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Omelia per la spedizione missionaria salesiana 2005: «Abbiate in voi gli stessi ...

Oggi ci ricolleghiamo alla data del 11 novembre 1875, quando Don Bosco inviò la prima spedizione missionaria salesiana in Argentina, per questo nuovo invio di missionari salesiani. Sono passati 130 anni e la Congregazione è riuscita, con la grazia di Dio, ad inviare anno per anno...


Omelia per la spedizione missionaria salesiana 2005: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù»

da Rettor Maggiore

del 28 settembre 2005

Ci siamo radunati attorno all’altare per la celebrazione dell’Eucaristia in questo tempio di Don Bosco, bello e attraente, dominato dall’imponente figura di Gesù Risorto che ascende al cielo, dopo aver benedetto i suoi discepoli e averli inviati come suoi testimoni in tutto il mondo, con il comando di ammaestrare tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo, ed insegnando loro tutto ciò che Egli stesso ha insegnato, assicurando loro: “Ecco, sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (cf. Le 24,51; Mt 28,19-20).

Anche se la scelta del Colle per la nuova spedizione missionaria ha obbedito al bisogno di cercare un posto alternativo alla Basilica di Maria Ausiliatrice, sede normale di questo evento, attualmente in fase di restauro, non potrei immaginare un altro luogo pi√π adatto.

Oggi ci ricolleghiamo alla data del 11 novembre 1875, quando Don Bosco inviò la prima spedizione missionaria salesiana in Argentina, per questo nuovo invio di missionari salesiani. Sono passati 130 anni e la Congregazione è riuscita, con la grazia di Dio, ad inviare anno per anno confratelli e laici che realizzano la parola d’ordine e il programma del Signore Gesù, che fanno realtà il sogno di Don Bosco, che altro non è che quello di vedere i ragazzi di tutto il mondo trovare la loro pienezza di felicità e di vita in Dio.

Naturalmente la situazione odierna - sul versante sociale, politico, economico, culturale e religioso - è assai diversa di quella di 130 anni fa, e completamente differente di quella di 2000 anni fa. Tuttavia i bisogni del mondo sono gli stessi: un’esistenza umana degna per tutti gli uomini e le donne del mondo, il senso della vita e la voglia di una esistenza ricolma ed eterna. Si tratta di bisogni che solo Dio può soddisfare. “Non solo di pane vive l’uomo”, ricordava già il libro del Deuteronomio al popolo d’Israele, sempre tentato a trovare la sua felicità nelle cose materiali, senza dipendere da Dio e senza nessun impegno nei suoi riguardi.

La situazione mondiale oggi - con riferimento a quanto disse Giovanni Paolo II nel suo ultimo discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il 13 gennaio 2005 - si potrebbe riassumere in quattro parole che esprimono altrettanti bisogni esistenziali: pane, pace, vita e libertà. Mentre in alcuni contesti è urgente il pane materiale per sopravvivere, in altri c’è abbondanza di beni materiali e fame di affetto e di trascendenza. Mentre in alcuni paesi la popolazione gode della pace assicurata da una società fondata sul diritto, in altri invece i cittadini si trovano duramente provati dal flagello della guerra, della violenza, dell’ingiustizia e della mancanza di sicurezza. Mentre in alcune nazioni la vita è il dono più prezioso e lo si vede nelle numerose nascite di bambini e nelle popolazioni altamente giovanili, in altre la vita è regolato a piacimento dell’uomo e da lui minacciata dal momento della concezione, attraverso le politiche e le pratiche abortive, fino alla morte, con una tendenza a garantire persino la morte assistita. Mentre in alcuni luoghi c’è una mancanza di libertà sociale, in altri si ha di fatto una coartazione alla libertà religiosa.

Perciò tutto il mondo ha necessità di redenzione e salvezza, e questa è garantita solo in Gesù, che ci ha riscattato con il prezzo del suo sangue versato per noi perché abbiamo vita in abbondanza.

La parola di Dio, che una settimana fa ci aveva presentato il suo volere di salvare tutti, attraverso la parabola del padrone della vigna preoccupato di impiegare lavoratori che la curassero, quest’oggi ci offre degli spunti di riflessione e di incoraggiamento per approfondire quanto stiamo celebrando e per vivere fino in fondo la nostra vocazione di discepoli, testimoni del Risorto e missionari dei giovani.

Le tre parabole che vengono lette nei vangeli di questa e delle due domeniche successive, riguardano un unico tema: il rifiuto del popolo ebraico che non ha voluto ascoltare Gesù, e la sua sostituzione con i pagani. Ecco dove si trova appunto sia la nostra particolare condizione di essere stati beneficati con il dono della fede e di appartenere al nuovo Israele, al nuovo popolo di Dio, sia il fondamento della nostra missionarietà, che è quella di offrire ad altri la stessa elezione e benedizione che noi godiamo.

 

Nessuno è emarginato per Dio

 

La parabola dei due figli, che abbiamo appena ascoltata, giustifica l’orientamento che prende Cristo verso i «disprezzati», questa nuova categoria di poveri.

Gesù rivolge la parabola ai grandi sacerdoti e agli anziani del popolo, così come ne rivolge altre dello stesso tono ai farisei (Lc 18,9). Con queste parabole egli ribadisce la sua predilezione per i peccatori, per i disprezzati da coloro che si ritengono giusti. Egli giunge persino a dire che questi «poveri» sono più vicini alla salvezza dei benpensanti, che si ritengono giusti e amati da Dio perché compiono scrupolosamente tutti i dettami della Legge. E non si ferma soltanto alle parole: entra in casa di Zaccheo, si lascia lavare i piedi da una prostituta, sottrae l’adultera al linciaggio dei «puri». Questi «poveri» sono vicini alla salvezza perché la loro vita permette a Dio di manifestare la sua misericordia. La parabola si rivolge, dunque, a coloro che si chiudono alla Buona Novella, a coloro che non vogliono riconoscere l’identità di Dio in nome della propria giustizia e si sentono paghi della propria sufficienza.

 

La legge dello sporcarsi le mani

 

La fedeltà a Dio e la giustizia non si giudicano dal semplice dire «sì», o dai falsi privilegi o meriti che crediamo di possedere davanti a Dio, ma dai fatti. È questo che apre la porta del Regno dei cieli, secondo quanto dice lo stesso Gesù alla fine del Discorso della montagna: «Non chiunque mi dice “Signore, Signore” entrerà nel Regno dei cieli, ma colui cha fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).

Bisogna avere il coraggio di sporcarsi le mani e rischiare la faccia nella ricerca di nuovi valori più vicini alla libertà, all’amore, alla felicità dell’uomo. E’ sulle scelte operative che si giudica la vera appartenenza al popolo di Dio. Le parole, le ideologie possono ingannare, possono essere un’illusione o un paravento. La verità dell’uomo si scopre nelle sue opere. Esse sono inequivocabili. Solo qui l’uomo mostra ciò che veramente è. Comprendiamo allora quel detto di Gesù che provoca scandalo alle orecchie dei benpensanti di ieri e d’oggi: «In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio». Ufficialmente secondo le categorie religiose e i criteri morali esteriori dell’epoca, essi hanno detto «no», ma di fatto ciò che conta è la loro profonda disponibilità: la volontà di compiere, non a parole ma coi fatti, le opere di penitenza. Dio non ha deciso, in un dato momento della storia, di rigettare Israele e di adottare le nazioni pagane. È stato il comportamento nei riguardi del Messia che ha fatto perdere agli “eletti” di Israele il ruolo che esercitavano nell’ordine della mediazione. Il modo con cui vivevano il loro «sì» alla Legge li ha portati a dire di «no» al Vangelo.

 

Al di là delle pratiche

 

È ancora diffusa una concezione esteriore e quantitativa della religiosità dei gruppi e delle persone, quasi che essa si possa misurare soltanto in base all’appartenenza sociologica alla Chiesa o alla presenza di certe pratiche religiose facilmente verificabili: messa, sacramenti, preghiere, devozioni, elemosine ...

A provocare questo equivoco contribuiscono anche certe ricerche socio-religiose che codificano convenzionalmente una scala di religiosità e di appartenenza ecclesiale che, se da un certo punto di vista obbliga ad aprire gli occhi su penose situazioni, dall’altra è ben lontana dall’esaurire il complesso fenomeno della religiosità, sia di gruppo che individuale.

Al di là della pratica e della appartenenza esteriore e giuridica, esiste una presenza e un chiaro influsso cristiano ed evangelico in strati di popolazione apparentemente marginali ed estranei.

La religione come è vissuta da molti cristiani presenta diversi livelli e diverse modalità di esperienza. Può essere vissuta come una somma di pratiche, di devozioni, di riti quasi fine a se stessi; come una visione del mondo e delle cose; come un criterio di giudizio su persone, valori, avvenimenti.

Può manifestarsi come codice morale e norma dell’agire o come integrazione fede-vita, cioè come sintesi sul piano del giudizio e dell’azione, fra il messaggio del Vangelo e le esigenze e gli impegni della propria vita personale e comunitaria. Il vero cristiano opera l’integrazione fede-vita. Il «sì» della sua fede diventa cioè il «sì» della sua vita; la parola e la confessione delle labbra diventano azione e gesto delle sue mani e del suo fare.

Così la discriminante tra il «sì» e il «no» non passa attraverso le pratiche e l’osservanza delle leggi, ma attraverso la vita.

E voi, cari nuovi missionari, per svolgere questa missione di evangelizzazione e di trasformazione del cuore delle persone e, attraverso esse, del mondo non avete modello migliore di Gesù, così come ci viene presentato da Paolo nella lettera ai Filippesi. Infatti, l’Apostolo ci invita a fare nostri gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, vale a dire, a servire il prossimo con grandissima umiltà. Per riuscire a vincere il nostro egoismo, che ci porta ad annunciare il vangelo con spirito di rivalità o mossi dalla vanagloria, non c’è altra via che l’imitazione di Cristo, il quale «pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e una morte di croce». Ecco il modello della vera inculturazione, indispensabile per evangelizzare e toccare il nucleo della cultura dei popoli e lievitarlo e trasformarlo. Andare alla «missio ad gentes» implica di spogliarsi di tutto quanto ci può separare dalle genti cui siamo inviati, delle nostre presunzioni, dei nostri saperi, dei nostri titoli, dei nostri mezzi economici, ecc, ed incominciare umilmente ad imparare come bambini la loro lingua, a conoscere la loro cultura, ad apprezzare quanto hanno di buono, di vero, di bello, in una parola ad amarli come Cristo ha amato loro, sì da dare se stesso per loro.

Questa imitazione del Cristo si renderà più facile e più fedele se riuscirete ad unire impegno nella missione ed Eucaristia. Questa è la strada per la vostra santificazione, in modo che possiate vivere quello che celebrate e possiate celebrare quello che vivete. Così l’Eucaristia diventerà la sorgente della vostra missione e spiritualità, e la missione sarà un prolungamento della celebrazione dell’Eucaristia, completando nel vostro corpo quanto manca alla passione di Cristo.

In questo anno dell’Eucaristia, che sta per concludersi, il Signore vi lascia il dono e l’impegno di essere uomini eucaristici.

Affido tutti e ciascuno di voi a Maria Ausiliatrice. Lei vi guidi, vi protegga e vi benedica. Amen.

 

 

 

Don Pascual Ch√°vez V.

Colle Don Bosco - 25 settembre 2005

don Pascual Ch√°vez Villanueva

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