la mano di Dio».

 

Icone, volti di Gesù, s’è visto di tutto, ma niente ha fatto scalpore come i 39 brasiliani inginocchiati mano nella mano sotto la pioggia di Yokohama il 31 giugno del 2002, dopo la conquista della «Penta», la quinta Coppa del Mondo. Sparite le casacche verde oro, restarono le t-shirt religiose. Scritte diverse, un solo tema: «100% Jesus», «I love Jesus». Ancora: al polso avevano un braccialetto con tre nodi di Nossa Sehnora do Bomfim di Bahia. Un nodo, un desiderio: vietato toccarli, se si sciolgono da soli i desideri si avverano. Inzuppati ma felici, con dirigenti, maestranze, dirigenti, ringraziarono per il successo Dio e i molteplici santi brasiliani, tra cui San Expedito che è il patrono da invocare quando c’è da ottenere una grazia in fretta. Adriano legge la Bibbia con Ze Maria. Amarildo, il primo brasiliano «atleta di Cristo» la regalava come un gagliardetto al suo avversario prima di entrare in campo. Anche l’argentino Chamot donò le Sacre Scritture a tutti i colleghi del Milan. Come un ex voto, Francesco Totti ha lasciato la famosa maglia dello «sputo» (Italia-Danimarca, Europei 2004) alla chiesa romana del Divino Amore. Non ci sono solo i cattolici. Roberto Baggio, buddista della Soka Gakkai, aveva una fascia di capitano con i colori e alcuni versetti della sua religione.

 

E Hakan Sukur, turco, ex di Torino, Inter e Parma, non mancava di recitare le sue preghiere rivolto alla Mecca sotto gli occhi dell’esterrefatto compagno di camera. Sulla segreteria telefonica di Ricardo Izeczon dos Santos Leite, per il calcio Kakà, nessuno ha nulla da dire: «Parla Ricardo, lasciate il messaggio dopo il segnale acustico, che Dio vi benedica». Però non piace ai vertici del calcio internazionale quando lo stesso Kakà indossa una maglietta, come quella per lo scudetto 2004 del Milan: «Io appartengo a Gesù». Insomma la Fede, per i dirigenti della Fifa, è un fatto privato, da non ostentare, almeno in manifestazioni importanti come il Mondiale, dove la concentrazione va mantenuta su bibite, automobili e altri sponsor. Nel 2006 in Germania, vietate le maglie a tema e le preghiere sul campo, come quella, clamorosa, di Yokohama. «Nessuna propaganda religiosa». «Non fu esibizionismo, il nostro era solo un gesto spontaneo di ringraziamento» si giustificano i brasiliani. Dio ha capito, il colonnello Blatter no.

Roberto Perrone

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