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La Ragione, una figlia cara alla Chiesa

Ad un anno dal discorso di Benedetto XVIal Convegno nazionale della Chiesa italiana a Verona”'Non c'è che una via per la Chiesa di compiere il suo mandato salvifico: guidare quotidianamente la persona umana verso quella pienezza di essere di cui l'uomo sente il desiderio più forte di ogni teoria in contrario...'


La Ragione, una figlia cara alla Chiesa

da Teologo Borèl

del 22 ottobre 2007

L’espressione agostiniana “factus eram ipse mihi magna quaestio” [Conf. IV,IV 9] (“ero diventato un grande enigma a me stesso”), sembra essere particolarmente adeguata per esprimere la condizione spirituale della persona umana oggi in Occidente. L’uomo è diventato “la questione” centrale per l’uomo. Una questione che si propone con due interrogativi: il primo circa la verità dell’uomo [che cosa è l’uomo]; il secondo circa il senso della vita dell’uomo [perché c’è l’uomo]. Verità e senso sono le due fondamentali articolazioni della questione antropologica.

Penso che non si possa capire il discorso di Benedetto XVI a Verona così come l’intero Convegno ecclesiale nel suo svolgimento e nei suoi risultati, se non li inseriamo nell’orizzonte della questione antropologica. Non solo, ma in particolare il discorso del S. Padre deve essere inserito in tutto il suo magistero che lo ha preceduto e seguito.

Poiché il tema è piuttosto complesso, devo dirvi subito come cercherò di procedere.

Il primo punto riguarderà esclusivamente la proposta cristiana. Esso in sostanza risponderà alla seguente domanda: che cosa dice il cristianesimo all’uomo?

Il secondo punto cercherà di mostrare che il cristianesimo non può proporsi all’uomo se non come proposta vera, buona e vivibile, e quindi non senza incontrarsi colla ragione dell’uomo.

Nella conclusione cercherò di mostrare come la categoria dell’educazione sia la categoria sintetica migliore per progettare l’incontro della proposta cristiana con l’uomo di oggi.

 

1. La proposta cristiana.

 

Ho detto poc’anzi che una delle due fondamentali articolazioni della questione antropologica è la domanda sul senso della vita umana.

Non è raro il rischio di pensare che la risposta a questa domanda possa essere prima di tutto il risultato o di una dimostrazione filosofica oppure il frutto di un impegno morale. Alla domanda cioè quale è il senso della vita umana, non è raro il rischio di rispondere: “quello che tu colla tua libertà le darai”.

Se uno cede a questo rischio, si mette nella condizione di non comprendere la proposta cristiana. Essa infatti inizia dicendo all’uomo che il senso della vita è un fatto già accaduto; è una presenza che sta accadendo ora.

È questo un punto centrale, il punto di partenza – se non vado errando – di tutto il magistero di Benedetto XVI, o comunque del discorso di Verona.

All’inizio della Lett. Enc. Deus caritas est, dunque del primo solenne documento del suo pontificato, scrive: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e  con ciò la direzione decisiva» [1, cpv 2°].

Più precisamente, nel discorso di Verona è detto all’inizio che l’avvenimento di cui si parla è la risurrezione di Gesù, «un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori». E la persona di cui si parla è il Signore risorto.

È un fatto che accade anche ora, una Presenza, nel senso preciso che la risurrezione di Gesù «ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé».

Il senso nella vita umana è già stato donato «una volta per sempre», poiché la persona umana in radice è stata liberata dalla [paura della] morte nella risurrezione di Gesù: il Risorto è la primizia. Il senso della vita è concretamente donato a ciascuno di noi «mediante la fede e il sacramento del Battesimo, che è realmente morte e risurrezione, rinascita, trasformazione in una vita nuova».

È questo «quel grande “sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita, all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza».

La speranza cristiana “rigenera” [cfr. 1 Pt 1,3], perché essa nasce dalla coscienza [= fede] di essere in rapporto con una presenza che non era tale – cioè presenza – solo duemila anni fa o anche fino ad un minuto fa, ma che sta accadendo ora.

L’altra grande articolazione della proposta cristiana, infatti, è quella propriamente ecclesiale; coerente colla prima, quella propriamente cristologica.

Possiamo vedere e comprendere questa coerenza chiedendoci: come, su quali basi, far risuonare oggi il grande “sì” detto da Dio nel Risorto? Come render visibile il grande “sì” della fede? È questo forse lo snodo fondamentale per capire il discorso di Verona e, penso, tutto il magistero di Benedetto XVI.

La risposta a quelle domande era [capirete fra poco perché uso l’imperfetto] la seguente: la Chiesa rende visibile il grande “sì” di Dio predicando il vangelo, celebrando i santi Misteri, testimoniando la carità. E pertanto la cura che la Chiesa si prende dell’uomo era pensata, progettata, realizzata secondo i suoi tre grandi munera: docendi, sanctificandi, vivendi.

La “novità” consiste nell’aver messo in luce che l’evento del senso donato deve essere detto [annunciato], celebrato, testimoniato dentro ai grandi ambiti fondamentali nei quali si articola l’esperienza umana. In parole spero più semplici. Se la Risurrezione di Gesù è stato il dono definitivo del senso fatto all’uomo; se essa è Presenza sempre attuale; il suo annuncio esige allora di essere detto in  modo tale che sia la risposta alle fondamentali domande  dell’uomo: domanda di amore, di rapporti sociali veri e buoni, di lavoro non alienante …  È infatti nel tentativo di dare una risposta a queste domande che l’uomo costruisce la sua vita. La costruzione della nostra vita è la risposta che diamo a quelle domande: la nostra vita è i nostri affetti, il nostro lavoro, è la città in cui viviamo [cfr. le suggestive pagine di Tertulliano, Apologetico 42,1-9].

Il magistero di Benedetto XVI e in particolare il suo discorso di Verona riconducono i compiti fondamentali della Chiesa ad un unico tema di fondo, nel quale si riassumono tutte le sfide che l’intera modernità  ha lanciato alla Chiesa: il tema antropologico. Più concretamente e per fare qualche esemplificazione: il tema del senso che ha il rapporto originario uomo-donna; che ha il lavoro umano; che ha la fragilità della  persona; che ha il rapporto fra le generazioni umane;  che ha la cittadinanza. La sfida pastorale radicale è se la Chiesa è in grado di offrire un senso incrollabile e quindi il dono di una vita eterna, oppure se essa alla fine fa una proposta che l’uomo può impunemente disattendere.

Dall’unità che vige fra i tre grandi modi con cui la Chiesa testimonia, vive e media la Presenza del Risorto e quindi fa dono del senso all’uomo, predicazione-liturgia-carità, lo sguardo deve posarsi sull’unità della persona umana considerata nel suo percorso verso l’eternità, dentro al racconto della sua vita quotidiana.

La “novità” non è da pensare e realizzare come un adattamento alle mutate condizioni culturali. Essa esprime la logica intima della proposta cristiana, che è quella di un Dio “che per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal cielo”.

Sarebbe interessante a questo punto mostrare la profonda continuità fra Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, pur nella specifica sensibilità di ciascuno.

 

2. Proposta cristiana e ragione.

 

Il “grande sì” che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo, alla sua vita e all’amore, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza, costituisce il paradigma fondamentale dell’evangelizzazione e dell’intera attività pastorale secondo Benedetto XVI. Egli ne vede una realizzazione inequivocabile nella Chiesa dei primi secoli. «La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano». La forza spirituale che ha reso la proposta cristiana proponibile ad ogni uomo e ad ogni popolo, è stata la sintesi che essa esibiva fra fede, ragione e vita. Non era una “religiose mitica” né una “religione civile”: semplicemente si presentava come la religione vera. Cioè: risposta adeguata alle domande ultime che la ragione pone nel cuore  dell’uomo.

In un testo pubblicato prima della sua elezione al pontificato, il Card. Ratzinger pone nei termini seguenti la domanda fondamentale per la Chiesa oggi: «Perché questa sintesi  non convince più oggi? Perché la ragione e il cristianesimo sono, al contrario, considerati oggi come contradditori e addirittura escludentesi? Che cosa è cambiato nella prima e che cosa è cambiato nel secondo?» [Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2004, pag. 184].

Questa condizione è andata ulteriormente intensificandosi in questi tre anni successivi a quando venivano scritte queste parole. È in atto in Europa il tentativo di mostrare che la proposta religiosa come tale è da respingere poiché genera una vita umana non buona, non secondo ragione.

La categoria teoretico-pratica mediante la quale si introduce questa “proposta anti-cristiana” nella vita associata, è la definizione di laicità intesa come delegittimazione della presenza di ogni visione religiosa nel dibattito pubblico. La riflessione sul tema della laicità ha acquisito quindi in questi ultimi anni un’importanza decisiva.

In un incontro come questo non è possibile indicare e percorrere compiutamente le tappe del cambiamento intervenuto sia nella ragione sia nel cristianesimo, e che ha avuto come capolinea la situazione appena descritta dal testo citato del Card. Ratzinger. Nel discorso di Verona il S. Padre vi accenna. Ma prima c’era stato il grande discorso di Regensburg, purtroppo appiattito sulla polemica del rapporto coll’Islam; c’era stato il grande discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005.

Penso che in un contesto come questo sia più importante partire da due domande in un certo senso “introduttorie” al grande tema. E le domande sono le seguenti: che cosa è veramente in questione quando il S. Padre individua nell’unità fede-ragione-carità la prima esigenza oggi nella Chiesa [italiana: cfr. Discorso di Verona]? E la seconda: che cosa è a rischio nella proposta cristiana e quindi dal punto di vista cristiano nell’umanità di ogni uomo se non si ricostruisce quell’unità? Cercherò ora di rispondere a ciascuna di esse.

L’unità fede-ragione-carità si reggeva sul fatto che la conversione a Cristo e la conseguente iniziazione cristiana era l’incontro vissuto, prima che pensato, fra un uomo che colla sua ragione osava porre le domande ultime circa la realtà e non metteva limiti nel soddisfare il desiderio di sapere la risposta definitiva, e la proposta della fede cristiana che si esibiva come risposta vera alle domande ultime della ragione, affermando che il “fondo della realtà” è l’Amore: Dio è carità. Più brevemente. La ragione desidera sapere la spiegazione ultima della realtà. La fede si propone come risposta vera a questo desiderio. E la risposta della fede è che la spiegazione ultima della realtà è l’Amore, perché Deus caritas est.

L’incontro della fede cristiana colla ragione nella sua “pretesa” di conoscere le verità ultime del destino umano è un’esigenza intrinseca alla fede; e la filosofia greca fu la prima a registrare questa ricerca della ragione in forma rigorosa. La fede risponde che la realtà ha una sua intrinseca intelligibilità, fino in fondo, poiché «in principio era il Logos». Ma questo è solo una metà della risposta. L’altra metà è che la fede rivela che la verità ultima, “il fondo della realtà”, è un Dio che ama l’uomo ed entra nella sua storia fino a condividerne in tutto la condizione. Logos e Agape coincidono: il Logos che sta al principio è Agape, e l’Agape è la spiegazione ultima del tutto.

A questo punto prima di procedere, devo chiarire un equivoco possibile che farebbe perdere tutta la portata della riflessione seguente. Ho parlato di “ragione”, “ricerca”, “risposta vera”. Non vorrei che qualcuno pensasse ad una sorta di accademia di filosofi; ad un cristianesimo che si riduca ad una “filosofia prima”.

Quando si parla di “ragione” si intende la capacità dell’uomo di porsi consapevolmente nella realtà ed in rapporto colla realtà, cioè di “fare cultura”. La cultura infatti è il modo specifico dell’uomo di esistere. Non limitate il concetto di cultura ai… libri. Essa è ciò che fa essere l’uomo semplicemente uomo. La radice della cultura così intesa è, come annotava Tommaso d’Aquino, la ragione e la tecnica: «genus humanum arte et ratione vivit» [in Arist. Post. Analyt. 1]. Quando si parla della fede come risposta vera si intende quindi dire che la proposta cristiana è la proposta fatta all’uomo di porsi nella realtà ed in rapporto alla realtà nel modo vero, buono e giusto. Gesù spinge il giovane a seguirlo poiché questi gli aveva fatto la domanda ultima circa la vita eterna. Pietro rimane con Gesù comunque perché solo Lui ha parole di vita eterna. Marta anche di fronte al sepolcro di suo fratello sa comunque che Gesù è la risurrezione e la vita.

Tutto questo risulterà anche più chiaro dal seguito del discorso: almeno lo spero.

Si può porre in questione l’unità fede-ragione-carità dal punto di vista di ciascuno dei tre termini.

Se la messa in questione avviene perché si mette in questione la dimensione veritativa della proposta cristiana [cosa oggi abbastanza frequente, come risulta dall’idea che si ha di tolleranza], è “messo in questione”  l’evento stesso della Rivelazione, l’atto con cui Dio si rivela e rivela il suo progetto circa l’uomo. Esso cessa di essere Parola – veicolo di un significato – per divenire semplicemente un simbolo, una metafora dello sforzo dell’uomo di entrare nel mistero. E le diverse religioni si presenterebbero soltanto  come immagini di Dio relative alle diverse culture e tradizioni. Porre la domanda se esista una religione vera, in questo contesto non ha più senso.

Se si pone in questione l’unità fede-ragione dal punto di vista della ragione, ciò avviene perché la ragione si è auto-imprigionata dentro gli spazi del verificabile e del quantificabile, ritenendosi incapace di andare oltre a quei confini. Col risultato di porre all’origine di tutto la materia-energia, il caso e la necessità, qualcosa dunque in sé privo di intelligibilità. L’elevazione di una teoria scientifica, quella evoluzionistica, a filosofia prima, cioè a spiegazione potenzialmente radicale di tutta la realtà, è il segno più chiaro di ciò che sta accadendo dentro all’esercizio della ragione in Occidente.

Il terzo termine del rapporto, la carità, subisce le conseguenze più radicali dalla scissione fra fede e ragione. Per dirla colle parole di Benedetto XVI, avviene e sta avvenendo «un autentico capovolgimento del punto di partenza della nostra cultura, che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà». Se il fondo della realtà è il caso e la necessità, parlare di libertà non ha più senso e quindi non ha più senso parlare di amore. Si può solamente parlare di organizzazione fra individui estranei gli uni agli altri e alla ricerca della propria utilità. E pertanto parlare di beni umani comuni sui quali non cade la contrattazione sociale fra interessi opposti – i beni non negoziabili – non ha più senso: tutto è negoziabile poiché non esiste più nulla di incondizionatamente buono e giusto. Si va verso un’etica sempre più funzionale alle esigenze della vita sociale.

Qualcuno potrebbe dire: “tanto peggio per l’etica!”. In realtà è “tanto peggio per l’uomo”! Una ragione ridotta al calcolo è incapace di mostrare che esista un bene incondizionato. In linea di principio anche la soppressione di un innocente potrebbe essere giustificata.

Sono già arrivato alla seconda domanda: che cosa è a rischio nella proposta cristiana e quindi per la dignità di ogni uomo, se l’unità fede-ragione-carità non si ricostruisce? Il grande lascito di Verona, la linea programmatica del magistero benedettino è proprio questa ricostruzione per il quale «merita spendersi, per dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza».

Nella proposta cristiana viene messa a rischio la sua capacità di dirsi: di dare ragione della propria speranza. L’evangelizzazione si riduce in fondo ad essere “esegesi del testo biblico”; più ad im-porre, che a pro-porre un progetto di vita. Ricorrendo al vocabolario di S. Bonaventura, direi che la proposta cristiana è fatta in fondo esclusivamente e prevalentemente per modum narrationis piuttosto che nel modus perscrutatorius sive ratiocinativus sive inquisitivus [cfr. I Sent., proemii q.2 arg. 4 e concl; Quaracchi I, 10-11]. Se la domanda dell’uomo non entra prepotentemente nella proposta cristiana, questa verrà accolta – se viene accolta – come un momento periferico della vita o come una consuetudine socialmente, per il momento, ancora importante.

La gravità del rischio risulta però più chiaramente se lo consideriamo dal punto di vista della persona umana: se non ricostruiamo l’unità fra fede – ragione – carità è la persona umana che è in pericolo, come ho già accennato. E questo spiega perché la ricostruzione di questa unità sia il grande obiettivo del pontificato di Benedetto XVI.

«La storia del Novecento» è stato scritto «ha inequivocabilmente dimostrato che anche l’ateismo può indurre nell’animo umano passioni distruttive: tuttavia, mentre le tentazioni del fondamentalismo religioso sono costantemente l’oggetto di pubbliche censure, quelle dell’umanesimo esclusivo restano tuttora sottostimate. Finché non si colma questa lacuna, la nostra autocomprensione soffrirà di un ingiustificato strabismo» [N. Genghini, Identità Comunità Trascendenza. La prospettiva filosofica di Ch. Taylor, Studium, Roma 2007, pag. 169]. Anche J. Habermas parla del “disfattismo” che cova dentro “sia nella declinazione post-moderna della «dialettica dell’illuminismo» sia nello scientismo positivistico”. Quali sono questi  “germi di disfattismo”?

Alla luce del magistero di Benedetto XVI risponderei nel modo sintetico seguente: l’incapacità della ragione [che si è autolimitata al verificabile] a custodire i presupposti teoretici e pratici della originalità propria dell’humanum. Più brevemente e semplicemente: l’incapacità della ragione a custodire la dignità propria della persona umana.

Vorrei spiegare un poco questo punto di fondamentale importanza per capire il “dopo-Verona”. La modernità era partita dall’affermazione della centralità, della dignità del soggetto, della persona. Da essa era arrivata a conclusioni sia teoretiche che pratiche [es. l’impresa scientifica, la democrazia politica, l’affermazione dei diritti fondamentali…]. Ora assistiamo ad una grande fatica di mantenere salde quelle conclusioni, perché non siamo più capaci di custodirne la premessa antropologica. Anzi ormai questa stessa è negata: l’uomo non è né diverso dalla né superiore alla materia che lo ha prodotto.

Come uscire da questa condizione? Ponendo nuove premesse, creando cioè una nuova forma di cultura che offra all’uomo di oggi la possibilità di collocarsi nella realtà e di assumere il proprio destino, in misura adeguata alla sua dignità. Il S. Padre designa questo modo di essere della Chiesa nel mondo di oggi in vari modi: «allargare gli spazi della ragione», «unità fra verità ed amore», «ricostruire l’unità fra una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri», «logos e agape».

Concludo questo secondo punto richiamando l’attenzione su ciò che soprattutto insidia l’evangelizzazione oggi. Mi sembra che secondo Benedetto XVI siano soprattutto tre le insidie, strettamente connesse. Il tempo ormai mi costringe ad indicarle solo telegraficamente.

La prima è l’incapacità della proposta cristiana di entrare nell’uso pubblico della ragione pratica, nell’agorà della discussione e della deliberazione pubblica. Tradizionalmente ciò avveniva mediante la categoria della legge naturale: una fede che purificava e sosteneva la capacità della ragione a progettare una buona vita umana.

La seconda è alla base della prima. È costituita dal tentativo sempre presente di “de-ellennizzare” il cristianesimo: è stato uno dei grandi temi di Regensburg. È il tentativo che porta a considerare il rapporto, il legame fede e ragione qualcosa di relativo, di contingente, e quindi superabile.

La terza è che il cristianesimo diventi tradizione umana e religione di Stato, addomesticando la voce critica della ragione. È stata questa una delle ragioni della permanente conflittualità fra la proposta cristiana e l’esperienza che l’uomo stava vivendo nella modernità. Uno degli apporti del Concilio Vaticano II è stato di aver aiutato la Chiesa ad uscire da questa impasse, come Benedetto XVI ha mostrato nel famoso discorso del 22 dicembre 2005.

 

Conclusione

 

Può essere che qualcuno di voi ascoltando questa riflessione, abbia provato uno strano malessere: tutto questo è cosa da intellettuali; non riguarda chi nella Chiesa [pastori, catechisti, genitori…] porta effettivamente il peso dell’evangelizzazione. Nelle riflessioni conclusive vorrei liberarvi da questo malessere, perché non ha nessuna ragione d’essere.

E lo faccio ponendomi una domanda: quale prassi ecclesiale genera il “dopo-Verona”? Non possiamo limitarci a rispondere: evangelizzare, celebrare i Sacramenti, testimoniare la carità. La risposta è vera, ma era vera anche per il… “prima-Verona”. Ed allora preciso ulteriormente la domanda: quale profilo deve avere l’evangelizzazione, la liturgia, la carità? E la mia risposta è la seguente: il profilo di una grande prassi educativa. Che cosa significa?

Se questo è un momento di crisi, se la crisi mette in questione la conclusione perché è stata devastata la premessa, non c’è che una via per la Chiesa di compiere il suo mandato salvifico: guidare quotidianamente la persona umana verso quella pienezza di essere di cui l’uomo sente il desiderio più forte di ogni teoria in contrario, mostrandone la possibilità e la bellezza nell’incontro con Cristo. E questo è precisamente l’atto educativo: accompagnare la persona verso la pienezza della sua umanità. E l’uomo raggiunge la beatitudine quando “sapendo queste cose”, cioè che Dio ha tanto amato l’uomo fino a lavargli i piedi, “le mette in pratica”, cioè vive nella misura della carità. Abbiamo portato l’Eucaristia in piazza per dire ancora una volta alla nostra città proprio questo: «sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica» [Gv 13,17].

mons. Carlo Caffarra

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