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La comunità, luogo del perdono da Giovani per i Giovani

Finché non accetto di essere un miscuglio di luce e di tenebre, di qualità e di difetti, d'amore e di odio, di altruismo e di egocentrismo, di maturità e di immaturità, io continuo a dividere il mondo in «nemici» (i «cattivi») e «amici» (i «buoni»); continuo ad erigere barriere dentro di me e fuori di me, a diffondere pregiudizi.


La comunità, luogo del perdono da Giovani per i Giovani

da GxG Magazine

del 21 maggio 2009

Se ammetto di avere debolezze e difetti, di aver peccato contro Dio e contro i miei fratelli e sorelle, ma che sono perdonato e posso progredire verso la libertà interiore e un amore più vero, allora posso accettare i difetti e le debolezze degli altri. Anche loro sono perdonati da Dio e possono progredire verso la libertà e l’amore; posso iniziare a vedere in loro la ferita che genera la paura, ma anche il dono che posso amare e ammirare. Siamo tutte persone mortali e fragili, ma siamo tutti unici e preziosi. C’è una speranza; tutti possiamo progredire verso una libertà più grande. Impariamo a perdonare.

In comunità è così facile giudicare e condannare gli altri. Chiudiamo le persone in categorie: «Il tale o la tale è così o cosà». Facendo in questo modo, rifiutiamo loro la possibilità di crescere. Gesù ci dice di non giudicare e condannare. È il peccato della vita comunitaria. Se giudichiamo, spesso lo facciamo perché in noi c’è qualcosa di cui ci sentiamo colpevoli e che non vogliamo guardare o lasciar vedere dagli altri. Quando giudichiamo, rifiutiamo gli altri, costruiamo un muro, una barriera. Quando perdoniamo, distruggiamo le barriere e ci avviciniamo agli altri.

Mi capita di giudicare troppo rapidamente le persone, i loro atti o il loro modo di esercitare l’autorità, senza sapere o senza aver assimilato tutti i fatti e le circostanze. È più facile parlare a partire dalle ferite che dal proprio centro, là dove Gesù è presente. Tanto facilmente si sottolineano le imperfezioni degli altri invece di sottolineare tutto quanto in loro è positivo!

Interiormente, tutti abbiamo ferite e fragilità; tutti possiamo aver paura di certe persone e delle loro idee; tutti facciamo fatica ad ascoltare gli altri e ad apprezzarli. Ma non dobbiamo lasciarci dominare dai nostri istinti psicologici: dobbiamo approfondire la nostra vita spirituale per essere più centrati sulla verità, sull’amore, su Dio; così parleremo e agiremo a partire da questo centro e non giudicheremo gli altri. Quando si parla a partire dalle ferite, molto spesso lo si fa per cercare di provare che si è qualcuno, perché si ha paura di scomparire, di non essere riconosciuti; per paura di perdere qualcosa. L’intonazione della nostra voce può rilevare una collera inconscia o un bisogno di dominare e controllare gli altri, o ancora la fretta o una tensione dovuta ad un turbamento interiore o all’angoscia. Non dobbiamo stupirci di parlare o agire a partire dalla nostra ferita, dai nostri meccanismi di difesa, e di giudicare troppo rapidamente gli altri. Questo fa parte della nostra umanità ferita. Invece, la ferita che tutti portiamo e che cerchiamo di fuggire, può diventare il luogo dell’incontro con Dio e con i nostri fratelli e sorelle; può diventare il luogo dell’estasi e della festa eterna delle nozze. La sensazione di isolamento, di colpa e di inferiorità che fuggiamo, diventa il luogo della liberazione e della salvezza.

 

Non possiamo accettare veramente gli altri così come sono e perdonarli se non scopriamo che Dio ci accetta veramente così come siamo e che ci perdona.

 

È un’esperienza profonda quella di sentirsi amati e portati da Dio con tutte le nostre ferite e la nostra piccolezza. Per me è stata una grazia e un dono, in questi anni vissuti in comunità, poter verbalizzare i miei peccati e chiedere perdono a Dio, presente nella persona di un sacerdote che ascolta e che dice: «Io ti perdono, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Accettare la responsabilità del nostro peccato e della nostra durezza di cuore e sapere che siamo perdonati, è una reale liberazione. Non devo più nascondere la mia colpa.

Non possiamo amare veramente i nostri nemici e tutto ciò che in loro è spezzato se non iniziamo ad amare ciò che in noi è spezzato. Il figliol prodigo, dopo aver scoperto in quale modo straordinario è amato dal Padre, non potrà mai giudicare alcuno. Come potrebbe rifiutare qualcuno, quando vede come il Padre l’ha accettato così com’era, con tutto ciò che in lui era spezzato? Il figlio maggiore, invece, ha giudicato perché non si era ancora fatto carico della sua ferita; era ancora nascosta nella tomba del suo essere, con la pietra ben rotolata sull’ingresso. Non possiamo amare veramente con un cuore universale se non quando scopriamo che siamo amati dal cuore universale di Dio.

La comunità è il luogo del perdono. Nonostante tutta la fiducia che possiamo avere gli uni negli altri, ci sono sempre parole che feriscono, atteggiamenti che prevaricano, situazioni nelle quali le suscettibilità si urtano. È per questo che vivere insieme implica una certa croce, uno sforzo costante e un’accettazione che è un mutuo perdono quotidiano. Se si entra in una comunità senza sapere che vi si entra per  imparare a perdonare e a farsi perdonare settanta volte sette, ben presto si resterà delusi.

Ma perdonare non è semplicemente dire a qualcuno che è in collera, che ha sbattuto la porta e che ha avuto un comportamento anti-sociale o «anti-comunitario»: «Ti perdono». Quando si ha il potere e ci si è ben stabiliti nella comunità, è facile «maneggiare» il perdono. Perdonare è anche capire che cosa si nasconde dietro questa collera o questo comportamento anti-sociale, capire quello che le persone vogliono dire attraverso il loro comportamento. Forse si sentono rifiutate. Forse hanno l’impressione che nessuno ascolta quello che hanno da dire oppure si sentono incapaci di esprimere ciò che è in loro. Forse la comunità è troppo rigida o troppo schiava dell’osservanza esteriore della legge e fissata nei suoi modi, forse c’è anche una mancanza di amore e di verità.

 

Perdonare è anche guardare dentro di sé e vedere cosa bisognerebbe cambiare, anche ciò per cui bisognerebbe chiedere perdono e riparare. Perdonare è riconoscere di nuovo - dopo una separazione – l’alleanza che ci lega con coloro con i quali non ci intendiamo bene; è aprirsi a loro e ascoltarli di nuovo.

 

È dar loro spazio nei nostri cuori. Ecco perché non è mai facile perdonare. Anche noi dobbiamo cambiare. Dobbiamo imparare a perdonare, e ancora perdonare, e sempre perdonare, giorno dopo giorno. Abbiamo bisogno della potenza dello Spirito Santo per aprirci in questo modo.

 

 

Liberamente tratto da J. Vanier, La comunità. Luogo del perdono e della festa, Jaca Book, Milano 19912, pagine 55-58.

 

 

 

 

 

Tracce di cammino…

 

1.                        Dopo aver invocato lo Spirito Santo, in atteggiamento di preghiera, leggi più volte e con attenzione i brani di vangelo di Luca 15,11-32 e Giovanni 8,1-11, chiedendoti cosa Gesù sta suggerendo alla tua persona e alla tua comunità attraverso queste parole.

2.                        Per approfondire il significato del perdono dal punto di vista della fede cristiana, leggi e medita, qualche pagina al giorno, il testo H.J. Nouwen, L’abbraccio benedicente. Meditazione sul ritorno del figliol prodigo, Queriniana, Brescia 200422, 216 pagine.

3.                        Prova a meditare sull’atteggiamento che vivi all’interno della tua comunità di appartenenza: ti capita di parlare o agire lasciandoti muovere dalla paura, dall’orgoglio, o mettendoti su di un piedistallo superiore agli altri…? Ci sono invece situazioni in cui vivi gesti di ascolto profondo e perdono autentico?

4.                        Il cammino del perdono comunitario è faticoso, soprattutto quando si tratta di relazioni molto consolidate. Perdonare non significa semplicemente dimenticare, ma guardare alle amicizie con ottica di fede. Se desideri interrogarti, in modo coinvolgente, insieme alla tua comunità, sulle dinamiche di influenza, potere, concorrenza attualmente presenti nel gruppo, vedi l’esercizio La poltrona dei diadochi proposto da K.W. Vopel, Giochi interattivi. Volume 4, Elledici, Torino 1994, alle pagine 83-85.

5.                        Confrontati con la canzone Xdono di Tiziano Ferro. Le sue parole ti sembrano convincenti? Cosa ti sembra che si muova nel suo cuore: disponibilità all’autentico perdono donato e accolto o si limita a proporre “buoni sentimenti”? Il perdono in senso cristiano: basta invocare Xdono o c’è del’altro?

6.                        Prova a gustare e riflettere sulla base delle provocazioni di questi film, che trattano tematiche in diverso modo connesse con il perdono: L’isola (Pavel Lunguine, 2008), Nel nome del padre (Jim Sheridan, 1994), L’uomo senza volto (Mel Gibson, 1993), Ricomincio da capo (Harold Rammis, 1993).

 

 

 

 

La poltrona dei diadochi

 

Obiettivi

In ogni gruppo c’è rivalità tra i vari membri. Nei gruppi molto affiatati i sentimenti di rivalità, laddove esistano, vengono affrontati e discussi insieme. Se qui ad esempio uno di noi parlasse troppo, cercasse di controllare o indirizzare il lavoro del gruppo o pretendesse di decidere se e quando è consentito fumare, di certo gli altri lo affronterebbero apertamente per discutere con lui dei sopraggiunti problemi di autorità e controllo.

In altri gruppi invece – meno affiatati – spesso i vari componenti hanno quasi paura di affrontare ed eventualmente risolvere insieme i loro problemi di potere. Quindi l’energia psichica di tipo aggressivo non viene indirizzata alla chiarificazione del rapporto ma a controversie apparentemente oggettive che portano via tempo ed energia: i problemi di potere e rivalità all’interno del rapporto riemergono quindi, in seguito sotto       forma di divergenze professionali spesso insormontabili sul piano del lavoro.

«La poltrona dei diadochi» è un gioco di interazione che aiuta i partecipanti a far emergere e a discutere fisicamente emotivamente e intellettualmente i problemi di potere e rivalità all’interno del gruppo. Ancora       una volta l’espressione di processi emozionali attraverso l’azione fisica permette di affrontare la valutazione finale con dati concreti alla mano e non con semplici teorie astratte.

 

Partecipanti

Dai 12 anni. I gruppi composti da persone adulte dovranno avere già una certa esperienza in fatto di dinamica di gruppo, oltre ad avere una resistenza fisica di livello normale. Dimensioni del gruppo: non più di 20 ragazzi.

 

Durata

Dai 45 ai 90 minuti.

 

Materiale

Una sedia piuttosto robusta (il più pesante possibile) che sarà la poltrona dei diadochi

 

Conduzione del gioco

Voglio proporvi un gioco che vi permetterà di scoprire che genere di equilibrio vi sia all’interno di questo gruppo tra potere, influsso e rivalità. Potrete scoprire quanta influenza pretendete di avere e quanta siete disposti ad averne per migliorare la vostra posizione.

Poiché nel corso di questo gioco dovrete far uso del vostro corpo, misurate prima il vostro grado di resistenza.

Ecco in cosa consiste l’esperimento. Immaginate che il nostro gruppo debba trasferirsi per quattro settimane in un piccolo monastero di clausura sperduto sull’Himalaya. Sarete dunque le uniche persone di tutta la regione. Dovrete arrangiarvi con le provviste a vostra disposizione, tenere in ordine la vostra stanza e organizzare da soli la vostra vita sociale. Naturalmente dovrete anche continuare a svolgere il lavoro che abbiamo iniziato qui tutti insieme.

Ci sarà però una grossa differenza rispetto alla situazione attuale: io non verrò con voi sull’Himalaya, resterò qui. L’unica cosa che posso fare intanto per voi sarà aiutarvi a scegliere un nuovo capogruppo. Per questo voglio proporvi un antichissimo rito elettorale.

Comincerò col mettere questa sedia, la cosiddetta «poltrona dei diadochi», al centro del gruppo. Qui potranno accomodarsi i miei successori. Nuovo capogruppo sarà o colui che verrà lasciato dagli altri a sedere tranquillamente su questa sedia per un minuto intero, oppure chi riuscirà da solo a stare seduto su questa stessa sedia per 10 minuti esatti. Queste sono le regole del gioco: nessuno potrà parlare durante la «procedura elettorale». Sulla poltrona dei diadochi potrà sedersi chiunque lo vorrà. E chiunque potrà far togliere dalla sedia il candidato in questione qualora non lo voglia avere come nuovo capogruppo nell’Himalaya. Potrete usare il vostro corpo, oppure la voce se vorrete fare dei versi ma non potrete assolutamente parlare. E ovviamente non dovrete far male a nessuno: vietato quindi dare botte, graffi o morsi. Capito tutto?... Bene, allora iniziate..

(Fermare il gioco esattamente dopo 10 minuti).

 

Spunti di valutazione

·            Chi o che cosa mi ha impressionato maggiormente?

·            In che modo ho partecipato?

·            Sono stato attivo o mi sono tenuto in disparte?

·            Che cosa ho provato durante le «elezioni»?

·            Come mi sento adesso?

·            C’è qualcuno che non volevo assolutamente come capogruppo? Per quale motivo?

·            C’è qualcuno che accetterei come capogruppo? Per quale motivo?

·            Si è giunti all’elezione di qualcuno come capogruppo? Questa persona si è imposta agli altri? Oppure è stata messa dagli altri sulla sedia?

·            Da chi viene accettato il nuovo capogruppo?

·            La cerimonia è stata molto dinamica?

·            Ci sono state «cruente» lotte di potere ? Se sì, tra chi?

·            Il gruppo ha dunque un capogruppo valido o piuttosto un uomo di paglia?

·            C’è stato qualcuno che ha agito da vero «referente» politico?

·            Come mi comporto di solito nelle questioni di potere? Aspiro qualche volta a ricoprire una posizione di leader? O preferisco farmi aiutare da un «eminenza grigia»?

 

L’esperienza ci dice...

Il gioco assume spesso dei toni drammatici, facendo emergere in tutto il suo vigore – per molti davvero inaspettato – la dinamica di potere spesso latente all’interno di un gruppo. Ci sono sempre alcuni membri che partecipano in maniera passiva, semplicemente osservando quel che accade. Spesso riemerge anche la paura delle botte tipica dell’infanzia.

Molti accettano volentieri di poter esprimere nuovamente da adulti la propria aggressività a livello fisico. E queste stesse persone che riescono a «sfogarsi» fisicamente, al termine del gioco si sentono sempre benissimo, anche se non sono diventate capogruppo. Almeno, però, hanno chiarito la loro posizione.

Spiegate eventualmente ai partecipanti che l’obiettivo di questo gioco non è quello di avviare un nuovo processo di selezione sociale tramite la forza dei muscoli, ma di chiarire sentimenti e processi interiori attraverso un rituale ben preciso.

 

Alessia Bego, don Paolo Mojoli

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