La relazione del Vicario del papa per la Città del Vaticano ha caratterizzato la seconda giornata del Congresso Eucaristico di Bari. «...Già nel 1845 Soren Kierkegard avvertì che il tempo stava diventando banale. È nota la sua folgorante affermazione: “La nave [cioè la società] ormai è in mano al cuoco di bordo...».
del 23 maggio 2005
Pienezza del tempo o vuoto del tempo?
 
In occasione del Giubileo dell’Anno 2000, da più parti venne sottolineato questo paradosso: mentre noi cattolici celebravamo la “pienezza” del tempo, la società soffriva per una lacerante percezione di “vuoto” del tempo. Lo scrittore Pietro Citati, facendo riferimento alla situazione della società del benessere, è arrivato a dire che il disagio esistenziale è “come un gas diffuso in ogni angolo dell’Occidente”. Ma già nel 1845 Soren Kierkegard avvertì che il tempo stava diventando banale. È nota la sua folgorante affermazione: “La nave [cioè la società] ormai è in mano al cuoco di bordo; e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani”. E pochi anni dopo Kierkegard, Gustave Flaubert confidò: “Mi sento vecchio, usato, mancante di tutto. Gli altri mi annoiano come me stesso. Ciò nonostante lavoro, ma senza entusiasmo e come si fa un compito. Non attendo altro dalla vita che una sequenza di fogli di carta da scarabocchiare in nero. Mi sembra di attraversare una solitudine senza fine, per andare non so dove”.
 
Nel secolo ventesimo questa patologia è diventata una epidemia. Tutti ricordiamo la conclusione alla quale arrivò lo psicologo Vittorino Andreoli, quando fu chiamato a studiare il caso dei giovani piemontesi, i quali, giocando a tirare sassi dal cavalcavia, uccisero una giovane sposa in viaggio di nozze. Andreoli disse: “Questi giovani non sono malati; non sono neppure cattivi. Purtroppo sono vuoti: e quindi incapaci di distinguere il bene dal male”. La diagnosi è terribile! Però non dimentichiamo qual è il clima che genera questa deriva.
 
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E Norberto Bobbio, che si è sempre dichiarato ateo, sulla rivista “Micro Mega” alcuni anni fa rilasciò questa singolare confidenza: “Siamo circondati dal mistero. Sento di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una risposta alla domanda ultima [è drammatica ... questa dichiarazione!]. La mia intelligenza è umiliata. E io accetto questa umiliazione”. Ma – tutti lo sappiamo bene per personale esperienza – l’umiliazione non è ancora umiltà! E, proprio per questo, la conclusione di Bobbio è veramente amara: “Io accetto questa umiliazione, ma non cerco di sfuggire ad essa con la fede”. Non voglio esprimere giudizi su questa affermazione; a me sta a cuore sottolineare come in queste parole si percepisca il sentimento della sconfitta della ragione umana staccata dalla fede in Dio. Gli stessi Max Horkheimer e Theodor Adorno, che con Herbert Marcuse sono stati gli esponenti più illustri della Scuola di Francoforte, hanno riconosciuto la sconfitta della ragione che si è proclamata autosufficiente e si è chiusa al mistero. Essi, con disarmante lealtà, hanno dichiarato: “L’Illuminismo, inteso nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma (ecco l’amara e ironica confessione!) la Terra interamente illuminata risplende all’insegna di una trionfale sventura”. Anche Giuseppe Prezzolini, al pari di Bobbio, al termine della sua lunga vita dichiarò: “Eccomi qui solo, disperato, senza verità, senza appoggio, senza nessuna voce che mi risponda a queste domande: dove sono? dove vado? da dove vengo? Non so chi interrogare”. E quasi afferrato da un sussulto e da un sospetto di speranza, aggiunse: “È mai possibile che la cara persona che lavora accanto a me e le immagini di coloro che ho incontrato non siano altro che accidenti meccanici (= fenomeni che accadono meccanicamente) di un mondo che si svolge senza requie e senza scelte in un silenzio spirituale assoluto, dove nulla conta, nulla vale, nulla ha senso?”. Questi interrogativi feriscono noi credenti in quanto credenti, cioè in quanto portatori di una meravigliosa risposta (la bella notizia!) che è la risposta riguardo al senso della vita: la risposta che hanno cercato Bobbio e Prezzolini.
 
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Un giorno per ricuperare il senso di tutti i giorni
 
La domenica, infatti, è il giorno in cui noi cristiani celebriamo e facciamo esperienza della “pienezza” del tempo, cioè del tempo riempito di significato da Dio attraverso la morte e risurrezione di Gesù. La morte e risurrezione di Gesù ci dicono che il tempo va verso un “oltre”, va verso un compimento, va verso una pienezza. Questa pienezza è il nuovo cielo e la nuova terra. È la nuova umanità già presente in germe dentro di noi, della quale Giovanni dice:
 
“E [Dio] tergerà ogni lacrima dai loro occhi;
non ci sarà più la morte,
né lutto, né lamento, né affanno,
perché le cose di prima sono passate” (Ap 21, 4)
 
Perché dobbiamo attendere un compimento dentro una storia, che ancora presenta ferite evidenti e lacerazioni impressionanti? Noi sappiamo che la salvezza dell’uomo sta nell’essere-con-Dio, perché Dio solo è vita e Dio solo è gioia: Dio solo, pertanto, può riempire la voragine dei desideri presenti nel cuore umano. Ma l’uomo, lo sappiamo bene, ha tagliato i ponti con Dio, usando la libertà per staccarsi orgogliosamente da Lui. E così è entrato nel mondo il peccato. Il peccato è entrato attraverso la libertà umana che è diventata peccato, cioè rifiuto di Dio. E con il peccato è entrata nel mondo la morte-rottura, la morte-lacerazione, la morte-sofferenza, riguardo alla quale l’apostolo Paolo ha esclamato: “Stipendio del peccato è la morte” (Rm 6, 23). E qual è la reazione di Dio di fronte al peccato dell’uomo? La reazione di Dio è una reazione d’amore: e così Dio ha mandato il Suo Figlio in mezzo a noi, affinché il Figlio potesse ricostruire un ponte di comunione tra Dio e noi. Dice l’apostolo Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio Suo Unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16).
 
E il Figlio di Dio si è fatto uomo: Dio è diventato Emmanuele, cioè Dio con noi! Questo è il cuore del tempo, è il fatto centrale di tutta la storia umana, davanti al quale dovremmo ogni giorno cadere in ginocchio con le lacrime agli occhi. E Gesù, con tutto il suo essere, è il contrario del nostro peccato. Mentre il peccato è rottura, odio, isolamento orgoglioso, egoismo gaudente e rifiuto di vivere per donarsi, Gesù è il volto stesso dell’Amore. Gesù, infatti, ci ha raccontato (è la parola usata da Giovanni in Gv 1, 18) il mistero di Dio come mistero di infinito Amore, al punto tale che, guardando Gesù, l’apostolo Giovanni arriva a formulare un’equazione divina: Dio è Amore (1Gv 4, 8. 16). Ma poiché la vita umana è essenzialmente imparare a morire (cioè imparare a esprimere la nostra libertà in un atto che ne riassuma tutte le potenzialità), Gesù, in quanto vero uomo, compie la sua missione soltanto nel suo ultimo atto: nel passaggio cioè da questo mondo infettato e reso opaco dal peccato ...
 
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Fu crocifisso per noi! Gesù, morendo, si è immerso nell’esperienza drammatica della morte, così come è stata costruita dai nostri peccati; ma, morendo, Gesù ha riempito d’Amore il morire e quindi l’ha riempito di presenza di Dio: con la morte di Cristo, pertanto, la morte è vinta, perché Cristo ha riempito la morte esattamente della forza opposta al peccato che l’ha generata: Gesù l’ha riempita di Amore! Questa è la ragione per cui “per le Sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53, 5). La Risurrezione infatti è già inclusa nella Crocifissione, così come il frutto è già potenzialmente presente nel seme. Questa verità è chiaramente affermata nel Vangelo di Giovanni, dove la Crocifissione viene presentata come un’elevazione; al punto tale che Gesù, parlando della sua morte, arriva a dire: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32-33). Questa elevazione è la Crocifissione che esplode in Risurrezione, perché nella Crocifissione si spacca la crosta della fragilità umana fatta propria da Cristo; e l’Amore di Dio fa irruzione nell’umanità di Gesù e la trasforma in un corpo risuscitato, in un corpo permeato dalla potenza della vita di Dio.
 
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L’esperienza cristiana, infatti, non è altro che l’esperienza di un incontro con Cristo Crocifisso e Risorto: questo incontro ci guarisce dalle ferite del peccato che continuamente si riaprono; questo incontro semina la vita in noi e dà senso alla nostra vita; questo incontro ci dà la forza e la spinta per attraversare il tempo ancora soggetto alle aggressioni del maligno; questo incontro tiene accesa dentro di noi l’attesa del compimento della liberazione: l’attesa del Signore che sta per venire!
Questo incontro con Gesù Crocifisso e Risorto si rinnova in ogni domenica: la domenica cristiana, infatti, è una immersione del tempo ferito nel tempo sanato, è una terapia del tempo svuotato attraverso l’incontro con Colui che è la pienezza del tempo: Gesù Cristo!
 
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La Pasqua dei cristiani
 
P. Jounel opportunamente osserva: “La risurrezione del Cristo dai morti, la sua manifestazione nell’assemblea dei discepoli, il pasto messianico preso dal Risorto con i suoi discepoli, il dono dello Spirito Santo e l’invio in missione: tale è la Pasqua cristiana nella sua pienezza. Tale è l’evento centrale della storia della salvezza, che ha segnato per sempre il primo giorno della settimana. Tutto il mistero che la domenica celebrerà è già presente nel giorno di Pasqua; la domenica non sarà null’altro che la celebrazione settimanale del mistero pasquale”. Una celebrazione – diciamolo subito – alla quale un cristiano non può rinunciare se vuole essere cristiano e vivere da cristiano. I primi cristiani lo capirono subito.
 
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I Martiri di Abitene testimoniano con il sangue, che nella partecipazione al “dominicum” è implicata l’identità cristiana: un vero cristiano, cioè, non può rinunciare all’Eucaristia domenicale! Ecco la pagina stupenda del racconto dell’interrogatorio del Martire Felice: “La rabbia ferina, sazia dei tormenti dei martiri, la bocca sporca di sangue, dava ormai segni di stanchezza. Ma fattosi avanti al combattimento, Felice, tale di nome ma anche per la sua passione, mentre tutta la schiera del Signore restava salda, incorrotta ed invitta, il tiranno, la mente prostrata, la voce bassa, l’animo e il corpo disfatti, disse: ‘Spero che voi facciate la scelta che vi permetta di continuare a vivere, quella di osservare gli editti’. Di contro, i confessori del Signore, invitti martiri di Cristo, quasi a una sola voce dissero: ‘Siamo cristiani: non possiamo osservare altra legge se non quella santa del Signore fino all’effusione del sangue’. Colpito da queste parole, l’avversario diceva a Felice: ‘Non ti chiedo se tu sei cristiano, ma se hai partecipato all’assemblea o se hai qualche libro delle Scritture’. O stolta e ridicola richiesta del giudice! Gli ha detto: ‘Non dire se sei cristiano’, e poi ha aggiunto: ‘Dimmi invece se hai partecipato all’assemblea’. Come se un cristiano possa essere senza la Pasqua domenicale, o la Pasqua domenicale si possa celebrare senza che ci sia un cristiano! Non lo sai, Satana, che è la Pasqua domenicale a fare il cristiano e che è il cristiano a fare la Pasqua domenicale, sicché l’uno non può sussistere senza l’altra, e viceversa? Quando senti dire ‘cristiano’, sappi che vi è un’assemblea che celebra il Signore; e quando senti dire ‘assemblea’, sappi che lì c’è il cristiano”. Queste parole sono il volto della domenica cristiana: un volto da riscoprire per riviverlo oggi con la stessa passione e la stessa convinzione, perché soltanto cristiani così ... profumano di risurrezione e diventano risposta credibile alla domanda di senso della vita, che prepotentemente riaffiora negli uomini d’oggi.
 
Conclusioni
 
Nella Lettera Apostolica Dies Domini del 1998, il Santo Padre Giovanni Paolo II così scriveva: “Questo anno (= il Giubileo del 2000) e questo tempo speciale passeranno, in attesa di altri giubilei e di altre scadenze solenni. La domenica, con la sua ordinaria ‘solennità’, resterà a scandire il tempo del pellegrinaggio della Chiesa, fino alla domenica senza tramonto. (...) Gli uomini e le donne del terzo millennio, incontrando la Chiesa che ogni domenica celebra gioiosamente il mistero da cui attinge tutta la sua vita, possano incontrare lo stesso Cristo Risorto. E i suoi discepoli, rinnovandosi costantemente nel memoriale settimanale della Pasqua, siano annunciatori sempre più credibili del Vangelo che salva e costruttori operosi della civiltà dell’amore” (Dies Domini, 87).
 
Perché questo accada è necessario che si percepisca la domenica non primariamente come un precetto, ma come un dono del Signore. Infatti la partecipazione comunitaria all’Eucaristia, che è il cuore della domenica, è un privilegio: e proprio perché è un privilegio ... il cristiano deve sentire l’obbligo interiore di parteciparvi. Se la nostra catechesi non riesce a trasmettere questa comprensione della domenica, il precetto apparirà odioso e incomprensibile e infruttuoso.
 
La domenica è il giorno del Signore e non ‘un’ora del Signore’: bisogna ridare ai cristiani la consapevolezza che il tempo che ci viene concesso di vivere acquista un senso e una bellezza e un fascino soltanto quando viene vissuto come kairós, cioè come opportunità di rispondere all’amore di Dio, che, in Cristo, già ci è stato offerto in modo sovrabbondante (‘eccessivo’ diceva S. Francesco). Il giorno del Signore è l’esplosione di un bisogno d’amare che deve restare acceso nell’intera settimana: per questo motivo tutta la domenica deve essere segnata dalle opere di carità in serena ma decisa alternativa alla domenica pagana, che si sta costruendo con i suoi riti e le sue assemblee.
 
Il giorno del Signore nasce da una con-vocazione, cioè da una chiamata a radunarsi per esprimere il mistero della Chiesa come famiglia che vive un’unica vita: la vita di Dio, la vita dell’amore e della comunione. Partecipare abitualmente in modo isolato all’Eucaristia (quasi sfuggendo la comunità!) è tradire il senso della domenica e il senso della Chiesa come con-vocazione. Bisogna che riscopriamo il significato profondo del radunarsi per l’Eucaristia: il radunarsi è epifania-manifestazione del mistero di Dio presente in noi e, pertanto, il radunarsi è l’antidoto alla solitudine e all’egoismo che caratterizza la società senza Dio.
 
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Il giorno del Signore ha bisogno di preparazione, soprattutto per la comprensione della Parola di Dio. Non è possibile arrivare alla domenica senza avere precedentemente incontrato la Parola in appropriati momenti di approccio e di approfondimento. La Liturgia della Parola è, da sempre, la prima mensa: ed è la condizione per capire il segno eucaristico e per gustarne il sapore spirituale. Sant’Ignazio d’Antiochia scrive: “Io mi rifugio nel Vangelo come nella carne di Gesù Cristo” (Philad., 5,1). E San Girolamo afferma: “Io penso che il Corpo di Gesù è anche il suo Vangelo” (Tract. de Ps 145). E Bossuet, in tempi più recenti, arriva a dire: “Il Verbo ha preso come una specie di secondo corpo, voglio dire la Parola del Suo Vangelo” (Secondo sermone per la domenica di quaresima). Partendo da un rinnovato incontro con la Parola di Dio è possibile entrare nel mistero affascinante della domenica per ripetere con i due discepoli di Emmaus: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre Gesù conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24, 32). Martin Buber (1879-1965), ebreo piissimo, nel suo celebre ‘Cammino dell’uomo’, scrive: “Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo: ‘Dove abita Dio?’ Quelli risero di lui: ‘Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?’. Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda e disse:’ Dio abita dove lo si lascia entrare’”. Martin Buber conclude: “Ecco qui ciò che conta in ultima analisi: lasciare entrare Dio”. Vale anche per noi: ciò che conta è lasciar entrare Dio nella nostra vita, spalancando le porte del cuore a Gesù Crocifisso e Risorto.
 
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