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La miglior vendetta? Il perdono...

Non c'è il pericolo che, perdonando, si possa cadere nella trappola del buonismo che favorisce la rassegnazione dei buoni e l'arroganza dei malvagi? Non è forse Luca, l'evangelista della misericordia, che assicura che Dio farà prontamente giustizia agli oppressi che gridano verso di lui (Lc 18,7)? Dobbiamo allora concludere che il perdono non è la forma corretta di reagire al comportamento dei malvagi?


La miglior vendetta? Il perdono...

da Quaderni Cannibali

del 07 novembre 2007

Siamo stati educati a considerare la vendetta come un comportamento negativo. Il cristiano non deve vendicarsi, ma perdonare. Quante volte? Non sette volte, ma settanta volte sette. Vinci il male con il bene. Sembra uno degli insegnamenti fondamentali del Nuovo Testamento: la legge del taglione è stata sostituita dalla legge dell'amore, prendendo come modello il modo di agire del Padre che fa piovere sui buoni e sui cattivi, e che fa splendere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti.

 

 

Il dubbio

 

Alcuni interventi comparsi ultimamente su alcuni quotidiani sembrano mettere in discussione questi principi. Per esempio, ne La Stampa del 1° settembre troviamo un articolo a firma di Sebastiano Vassalli dal titolo: 'La carica dei perdonisti'. Dice che è fenomeno iniziato nel 1984, interrompendo una prassi che faceva dell'Italia «un Paese come tutti gli altri, dove i parenti delle vittime, ai processi, inveivano contro gli assassini e reclamavano di farsi giustizia da soli: con parole e sentimenti riprovevoli, ma umanamente comprensibili e tutto sommato normali». La prima a iniziare questo fenomeno sarebbe stata Maria Frida Moro, figlia di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate rosse. Ma dopo di lei sono venuti Rosaria Schifani, moglie dell'agente ucciso con il giudice Borsellino, e tanti altri ancora. Poi alla schiera dei perdonisti si è aggiunta quella degli stessi colpevoli che invocavano il perdono a coloro ai quali avevano rovinato la vita in modo irreparabile, con le loro azioni criminose. Vassalli non si lascia condizionare né dai sentimenti di bontà di chi perdona, né dal pentimento di chi chiede perdono. Conclude seccamente con le parole di Cesare Beccaria: «Il delinquente ha diritto alla pena». «Gli piaccia o no».

 

Qualche giorno dopo un lettore dello stesso giornale ha aggiunto una nuova categoria di persone, quelle che a nome di istituzioni e movimenti hanno sentito il bisogno di chiedere perdono per i delitti compiuti nel passato. L'esempio tipico è stato quello di Giovanni Paolo II che ha chiesto pubblicamente perdono per gli errori compiuti da uomini di Chiesa che hanno provocato sofferenze e ingiustizie nei secoli. E ironicamente riporta il caso di «alcuni discendenti dei cannibali della Papua Nuova Guinea che hanno chiesto formalmente scusa per le azioni dei loro antenati che uccisero e mangiarono grassi e succulenti missionari un secolo fa». Ma nonostante l'ironia nella sua conclusione fa un passo in avanti perché dice che questo perdono e queste richieste di perdono diventano un fatto positivo «solo nel caso che chi lo professa non operi più nel senso precedente, anzi si adoperi per cambiare la situazione» (La Stampa, 6 settembre 2007, p. 36).

 

 

Il vero significato dei termini

 

C'è il pericolo che un certo modo di concepire il perdono faccia cadere in una forma di buonismo e di lassismo che diventano dannosi per le persone e per la società, perché favoriscono l'arroganza dei violenti, l'ingiustizia dei potenti, e non correggono i disordini e gli abusi nella società. Machiavelli diceva che il principe deve favorire la religione, perché la religione crea dei rassegnati ed è più facile governare quando i sudditi sono esortati alla rassegnazione. Dobbiamo allora rivalutare la vendetta a scapito del perdono, oppure dobbiamo rivedere il significato di questi termini per capire se hanno veramente il significato che col tempo hanno acquistato?

 

La parola perdono evoca l'idea di remissività, dolcezza, generosità, ma anche di passività, rassegnazione, rinuncia o incapacità a far valere i propri diritti, mancanza di carattere. La parola vendetta sembra invece richiamare l'idea di durezza, accompagnata da crudeltà, violenza, arroganza, compiacenza nel far provare all'altro la stessa sofferenza che ha causato con il suo atteggiamento violento e ingiusto, ma anche l'idea di forza, di capacità reattiva di fronte al male, di volontà decisa a riportare le cose nell'ordine e di contenere l'arroganza di chi crede di poter fare quello che vuole.

 

Proviamo a vedere se veramente vendetta e perdono si oppongono tra loro come la luce e le tenebre oppure se è necessario ripensarli, vedendoli come due momenti che hanno una comune radice virtuosa e mirano a un comune obiettivo virtuoso. In questa opera di rivisitazione ci faremo aiutare da san Tommaso. Egli parla della vendetta come di una virtù, quando tratta delle parti potenziali della giustizia. È una parte della giustizia, come lo sono la pietà, la gratitudine, la veracità, l'affabilità, la liberalità. Ognuna di queste virtù contribuisce a formare l'uomo giusto, e a suggerire i comportamenti che sono corretti quando si relaziona con gli altri uomini.

 

 

La vendetta

 

Per capire come mai san Tommaso ponga la vendetta (vindicatio) nel novero delle virt√π, e la presenti come parte potenziale della giustizia, dobbiamo seguire il suo ragionamento.

 

La vendetta - dice nella II-II, q. 118 - è la reazione naturale di fronte a un fatto che provoca sofferenza e disordine. L'uomo reagisce naturalmente di fronte al male e al disordine. E sente il bisogno di rifiutarlo, anzi di eliminarlo, o almeno di correggerlo. Come? Punendo chi ha commesso il male. Ora, si può infliggere un castigo per due motivi diversi: per provocare del male a chi ha prodotto l'offesa e trovare in questo la propria soddisfazione, oppure per raggiungere un bene infliggendo la punizione. Nel primo caso la vendetta è assolutamente illecita: poiché rallegrarsi del male altrui è proprio dell'odio, il quale è incompatibile con la carità, che deve invece estendersi a tutti. Né si può trovare una giustificazione dicendo che l'altro per primo ha provocato del male, perché non si è autorizzati a odiare chi ci odia. Infatti uno non può peccare contro altre persone perché queste hanno peccato contro di lui. Questo significa lasciarsi vincere dal male, mentre l'apostolo Paolo ammonisce: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rom 12,21).

 

Nel secondo caso invece la vendetta è lecita, perché attraverso la punizione si vuole raggiungere principalmente un bene, per esempio il ravvedimento di chi ha sbagliato, o la repressione del male che turba la pubblica quiete, oppure la tutela della giustizia e l'onore di Dio. E se è vero che la singola persona può sopportare l'ingiuria quando riguarda solo la sua persona, non deve sopportarla quando coinvolge il prossimo, la società e soprattutto Dio.

 

È un fatto comune a tutte le tendenze naturali di aver bisogno di essere misurate e regolate dalla ragione. Non possono esprimersi in modo selvaggio, perché potrebbero trasformarsi a loro volta in qualcosa di distruttivo. Per esempio, la tendenza a mangiare e bere è naturale e quindi è buona. Ma deve essere regolata dalla ragione perché potrebbe diventare avidità ed ebrietà. Analogamente, la vendetta per essere virtuosa deve essere regolata dalla ragione, cioè deve essere realizzata con una finalità buona, ma deve anche evitare due vizi. Il primo è un vizio per eccesso, cioè il peccato di crudeltà e di durezza che nel punire passa la misura. Il secondo è un vizio per difetto, ed è proprio di chi nel punire è troppo blando (lassismo). È quindi lecita e virtuosa, quando si propone di riportare il delinquente nell'ordine della giustizia, anche se con la costrizione, e di ricostruire l'ordine nella società, o di prevenirne i disordini e i mali.

 

 

Il perdono

 

Non è però una virtù perfetta perché spesso non riesce a recuperare la persona. Il delinquente può subire la pena e può essere messo nell'impossibilità materiale di continuare a delinquere, ma la sua volontà continua a essere protesa al male. L'amore suggerisce un altro percorso, ed è quello del perdono. Anch'esso deve essere ricompreso. Perdonare non significa dimenticare il passato, mettere una pietra sopra ciò che è avvenuto. Chi perdona non è né un timido, né un rassegnato, né un debole. Chi perdona è un forte che si propone non di dimenticare il male ricevuto, ma di togliere il male che è avvenuto. Infatti chi offende produce tre mali: il primo è contro la persona offesa; ma prima ancora produce un male a se stesso, perché facendo il male rende se stesso malvagio; e in più rovina le relazioni tra le persone.

 

Chi perdona prende coscienza che nella comunità sono stati introdotti questi tre mali. Non si ferma alla sofferenza prodotta nella sua vita, ma estende il suo interesse al male che è stato introdotto nella convivenza umana, e si propone di toglierlo. Vuole comportarsi come il Cristo, il quale non è venuto a coprire il male del mondo, ma a toglierlo. Per questo la via del perdono è lunga e difficile. Suppone un primo lavoro su di sé per estinguere il risentimento e l'odio; ma richiede poi un lungo lavoro su chi ha sbagliato, per togliere dalla sua vita le cause che lo hanno portato a sbagliare. Questo suppone la collaborazione di chi ha prodotto l'offesa: cosa che spesso non avviene. Ma il cristiano non si perde d'animo. Sa che l'unica persona su cui può agire e produrre dei cambiamenti è la sua persona. Sugli altri può agire solo dall'esterno con l'esempio, l'esortazione, la preghiera. Ma sa anche che riportando nel suo cuore l'amore, si mette nella disposizione migliore per aiutare Dio a salvare se stesso e gli altri. Non è detto che possa sempre vedere i risultati del suo perdono, sa però che in forza dell'unione nel corpo mistico ogni azione di amore si riversa in modo benefico sulla sua persona e sulle persone a cui concede il suo amore e su tutta la comunità umana.

 

In questa prospettiva ha senso il principio che «la miglior vendetta è il perdono»: per recuperare l'uomo che ha sbagliato si prende l'atteggiamento di Dio verso di noi: «Siate come il Padre vostro celeste che fa piovere sui buoni e sui cattivi, che fa splendere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti».

 

 

A che serve?

 

Qualcuno obietterà che il perdono non serve a nulla. Anche se la persona che ha prodotto l'offesa chiede perdono, e la persona offesa lo concede, le cose restano come prima. La donna a cui è stato ucciso il marito continua a restare vedova e i figli orfani; così pure la persona tradita continuerà a vivere la sofferenza di un legame e di una vita spezzata. A cosa serve il perdono?

 

Invece dobbiamo dire che serve. È vero che non riporta le persone alla situazione precedente, ma mette le basi di un mondo nuovo. È come il tempo che segue alla guerra. Non si possono eliminare le macerie, le distruzioni, le morti; ma si creano le disposizioni per ricreare un mondo di normalità e di pace. Invece di rimanere succubi del male prendendo un atteggiamento passivo e rinunciatario, o di volerlo continuare facendo agli altri quello che gli altri hanno fatto a noi, si reagisce con la volontà di togliere il male. Chi perdona vuole che la vita riprenda; chi non perdona resta chiuso nel male e nelle macerie prodotte.

 

Questo non significa che il perdono non debba passare anche attraverso la punizione del delinquente; anzi, la punizione è uno degli elementi che contribuisce alla ricostruzione di un mondo nuovo (per questo Rosaria Schifani chiedeva ai mafiosi che le avevano ucciso il marito di invocare in ginocchio il perdono). Ma significa che si esce dal mondo del male e si entra in un cammino che riporta nella vita delle persone e della comunità una speranza nuova di vita.

 

 

Conclusione

 

Ciò che conta è la persona umana e il suo bene. E se la punizione può concorrere a recuperare l'uomo, concorre ancor più il perdono, cioè quella forma di amore che nasce dall'amore misericordioso, che sa amare anche chi non è amabile e si propone di ricostruire in lui l'amabilità che ha distrutto in sé con l'azione malvagia. Gesù lo ha insegnato con le parole, ma soprattutto con la vita. E lo ha consegnato ai suoi fedeli come lo strumento più perfetto per portare la salvezza tra le sue creature. Non è detto che il perdono rinunci a punire; ma non si ferma alla punizione e mira al recupero della persona attraverso la forma più alta ed efficace dell'amore: come ha fatto Gesù stesso, che ha fatto vedere sullo sfondo la punizione dei malvagi, ma in primo piano ha posto se stesso in croce per riportarli alla vita.

 

Giordano Muraro

http://www.stpauls.it/vita

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