del 30 agosto 2008
Nel monologo Il nostro bisogno di consolazione lo scrittore svedese Stig Dagermann appare di una lucidità assoluta: «il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto». Nelle pagine migliori di Dagermann il senso di privazione è però sempre il calco vuoto di uno struggente, e a volte impetuoso, desiderio di qualcosa di più grande, di una forma di consolazione, appunto: «Posso per esempio camminare sulla spiaggia e all’improvviso sentire la spaventosa sfida dell’eternità alla mia esistenza nell’incessante movimento del mare e nell’inarrestabile fuga del vento».
 
Ecco, dunque, la descrizione di una esperienza di estrema semplicità e immediatezza, forse non pienamente consapevole, ma certamente intensa, vivace. Il poeta si trova sulla spiaggia e, camminando, improvvisamente viene colto dall’intuizione dell’eternità che gli si manifesta grazie al mare e al vento e al loro movimento incessante. La realtà sensibile rinvia all’intuizione di una dimensione ulteriore, tanto non immediatamente evidente quanto penetrante e fondamentale.
 
E viene in mente la domanda di Leopardi, che in Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima si chiede: «Natura umana, or come, /se frale in tutto e vile, / se polve ed ombra sei, tant’alto senti?» Nonostante la natura umana sia consapevole della sua fragilità, avverte tant’alto. Nelle domande impegnative c’è sempre il segno di una grandezza. E la nostra riflessione è già potentemente sollecitata da domande forti: che cosa significa essere un uomo «consolato»?
 
In che cosa consiste la «sfida dell’eternità» all’esistenza umana? Che cosa risponde a ciò che voglio da questa vita, e anzi che cosa c’è alla radice stessa del desiderio? Che cosa mi può far felice?
Antonio Spadaro S.I.
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