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Rancore e l'uscita dalla comfort zone

Tarek Iurcich, in arte Rancore, raggiunge il grande pubblico grazie alla partecipazione al Festival di Sanremo nel 2019, duettando con Daniele Silvestri e Manuel Agnelli in “Argentovivo”. Da lì la consacrazione al grande pubblico, che sancisce definitivamente il suo ingresso nella cultura di massa...


RANCORE E L’USCITA DALLA COMFORT ZONE


di Giandomenico Odorisio

 


Tarek Iurcich, in arte Rancore, raggiunge il grande pubblico grazie alla partecipazione al Festival
di Sanremo nel 2019, duettando con Daniele Silvestri e Manuel Agnelli in “Argentovivo”. Da lì la
consacrazione al grande pubblico, che sancisce definitivamente il suo ingresso nella cultura di
massa (fino a che punto?) della scena dell’hip-hop italiano. Facciamoci aiutare da questo artista, e
non solo, per analizzare il concetto di comfort zone, nei suoi rischi e nella sua trasversalità…
Al secondo anno di università ormai inoltrato, si sa, è tempo di bilanci: rendimento universitario,
amicizie e relazioni, interessi, difficoltà sono tutti argomenti che si mettono sul piatto e che sono
oggetto di riflessione, di soddisfazione, di gratificazione, di tremende “bastonate” auto-inflitte e
non, di stimoli a fare di più nel proprio quotidiano, come uomo e come persona inserita nella
complessa trama di relazioni che è la collettività.

 


Eppure, se c’è una cosa che più delle altre mi rende sensibile e mi stuzzica provocandomi un
fastidio pari solo a quello delle zanzare in un giorno soleggiato e afoso d’estate, questa è senza
dubbio data dal concetto di comfort zone. Intendiamoci fin da subito sulla terminologia:
contrariamente alle numerose speculazioni che si possono fare incontrando questo termine, il mio
concetto di comfort zone è del tutto nitido e palesemente chiaro. Intendo dunque, con questa
espressione, quell’insieme di condizioni favorevoli e quotidiane grazie alle quali la persona si sente
protetta, coccolata e cullata, condizioni che spesso degenerano nella pigrizia e nella routine più
accidiosa che è causa dell’appiattimento generale della vita dell’uomo.
Giusto per fornire un’esemplificazione adatta al caso, scopro le carte della mia personale
esperienza: la mia comfort zone è stata, e uso il passato per quanto ancora faccia fatica ad uscirne,
la città dove vivo, dove quantitativamente passo la maggior parte del mio tempo e dove intesso,
ormai molto spesso senza rendermene conto, la mia trama di relazioni da anni. Il mio gruppo di
amici, le serate al pub, la partita della Juventus in compagnia, il mio ruolo sociale nel contesto in
cui sono chiamato a vivere, sono tutti aspetti che fanno parte appieno della mia concezione di
comfort zone.

 


Quando la comfort zone inizia ad essere pericolosamente controproducente? Ve lo spiego subito,
anche qui facendo fede alla mia personale esperienza, a scanso di fraintendimenti: io studio a
Venezia ormai da due anni e posso dire, con un grado di soddisfazione seppur ancora modesto, che
ho fatto nuove conoscenze che hanno ampliato i miei già limitati orizzonti di studente pendolare e
che mi hanno arricchito personalmente e culturalmente. Tuttavia, se devo analizzare l’arco di tempo
in cui queste relazioni sono nate e maturate, dovrei prendere in considerazione solo l’ultimo anno di
vita universitaria, facendo un bilancio negativo per quanto riguarda il primo anno. Bilancio negativo
che non può comprendere il rendimento universitario, inversamente proporzionale al grado di
insoddisfazione che pertiene l’ambito delle relazioni del mio primo anno cafoscarino.

 


E qui mi fermo, perlomeno momentaneamente, e tiro fuori Rancore dal cilindro, con il suo “rap
ermetico”, come lui stesso ama definirlo. Per la definizione stessa del termine “ermetismo”, il rap di
Tarek Iurcich aprirebbe la mente a molteplici interpretazioni alimentando la fantasia. Premetto che
difficilmente mi troverete in una posizione di accondiscendenza nell’ammissione dell’indecifrabilità
dell’ermetismo di qualsiasi genere, sia esso poetico o musicale. Con una buona dose di critica,
spesso anche autoriale, senza sottrarre al testo quel minimo di libera interpretazione che lo rende
originale, possiamo risalire con una dose bastevole di certezza al significato che il rapper o il poeta
(e spesso le due entità coincidono) attribuiscono alle parole.

 


Mi piace ascoltare, quando il tempo me lo permette, interi dischi a notte fonda, concentrato, con la
sola musica prodotta dalle cuffie ad alimentare il mio interesse per la qualità del suono e per le 
parole che torniscono testi spesso frivoli, mal riusciti, altre volte ricercati e profondi. Rancore,
invece, con il suo ermetismo che amo decifrare, non è né frivolo né mal riuscito. Proprio qualche
giorno fa, infatti, mi capita di conoscerlo più da vicino ascoltando il suo ultimo lavoro in studio,
uscito nel 2018, dal titolo Musica per bambini. Un titolo volutamente provocatorio che cela dietro
l’innocenza della fanciullezza un cocktail di brani dai testi difficili, aspri, spesse volte volutamente
stridenti, altre volte più melanconici, ma che hanno tutti come sostrato comune un’accurata, quasi
ossessiva, ricercatezza formale, anche laddove paiono più banali e dettati da una penna che si fa più
istintiva, apparentemente meno ricercata.
Il leitmotiv di una delle sue canzoni è la posizione di aperta contestazione nei confronti dei rapper
contemporanei che hanno come unico loro talento artistico quello di fare i soldi, cui fa da
contraltare la merda schifosissima, la pelle che mi pizzica, che sono elementi propri della vita di cui
il rapper vuole renderci partecipi, ovvero la propria, espressioni tratte dal testo di Depressissimo,
quarta traccia di Musica per bambini.

 


Potremmo dire, senza nemmeno troppa approssimazione, che Rancore, nei suoi testi, esce
dall’immaginario ameno della comfort zone musicale, evocato dal testo appetibile alla massa cui
segue la riscossione in denari della propria convenzionalità, per esplorare l’ignoto che parte
dall’analisi della propria interiorità e dalla pressante necessità di una comunicazione con chi lo
ascolta. Niente soldi facili, dunque, nei testi di Rancore, nessun talento artistico volto a fatturare
cifre impossibili per chiudere in positivo il bilancio artistico-musicale, ma tanta voglia di
comunicare, di suscitare domande e allo stesso tempo di indirizzare nelle risposte.
Una penna che è sinonimo di ricerca costante, di tensione verso l’altro e verso un qualcosa di più
che non può fermarsi alla felice quanto momentanea sensazione di chi cavalca l’onda del successo.
Questo per me è Rancore, questi per me sono i suoi testi.
Proprio quella tensione di cui abbiamo parlato si riscontra in un celebre passo della sopracitata

 

Depressissimo:


Io vado tutti i giorni in chiesa verso l’una e mezza,
l’orario che ricorda quelle suore in quella mensa.
In quelle ore è sempre vuota, io mi sento a casa
e Gesù Cristo è l’unico che mi fa compagnia.
Mi guarda, mi dice che la cosa è un po’ diversa,
il male si è vestito con due stracci di poesia.
Si leva il chiodo da una mano e mi fa una carezza,
poi mi dà uno schiaffo all’improvviso che mi spazza via […].

 

E ancora:
 

…di farsi le domande vere non si ha mai il coraggio […].

 

L’idea di un Gesù che non solo ci culla ma che è pronto alle volte a stimolarci con uno schiaffo,
svegliandoci dal torpore, è una delle immagini più belle e significative che mi porto dentro da
un’analisi accurata dei testi di Tarek.
Questa parentesi musicale mi serve per spiegare quanto discusso in partenza. Un eccellente bilancio
universitario, come nel mio caso fino all’anno scorso, può essere accompagnato da una scarsità di
risultati in termini relazionali.
Quando ci sentiamo padroni di tutto nel luogo dove ci esprimiamo al meglio (la città dove vivo nel
mio caso, il mondo dell’hip-hop in cui si fattura a suon di testi standard nel caso dei rapper di cui
parla Rancore), difficilmente possediamo quella caparbietà che ci spinge ad andare oltre, ad uscire
dai confini sicuri della nostra comfort zone per guardare in faccia veramente il mondo che si ha
davanti nella sua complessità.

 


L’anno scorso avevo tutto, e andava bene così. E’ stato il quantitativo delle perdite significative, in
termini relazionali, che mi ha smosso, e mi sta ancora smuovendo, dal torpore dato dalla comodità e
dal quotidiano, dall’idea che tutto debba essere dato per scontato.
Gesù si toglie il chiodo da una mano, ti dà uno schiaffo così forte che ti spazza via.
“Svegliati!”, sembrava che dicesse…

 

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