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Nel gelo inseguiti dai cani, "the game" in Bosnia è il muro fortificato d'Europa

Nel gelo inseguiti dai cani, "the game" in Bosnia è il muro fortificato d'Europa


Nel gelo inseguiti dai cani, "the game" in Bosnia è il muro fortificato d'Europa


 

di Giulia Belardelli, tratto da huffingtonpost.it

 

La testimonianza di Alessandra Coin, responsabile in Veneto della Comunità di Sant’Egidio: "Migranti costretti a vivere in condizioni disumane"

 

 

Passano le settimane e quelle foto dei migranti in ciabatte nel gelo della Bosnia hanno ormai assunto un’aria familiare. Sappiamo che alle porte d’Europa, a una trentina di chilometri dal paradiso naturale dei Laghi di Plitvice, migliaia di profughi stanno vivendo l’inferno. Il mondo delle organizzazioni umanitarie si è mobilitato per fornire assistenza ai migranti rimasti senza un posto dove andare dopo la chiusura e l’incendio del campo profughi di Lipa, nel nord est della Bosnia ed Erzegovina. Ma una muraglia di indifferenza paralizza la vita di queste persone scappate dai loro Paesi in cerca di un’opportunità. È qui che la rotta balcanica sbatte contro il muro fortificato d’Europa, fino a quando i più audaci tentano “the game”, il “gioco”, come da queste parti viene chiamato il tentativo di attraversare il confine croato. Per chi ha ancora abbastanza forza in corpo, i manganelli e le botte della polizia croata – famosa per l’efficacia dei suoi respingimenti - fanno meno paura di una condanna all’oblio. 

 

Alessandra Coin, responsabile in Veneto della Comunità di Sant’Egidio, è appena tornata da una missione a Bihac, nel cantone Una-Sana. “Sono partita da Padova insieme a una delegazione della comunità. Ci siamo sentiti molto interrogati da questa crisi così vicina a noi anche dal punto di vista geografico. Siamo andati per portare solidarietà, per dire a queste persone che il loro grido è arrivato, malgrado la coltre d’indifferenza che si percepisce in Europa, e per individuare percorsi d’aiuto. Abbiamo incontrato tantissime persone, sia dentro i campi sia fuori. La nostra missione ha coinciso con quella del Rappresentante speciale del segretario generale del Consiglio d’Europa per le migrazioni e rifugiati, Drahoslav Stefanek: abbiamo visto e ascoltato le stesse cose”. Tra queste c’è la testimonianza di una bellissima donna iraniana che parlava un inglese perfetto. “Ha chiesto all’ambasciatore Stefanek: ‘Di cosa siamo colpevoli? Perché veniamo picchiati e umiliati così? La nostra colpa è cercare la libertà che nei nostri Paesi non abbiamo?’ Ecco, da europea ho provato un senso di vergogna… L’Europa che è il continente dei diritti umani respinge queste persone, li picchia e li scaccia facendoli rincorrere dai cani”.

 

Già, i cani. È per sfuggire al loro fiuto e alla loro corsa instancabile che ora i migranti che tentano “the game” preferiscono farlo in gruppi di 50-60 persone. “È molto doloroso sentirli parlare di quel che gli accade in Croazia, dove vengono esercitate violenze e torture al solo scopo di umiliarli. Vengono picchiati e derubati di quel poco che hanno: i cellulari e i power bank gli vengono bruciati sotto gli occhi, gli vengono tolti i vestiti e talvolta le scarpe. Vengono cercati con i droni e i cani, che loro temono tantissimo perché una volta trovati non li mollano più. Per questo hanno iniziato a fare ‘the game’ in gruppi di 50 persone, così magari vengono bloccati in 30, ma in 20 ce la fanno”.

 

Il ‘gioco’ si ripete finché si ha la forza per provarci. “C’è chi ha tentato 4-5-10 volte… C’è chi è stato respinto in Slovenia; chi è riuscito ad arrivare a Trieste dopo anni d’attesa, per poi essere deportato il giorno seguente. Abbiamo parlato con un ragazzo che ha provato ‘the game’ per 24 volte. Sono ragazzi giovanissimi, hanno tra i 17 e i 21 anni, con una voglia di vivere, di fare, che lascia senza parole”.

 

Sono i migranti di cui la fortezza Europa non vuole sentir parlare. Nel 2020 – ricorda Internazionale - in Bosnia ed Erzegovina sono transitate 16mila persone: più di diecimila sono rimaste bloccate nel Paese sia per l’ulteriore chiusura delle frontiere dovuta alla crisi sanitaria sia per i respingimenti operati dai Paesi confinanti. A Lipa, vicino al vecchio campo andato a fuoco dopo la chiusura, l’esercito ha montato dei tendoni, alcuni riscaldati, altri no. In ogni tenda vivono 30-35 migranti in condizioni disumane: non c’è l’elettricità, manca l’acqua corrente.

 

In centinaia, dopo la chiusura di Lipa, si sono riversati nelle vicine foreste dove hanno iniziato a costruire capanne di legno e lamiera o in abitazioni di fortuna nell’area della cosiddetta “Factory”. Quest’ultima – come racconta un reportage de Linkiesta - è un complesso industriale abbandonato e in gran parte pericolante dove le persone passano le giornate senza disporre di cibo, acqua potabile né riscaldamento con temperature esterne che possono raggiungere i -15 gradi.

 

Nella città di Bihac il campo di Bira (un’ex fabbrica di elettrodomestici) resta chiuso per volere delle autorità cantonali, che non vogliono che i profughi ritornino all’interno del Comune. A Velika Kladuša, un po’ più a nord (il punto di attraversamento preferito per i migranti, che in un giorno di cammino riescono a essere in Slovenia), c’è il campo di Miral. E poi ci sono i campi di Sedra, Borici e i molti insediamenti informali dove si improvvisa la vita un giorno dopo l’altro. Ci sono famiglie con bambini, minori non accompagnati, persone anziane che necessitano di assistenza e cure mediche.

 

“Le condizioni di vita sono terribili”, continua Alessandra Coin: “ragazzini che bevono e si lavano con l’acqua del fiume, si riscaldano accendendo piccoli fuochi, per il cibo dipendono dalla solidarietà di quei pochi che li aiutano”. Molti soffrono di Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), ansia e insonnia. I disturbi fisici includono ipotermia, scabbia e infezioni della pelle e del torace, a causa della mancanza di condizioni di accoglienza e igiene adeguate.

 

″È una questione di dignità e diritti umani. In questo momento, cani e bovini sono trattati meglio di queste persone”, commenta Dijana Muzička, responsabile umanitaria della Caritas Bosnia ed Erzegovina che lavora sul posto.

 

Johann Sattler, ambasciatore Ue e rappresentante speciale in Bosnia ed Erzegovina, ha definito l’emergenza dei migranti nel Paese come una “crisi umanitaria artificiale”, e un recente approfondimento di Euronews spiega dettagliatamente il perché. La storia del campo di Lipa è una surreale lotta politica e diplomatica che vede coinvolti molti attori, dalle autorità locali all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, dai politici nazionali di Sarajevo ai responsabili dell’Unione Europea.

 

Quel che è certo – come scrivono Silvia Sinibaldi e Leïla Bodeux di Caritas Europe su EUobserver – è che “questa disgrazia umanitaria era prevedibile e del tutto evitabile”. “La Commissione Europea ha fornito un budget significativo alla Bosnia-Erzegovina che include la gestione di questa crisi umanitaria. Dal 2018 sono stati consegnati complessivamente 88 milioni di euro”. Le responsabilità del Paese per non aver creato strutture di accoglienza dignitose sono indubbie, ma altrettanto indubbia è la responsabilità dell’Ue nel continuare a chiudere gli occhi su tutto, pur di non ripensare la propria Fortezza.

 

 

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