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Paradise now: essere grati per l'esistere, ogni giorno

Siamo perennemente affamati. Fame d'essere, per noi vuol dire: fame di tempo. E non è la cosa di cui siamo più avari, il nostro tempo? Tutti. Nessuno escluso, non abbiamo tempo da perdere. E tutti, però, ne siamo infinitamente prodighi...


Paradise now: essere grati per l’esistere, ogni giorno

da Teologo Borèl

del 22 luglio 2005

 C'è in un grande romanzo di Dostoevskij un morente che dice parole non dissimili da quelle che abbiamo citato di Emily Dickinson: «Mamma (…) non piangere: la vita è un paradiso, e tutti siamo in paradiso, ma non vogliamo riconoscerlo: che se avessimo volontà di riconoscerlo, domani stesso si instaurerebbe in tutto il mondo il paradiso». È Markel, che parla così: il fratello, morto poco più che bambino, dello Starec Zosima, la guida spirituale del giovane Aliosa Karamazov. Torna in mente Emily, che vedeva il cielo fra due case e un giardino, nella perfezione di ogni giorno. Questi cieli di cui ci parlano i santi e i poeti non sono senza l’offerta di sé - è della loro donata vita che il loro cielo risplende nella memoria di ognuno, è la loro accensione quieta che li fa risplendere anche per noi: la loro vita, che non ha tempo perché non può o non vuole avere futuro, e non vuole perché non ha progetto e non ha Io. Queste anime non hanno tempo in modo molto diverso da quello in cui non l’abbiamo noi, che di tempo siamo insieme così avari e così prodighi. La loro vita è presente - va a fondo, si approfondisce e si allarga immensamente nell’ora presente, così che in quella breve ora presente che fu la loro vita molti di loro hanno visto ciò che per gli altri è divenuto visibile solo nei decenni, nei mezzi secoli: chi legge oggi quello che Simone Weil scriveva negli anni Trenta su quello che sarebbe stato il periodo post-coloniale dei paesi magrebini può provare un brivido di sacro terrore, come avveniva di fronte ai profeti. Non stanno nel tempo, questi santi, perché vivono già sub specie aeterni, perché non scadono dal presente ma vi vanno a fondo.

Noi non abbiamo tempo in tutt’altro modo. Non perché non desideriamo nulla per noi e non abbiamo nulla da affermare, ma al contrario perché siamo perennemente affamati. Fame d’essere, per noi vuol dire: fame di tempo. E non è la cosa di cui siamo più avari, il nostro tempo? Tutti. Nessuno escluso, non abbiamo tempo da perdere. E tutti, però, ne siamo infinitamente prodighi. Tutti, con tristizia ed ira, ci lasciamo occupare - ad esempio dalla televisione quotidiana, dai quotidiani media, che 'burlano' così la nostra vita - direbbe Dante. La dissipano.

Un’antica tradizione riduce a superbia e cupidigia la radice di tutti i mali umani. La superbia è il delirio supremo - prendersi per Dio. Si capisce perché sia radice di tutti gli altri 'peccati', se 'peccato' è trasgressione di un ordine percepito come emanante da Dio, dalla sua legge: e perciò questa parola convoglia l’idea di un delirio, di un eccesso, di una dismisura che non siamo più abituati a cogliere nell’uso fiacco e invasivo di questa parola, che è teologica e metafisica, non etica. Ma la cupidigia? Se non è che l’espressione della nostra deficienza d’essere, della nostra costitutiva e insaziabile fame, perché è radice di peccato? Forse perché il poco di essere che abbiamo può essere vissuto in due modi: con gratitudine per quel poco, o al contrario con ingratitudine. 'Sconoscenza'. Ancora una volta Dante lo dice con memorabile concisione: (Inferno VII, 53-54): La sconoscente vita che i fé sozzi / Ad ogne conoscenza or li fa bruni. Sono gli avari e i prodighi, che si affrontano e si maledicono a vicenda, fissati per sempre nel loro delirio ossessivo, chiusi ad ogni rinnovata conoscenza dell’essere. Essi non hanno più presente: solo rimorso, rimpianto e angoscia. Alla base della nostra avarizia - avarizia di sé, avarizia di tempo - c’è la più sconoscente, ingrata, chiusura affettiva: il non accorgersi e non sapersi grati, semplicemente, dell’esistenza delle cose e degli altri presenti, il contrario di quello stare contenti praesentibus che la tradizione paolina identifica con i mores sine avaritia. E questa sconoscenza presto diventa vera e propria mancanza di discernimento, cecità dell’anima: deficienza del sentire. L’avaro è cieco e sordo, non ci sente più. C’è un gran buio nella sua anima, se ancora ne ha una. Non stupisce che ci sia anche molta tristizia: una sorta di nevrosi ansioso-depressiva. Anche questa, il male più comune che ci sia.

Avari e prodighi del tempo: anche di questa infelice condizione la stanchezza, anche suprema, è un indice, il riposo un possibile benché difficile rimedio. La filosofia comincia di domenica, amavo ripetere: ancora meglio comincia col primo giorno di vacanza.

Roberta De Monticelli

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