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La rabbia e l'ambizione - intervista a Roberto Saviano

Sono i sentimenti che attraversano la quotidianità blindata dello scrittore napoletano. E sono le leve di un agire e di un impegno civile che si scontrano con il potere della camorra. In filigrana, nelle sue parole, le Afriche che vivono nel sud d'Italia, le mafie, l'indifferenza di troppi. Anche della chiesa.


La rabbia e l'ambizione - intervista a Roberto Saviano

da Attualità

del 17 settembre 2009

Sono i sentimenti che attraversano la quotidianità blindata dello scrittore napoletano. E sono le leve di un agire e di un impegno civile che si scontrano con il potere della camorra. In filigrana, nelle sue parole, le Afriche che vivono nel sud d'Italia, le mafie, l'indifferenza di troppi. Anche della chiesa.

 

È lui a spezzare l'imbarazzo per un'intervista che poteva trasformarsi nell'ennesimo traffico di parole da catena di montaggio. «Pensa un po', conosco Nigrizia da quando sono in fasce. Mio nonno Carlo, quasi un padre per me, ne era un affezionato lettore».

 

Incontriamo a Roma Roberto Saviano, diventato l'architrave della ribellione civile in Italia dopo l'uscita di Gomorra, libro che ha finito per odiare. L'occasione è un anniversario. È trascorso un anno, infatti, dal 19 settembre 2008, quando gli italiani, sempre pronti a slegare i loro istinti xenofobi, hanno scoperto dagli schermi Tv la rivolta africana antimafia a Castel Volturno, nel Casertano. Gli immigrati neri in strada, per dire che loro non avrebbero abbassato la testa davanti alla violenza della camorra, che il giorno prima aveva ucciso sei africani. Una metafora potente - in quella terra che ha un rapporto ingordo con l'indifferenza - del contrasto tra l'ideologia della rassegnazione e il rifiuto del fatalismo. Saviano ne ha scritto a lungo. Anche della rivolta africana di Rosarno, in Calabria, contro la 'ndrangheta. Due episodi fotocopia: la rabbia nera contrapposta al silenzio, spesso, dei bianchi.

 

Ma l'incontro con lo scrittore dalla vita blindata si è trasformato, inevitabilmente, anche in altro. In una riflessione, ad esempio, sul ruolo della chiesa in quelle terre del sud, schiacciate tra l'arroganza dei forti e la codardia dei deboli; sul rapporto di Saviano con Dio e con la fede; sulla sua sfrenata ambizione, un peccato mortale che gli consente, però, di resistere. Riflessioni prive di embargo ai pensieri più scomodi.

 

Saviano, non le sembra, ancora oggi, un paradosso che nelle rivolte di Castel Volturno e Rosarno sia stato proprio chi è senza diritti e identità a difendere la nostra cittadinanza?

 

È la grande magia che gli immigrati hanno portato in Italia negli ultimi anni. Arrivano disperati, accettano assurde condizioni di lavoro, spesso innescando la rabbia negli italiani, che si vedono spodestati da persone che accettano salari molto più bassi dei loro. Poi accade che le organizzazioni criminali tolgano loro ciò per cui hanno lottato fino in fondo: cioè la vita, il lavoro, il respiro, la possibilità di avere una famiglia. Quando questo accade, l'intera comunità africana si ribella. Senza avere remore, o paura - come capita spesso nelle manifestazioni che si fanno in questi paesi da parte della comunità bianca - delle famiglie, che quando torni a casa ti chiedono perché l'hai fatto. Lì, tutti per strada a dire: non osate. La riflessione è semplice.

 

Qual è?

 

I migranti vengono in Italia anche per difendere i diritti che noi non vogliamo più difendere. Per questo l'ho chiamata 'magia', la strana magia che si è innescata. A un certo punto, in Italia il cinismo e un certo modo di galleggiare hanno fatto sì che il diritto alla vita e a un lavoro dignitoso fossero considerati, ormai, solo un gioco per vecchi annoiati moralisti. Nelle mie terre, ci si dice che in fondo queste cose ci sono sempre state; che dire di sì non costa poi così tanto; che la camorra, come la 'ndrangheta, come gli affaristi, ci sono sempre stati; che chi ci va contro, lo fa solo perché ha un suo interesse privato. Campiamo e basta. Ecco, questo l'africano non lo permette, perché gli impedisce ciò per cui lui ha combattuto: il poter dare ai figli una casa, il sogno di un lavoro regolare e, soprattutto, la vita. «Sono venuto qui pagando col sangue. Nessuno deve osare togliermela», il suo pensiero. Gli africani immettono questa difesa del diritto nel tessuto italiano.

 

Lei si è spesso rivolto alla sua terra, nella speranza di un gesto di ribellione. È cambiato qualcosa in questi anni? La scomparsa di Castel Volturno o della camorra dalle prime pagine dei giornali è figlia del successo della militarizzazione del territorio? O è il silenzio di sempre che accompagna le vite di scarto, che si possono dimenticare, dopo le emergenze contingenti?

 

La militarizzazione del territorio è stata la risposta immediata dello stato, forse inevitabile. Ha abbassato, in alcuni casi, la conflittualità tra clan; in altri momenti, ha aiutato qualche inchiesta. Ma siamo ancora lontani dallo sconfiggere la camorra. Purtroppo, la ciclicità mediatica impone sempre, dopo una fase di attenzione, un lunghissimo momento di disattenzione. Cosa che mi dispiace, perché queste storie hanno appassionato e appassionano i lettori. È evidente che non si può chiedere al giornale di dare una notizia solo per impegno morale o di orientare una linea editoriale solo in nome dei principi di giustizia. Ma queste notizie, in realtà, facevano vendere il giornale. Perché le persone vogliono sapere. So benissimo che io riesco a parlare, ad avere spazi importanti perché vendo tante copie. Non sono folle nel pensare che ho questo spazio per chissà quale altra alchimia. Se il lettore si allontanerà da me, tornerò a pagina 80 del giornale. E gli argomenti di cui mi occupo ritorneranno nella colonna di cronaca.

 

Anche di recente, lei ha difeso la memoria di don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe, ucciso per mano camorristica nel 1994. Al di là di alcune figure di martiri, quale è il ruolo della chiesa locale nel combattere la camorra o la mafia in genere? I vescovi, i parroci, i preti del suo territorio sono in prima linea? O c'è indifferenza, se non connivenza?

 

Non ci si può rapportare alla chiesa come a un monolite. D'istinto, mi verrebbe da dire che se c'è stata resistenza nella mia terra e se io, nel corso degli anni, sono riuscito ad avere una qualche coscienza antimafia, lo devo ad alcune figure di chiesa. L'ex vescovo di Caserta, Raffaele Nogaro, è stato per decenni l'unico riferimento in Campania, non solo nella lotta alla camorra, ma nel prendere le distanze dalla borghesia imprenditrice camorristica. Ha cercato di mediare con la comunità dei migranti, tra migranti sani e la parte criminale di questa comunità. A Napoli, poi, c'è il cardinale Sepe, figura di peso in un momento difficilissimo per la città, con la politica che ha perso autorevolezza, con la camorra che è tornata a sparare in modo indiscriminato, con gli arresti di importanti imprenditori. Devo dire che questa è la chiesa in prima linea.

 

Poi, purtroppo, c'è anche tutto il resto. La chiesa, cioè, che preferisce girarsi dall'altra parte, che ogni volta che si parla di camorra pensa che sia un modo per spaventare i fedeli. Quando Nogaro arrivò nel casertano da Udine e nelle sue omelie citava la camorra, alcuni preti locali gli chiedevano espressamente di non pronunciare quella parola. Perché così s'infangava la povera gente. Non solo. Ma perfino un istituto religioso a San Cipriano d'Aversa è stato intitolato a Dante Passerelli, l'imprenditore riciclatore del clan Schiavone, attualmente morto. La parte combattente, sul piano morale, della chiesa affronta così una doppia lotta: una esterna contro i clan e l'altra interna con una prassi pastorale che vuole, ancora una volta, portare avanti una posizione morbida nei confronti dei camorristi.

 

E le ragioni di questa 'posizione morbida'?

 

Sono tante. Un prete che decide d'intraprendere una lotta del genere deve, ad esempio, essere disposto a subire anche l'oltraggio della diffamazione. Don Peppe Diana, ancora prima di essere ucciso, per il solo fatto che s'impegnava, che girava nelle scuole e scriveva documenti, veniva sistematicamente diffamato. Perché un prete che non sta nella sua stanzetta a confessare le vecchiette o a dare le caramelle ai bambini, è un sacerdote che viene visto con sospetto. Se indirizza la sua autorevolezza e la sua parola verso altro, mette paura. Soprattutto se quell'altro detiene il potere. Mi ricordo che don Peppe cominciò a denunciare il voto di scambio. Padre Puglisi, ucciso a Palermo, lo stesso. Non è un caso che, dal giorno dopo l'assassinio di questi due preti del sud d'Italia, iniziò una campagna di diffamazione. Molto forte nei confronti di don Peppe; un po' meno contro don Pugliesi. Ma solo perché l'antimafia siciliana è molto più sviluppata di quella della mia terra. Impegnarsi vuol dire soprattutto rischiare. Non solo la vita, ma la propria serenità. Spesso è questa la ragione che spinge un sacerdote a non agire in questi territori. Perché è molto difficile - e questo posso immaginarlo e persino capirlo - vedere d'improvviso la propria vita in bocca a moltissime persone e la propria credibilità e onestà insultate da gomiti e venticelli della camorra. Per chi decide di combattere, il primo scoglio è questo. Poi, sul campo, si riesce a ottenere anche autorevolezza. Ma è un lavoro molto lungo. Spesso quelli che meno combattono si buttano sulla spiritualità. Sono quelli che parlano molto di più alle anime e meno al corpo. E, soprattutto al sud, chi fa questo lo fa per tenersi al riparo.

 

Il fatto che la sua sia una terra di missione pastorale, come una qualsiasi parrocchia africana, che riflessione le suscita?

 

Castel Volturno, dove c'è la missione dei padri comboniani, è davvero una città africana. Della diaspora africana, come ebbi modo di ricordare in occasione della morte dell'artista sudafricana Mirian Makeba, venuta a cantare e a morire a Castel Volturno in un concerto in onore dei ragazzi africani ammazzati e anche per me.

 

Quello che fanno i comboniani in quella realtà - uso una parola che potrebbe apparire altisonante, ma non lo è - ha del miracoloso. Consentono alla comunità africana, dominata dalla mafia nigeriana, di avere un'alternativa. Di poter scegliere di non stare con i criminali. Danno la possibilità ad alcune persone di uscire da quelle organizzazioni. Permettono ai bimbi che nascono lì - e sono ormai centinaia i bambini africani castellani - di poter sperare di non far parte un giorno dell'esercito dei rapaci, così come vengono chiamati i criminali nigeriani. Questa cosa non la consente lo stato, non la consentono neanche le associazioni. Lo permette la missione comboniana. Castel Volturno potrebbe rappresentare, poi, il futuro dell'Italia.

 

Il futuro?

 

Se gli occhi dell'Italia dovessero aprirsi una volta e per sempre, quella realtà dovrebbe rappresentare un laboratorio unico: per la prima volta, una comunità africana potrebbe gestire una città. Perché qui non siamo di fronte a un quartiere di una metropoli italiana. Qui è un'intera città, costruita abusivamente, abitata da africani. Questo vuol dire che Castel Volturno non è il degrado d'Italia, come facilmente si potrebbe dire, ma il suo futuro. Se si desse la possibilità a questa comunità di vaccinarsi contro la mafia nigeriana, d'interrompere il rapporto criminale con la camorra, Castel Volturno potrebbe essere una risorsa anche per l'Europa. Perché non esiste una città completamente africana neppure nel continente. Un laboratorio da sogno per i sociologi.

 

Continua a sottolineare il potere, la forza della parola. Per lei, ad esempio, è l'unica forma di resistenza a una vita blindata. Non pensa che sia proprio un uso spregiudicato della parola ad aver contribuito ad abbattere un tabù come quello del razzismo? L'imbarbarimento linguistico ci sta abituando alla normalità del male?

 

L'uso spregiudicato di certe terminologie è molto rischioso. Così come è stato molto rischioso, dall'altra parte, la difesa di tutta la comunità immigrata, anche nelle sue fette criminali. Lo scontro, infatti, è tra un razzismo becero di chi vorrebbe gli stranieri o tutti morti o tutti arrestati e una loro difesa a oltranza, un po' buonista. Questo è un errore che ha fatto la sinistra, perché, se qualcosa insegnano le inchieste sulle comunità rom, slava e africana, è che chi ferma il crimine di quei gruppi non è affatto il poliziotto o il giudice, che arrivano solo dopo. È, invece, il 'no' dell'africano, dello slavo, del rom. In queste comunità è la parte sana che interrompe il crimine. L'errore è generalizzare. Mi sono sentito molto ferito, tuttavia, quando si è detto che sui gommoni viaggiano criminali. I criminali arrivano a centinaia in Italia. Ma nessuno è arrivato mai su un gommone. Mai. Arrivano sempre con l'aereo, sempre con dei permessi precisi, con documenti... Quello che può succedere è che qualcuno che arriva sui gommoni, per disperazione, si trovi a fare il piccolo spacciatore o il rapinatore. È gravissimo dire, però, che dall'Africa partono apposta dei criminali per compiere reati in Italia. Non è così. Qualunque inchiesta condotta dall'antimafia lo dimostra. Non solo. È proprio la malavita etnica a volere che ci sia il razzismo verso la propria comunità, perché così quest'ultima s'identifica nei criminali e loro diventano gli unici riferimenti. Le mafie etniche ti forniscono documenti, permessi, lavoro, un altro nome, droga, finti matrimoni... Ti trovano una sistemazione. Se il migrante ha la possibilità d'intraprendere un'altra strada, loro perdono; se non ce l'ha, loro vincono. Lo diceva anche il vescovo Nogaro: ogni volta che c'è un giro di vite verso il migrante, si allarga la vite della malavita.

 

Ma, secondo lei, l'Italia è un paese razzista?

 

Me lo sono chiesto tante volte. Forse lo sta diventando nel suo modo di pensare, un po' meno nel suo modo di agire. Lampedusa è la dimostrazione, tutto sommato, che una parte consistente degli italiani non ce la fa ad avere un comportamento distante e disumano di fronte all'emergenza. Di sicuro, tuttavia, il modo di pensare sta diventando fortemente razzista. Ed è anche dovuto al fatto che, sul piano culturale, a sempre meno migranti è permesso di emergere. Tu distruggi ogni pregiudizio razzista, se il tuo medico è africano, il tuo professore è slavo, il tuo musicista preferito è americano. Quando, insomma, la molteplicità la incontri quotidianamente. Quando, invece, ti capita di avere solo un operaio edile che è romeno, inizia a innescarsi un pregiudizio che è poi molto difficile da eliminare nella mente delle persone, più che nella prassi. A vederci oggi, stando solo alle dichiarazioni dei politici, siamo il paese più razzista d'Europa. Non c'è mai cautela nelle parole. Bisognerebbe, invece, aiutare gli immigrati 'sani' ad avere sempre più potere, sempre più strumenti per denunciare, per vivere bene, per arricchirsi in modo onesto. Solo così permetteremo alle comunità immigrate di salvarsi.

 

Lei ha scritto che il colore dell'Africa è il bianco della cocaina. Un continente diventato centrale nelle strategie dei trafficanti. Ma, a suo avviso, a gestire il business, almeno in Africa, sono solo le mafie locali? O iniziano a radicarsi nel continente anche le nostre mafie?

 

Gli interessi delle organizzazioni italiane sono fortissimi nel traffico di droga. La coca che i nigeriani esportano in Europa fa tappa soprattutto in Italia. O in Spagna. Ma gestita da italiani. L'Africa, soprattutto quella occidentale, è diventata uno snodo centrale per tutto il traffico di stupefacenti, anche per quello smerciato nell'Europa dell'est. La coca che arriva in Russia passa anch'essa dalla Nigeria. È diventato così importante avere un piede in Africa, che perfino i trafficanti di eroina che arrivano dall'altra parte, dall'Afghanistan in particolare, passano per l'Iran e fanno arrivare la droga in Nigeria. È il posto più sicuro dove stoccare grandi partite. Le organizzazioni italiane non sono direttamente sul territorio africano, almeno da quanto risulta dalle inchieste della magistratura. Sì, c'è qualche individuo che tratta, qualche businessman. Oppure è noto che il Sudafrica è un partner privilegiato per le mafie. O che Zanzibar è un posto per il riciclaggio delle mafie italiane. Ma, per ora, non ci sono basi o famiglie che lavorano direttamente a Lagos, a Benin City o a Monrovia.

 

Tuttavia, colpisce vedere che non c'è vera coscienza di questo ruolo dell'Africa, se non tra gli addetti ai lavori. Il recente golpe in Guinea-Bissau è stato gestito dai narcotrafficanti. Che gestiscono gli aeroporti africani. I 'muli', cioè quelli che portano in corpo gli ovuli di cocaina, partono dall'Africa e arrivano in Italia. L'Europa in questo si trova in grave difficoltà. Perché oggi è più facile, rispetto al passato, far entrare la coca nel continente. Uno dei motivi per cui è crollato il prezzo della polvere bianca è proprio perché ora la coca è africana. Anche se ci sono dei sequestri, questi non incidono sui costi, perché in Nigeria si porta talmente tanta droga che si ammortizza il prezzo.

 

Il continente resta un luogo ideale anche per lo smaltimento di rifiuti.

 

Per il riciclatore di rifiuti lo spazio, il vuoto sono elementi di ricchezza. E l'Africa è piena di vuoti. In Gomorra racconto di quando vidi molti imprenditori delle mie parti inquietarsi per lo tsunami. Mi chiesi: cavolo, questa gente ha allora davvero un cuore, visto che si preoccupa dei morti innocenti. Invece no: sapevano benissimo che l'onda aveva abbassato le spiagge africane e lì c'erano tutti i loro rifiuti. Significava per loro l'arresto? No! Solo che non avrebbero più potuto utilizzare quelle spiagge per i loro traffici.

 

Lei ha detto: chi vive male diventa un uomo peggiore. Lei cova odio e grande voglia di vendetta verso chi la costringe a vivere nella sua gabbia. Non trova un po' paradossale diventare una persona cattiva per il suo senso etico e di giustizia? Ha la percezione di quale potrebbe essere l'approdo di questo percorso?

 

No. La mia è una vita abbastanza schizofrenica. Sul piano pubblico, riesco a essere sempre molto controllato; sul piano privato, sono spezzato. Ecco perché dico che chi vive male diventa male. Sei ossessionato da te stesso. L'opinione pubblica commenta ogni cosa che fai e la commenta con superficialità. Questo succede a tutti, lo so. Ma almeno gli altri possono passeggiare, avere una vita normale con cui ammortizzare il peso delle difficoltà. Invece, non solo la mia condizione mi pesa molto, ma mi pesa doverla farla condividere a chi mi sta vicino, il quale deve cambiare sempre casa e subire la scorta, una pressione forte, l'attenzione dell'opinione pubblica. E questo è molto difficile. Mi ha dato molto dolore, anche se adesso l'ho elaborato, vedere il deserto attorno a me nella mia terra d'origine. Sentire le parole più feroci partire da lì. L'indifferenza più forte, la rabbia, l'invidia. Mi sono spesso chiesto: ma davvero posso essere invidiato da qualcuno? E la risposta è sì: chiunque ha la possibilità di emergere crea un senso di rancore, perché, se tu parli, mi ricordi che io non ho parlato. Vedere l'atteggiamento che hanno avuto i miei amici è stata una delle cose più dolorose della mia vita. Quando ho ricevuto la scorta, nessuno è andato da mia madre a chiedere se aveva bisogno di qualcosa. Delle due l'una: o ho meritato di ricevere questo comportamento, o queste persone hanno talmente fatto il callo sul cuore, sull'anima circa queste vicende, che ormai non si accorgono più di niente. E la mia storia è una delle tante che vedono passare davanti a loro.

 

Le sue parole la legano a un pubblico che le è talmente affezionato che rischia di non voler mai che lei esca da questa gabbia. Come si fa a spezzare questo corto circuito?

 

Salman Rushdie mi avvertì: «Stai attento! Una parte della gente che ti ama ti vuole morto. Vuole il sacrificio. Vuole che tu arrivi al massimo. E, se non accade, sembra quasi che tu sia uno che ha tradito le proprie idee». Io ci provo in tutti i modi a uscire da questo alone di martire, che non ho mai voluto avere. La scorta mi è stata data dallo stato italiano per difendere il diritto alla parola nel mio paese. Se non avessi la scorta, sarei rinchiuso in un paesino. Ora che ho la scorta, posso girare, fare interviste come questa, continuare a incontrare le persone. Ma m'interrogo ogni giorno su come potrò tornare a essere quello che voglio essere: uno scrittore normale.

 

Quale è il suo rapporto con Dio? Problematico, inesistente, accantonato?

 

Ho un rapporto costante con le letture religiose. Il mio rapporto con Dio passa attraverso i testi sacri. Soprattutto la Torah e i Vangeli. Mi è sempre piaciuta l'idea che ha Hans Jonas, filosofo di origine ebraica, di un Dio da aiutare. Di un Dio non onnipotente e che, quindi, si trova lui, come l'uomo, a doversi scontrare con un male. Un Dio non onnipotente è un Dio che mi è molto simpatico. Negli ultimi anni, è aumentata esponenzialmente la riflessione religiosa. Che in gran parte della mia vita non ho avuto. E le persone che hanno creduto nel mio dolore e non hanno risposto con cinismo, con la solita tiritera che la mia era tutta una grande operazione di marketing, sono state le persone religiose, con fede. Nel tempo, ho iniziato a percepire che la fede, spesso, è stato il vero motore mobile delle persone di buona volontà che nelle zone più difficili del sud d'Italia hanno cercato di trasformare le cose.

 

Ha detto in più di un'occasione che per lei libertà coincide col fare una passeggiata. Dove immagina la prima passeggiata da cittadino uscito dalla sua libertà vigilata o forzata?

 

Ci penso quasi tutti i giorni. E mi viene l'idea, senza davvero ragionarci, di farmi una passeggiata sul lungomare di Napoli. Potrà essere banale. Ma io ho vissuto gli ultimi anni della mia vita nel quartiere spagnolo. E in 3 minuti ero sul lungomare. Per una passeggiata che mi facevo quasi tutti i giorni. Mi piacerebbe ritornare a farla. Non so se sarà ancora possibile. La cosa più difficile oggi è vivere schiacciato tra una protezione molto alta, che mi costringe a una vita blindata, e una parte dell'opinione pubblica che dice che questa condizione è assolutamente inutile, che è solo un'operazione mediatica. Schiacciato tra queste due situazioni, a volte mi sembra di impazzire e mi chiedo ancora dove ho trovato la forza di resistere.

 

Dove la trova?

 

Userò una parola antipatica: nell'ambizione. Cioè credere di poter arrivare a molte persone. Credere che le mie parole possano cambiare davvero le cose. Non ho mai voluto fare lo scrittore per vendere qualche libro e finire nelle classifiche. Volevo vendere moltissimi libri così da cambiare la realtà. E l'ambizione in questo senso mi sta salvando, per ora, perché mi permette di controbilanciare la mia sofferenza con la possibilità di parlare a milioni di persone nel mondo. Questa è una fortuna.

 

Gianni Ballarini

http://http://www.nigrizia.com

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