del 25 gennaio 2008
Se si vuoi educare, bisogna essere capaci di perdere la testa! Così scriveva don Lorenzo Milani poco prima di morire, a Nadia Neri: «Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche diecine di creature, troverai Dio come premio...».
Perdere la testa vale soprattutto nel lavoro con i preadolescenti, un termine che sa di astuzia lessicale, alla quale sono ricorsi gli studiosi per definire un’ età che non ha una sua qualificazione propria, tanto è di passaggio. In casa e fuori, i preadolescenti ci mettono alla prova. Incostanti, imprevedibili, superficiali, noiosi, dall’adulto si attendono fermezza e pazienza. Hanno bisogno di tempo e noi spesso non glielo diamo: li vogliamo già adulti, responsabili, maturi.
Le difficoltà aumentano perché non ci riconosciamo in loro: non sono come eravamo noi alla loro età. Ci sembrano così diversi per le esperienze che fanno, i linguaggi, i gusti, per la loro insaziabilità. Ma quello che più infastidisce gli educatori della fede, è la delusione che i ragazzi danno dopo la Cresima: scappano, quando dovrebbero rimanere, quando, in base alle cose dette, dovrebbero essere maggiormente motivati a frequentare la chiesa, il Signore, il gruppo.
Non tutti però se ne vanno: c’è chi rimane! Ma perché rimane? La domanda se la pone anche il cardinal Martini con un certo «stupore». La risposta che egli dà, richiama le stesse cause per le quali i ragazzi se ne vanno: la famiglia, il ragazzo, l’ambiente.
Se la famiglia ci tiene all’educazione completa dei figli, se ha fiducia nell’oratorio e nei gruppi ecclesiali; se l’ambiente oratoriano è ricco d’amicizia e di attenzione fraterna e paterna, se suscita un clima di creatività e di gioia; se il ragazzo e la ragazza hanno cominciato una vita spirituale seria, alimentata dalla preghiera e dai sacramenti, noi abbiamo una spiegazione ragionevole della perseveranza.
Si tratta di dare continuità a questi interventi, coinvolgendo la famiglia attraverso incontri, personali e di gruppo, una maggiore responsabilità nell’attuazione dei progetti educativi oratoriani o parrocchiali; rendendo l’ambiente sempre più ricco di proposte e di iniziative sostenendo il ragazzo nell’andare «controcorrente» con la presenza di adulti animatori, che lo seguano personalmente a tu per tu, con una azione capillare, personale.
 Martini propone addirittura che in «Itinerari educativi» ogni ragazzo o ragazza, nel periodo di preparazione alla Cresima, venga nominatamente affidato ad un educatore o ad una educatrice, responsabili della loro formazione.
Ritorna in gioco la figura dell’adulto-animatore, prete o laico che sia, al quale è chiesto di «perdere la testa» per i suoi ragazzi e ragazze.
L’adulto-animatore che deve sfogliare il vocabolario soffermandosi su alcuni verbi da coniugare in rapporto ai suoi preadolescenti: stare vicino, sentire, capire, cercare, compatire, attendere, scusare, ricominciare, sperare (verbi che vanno coniugati al presente, al passato e al futuro!). E rileggendo insieme alcuni sostantivi e aggettivi che formino una grammatica dell’educatore-animatore: bontà semplice e accogliente, amicizia serena ed esigente, interessamento cordiale e generoso. Questo metodo dell’evangelizzazione capillare, feriale richiede di certo un buon numero di animatori. Ma bisogna attuarlo perché le «decine di creature» che attendono stanno sempre più aumentando! E vogliono non solo la testa dell’educatore, ma anche il cuore, la vita. Proprio come hanno fatto con il Grande Educatore duemila anni fa.
Da: Vittorio Chiari, Un giorno di 5 minuti. Un educatore legge il quotidiano
don Vittorio Chiari
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