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«Katyn» di Andrzej Wajda

Il film Katyn del regista polacco Andrzej Wajda rievoca la strage compiuta dall'esercito sovietico nella primavera del 1940 quando diverse migliaia di ufficiali polacchi furono trucidati e sepolti in fosse comuni nella foresta di Katyn. Al termine della guerra, il regime comunista attribuì la responsabilità della strage ai tedeschi. Al centro del film non ci sono gli ufficiali assassinati, ma le donne private dei mariti, dei padri, dei figli. In mancanza di notizie certe, esse hanno aspettato per decenni il ritorno dei loro cari soffrendo ogni giorno le pene di una prolungata agonia.


«Katyn» di Andrzej Wajda

da Quaderni Cannibali

del 17 aprile 2009

Il film Katyn del regista polacco Andrzej Wajda è, prima di tutto, una lezione di storia (1). Il 17 settembre 1939, dopo che la Polonia era stata attaccata dalla Germania il 1° settembre, in base al patto Ribbentrop-Molotov, firmato a Mosca il 23 agosto dal ministro degli Esteri sovietico Vyacheslav Molotov e dal suo omologo tedesco Joachim von Ribbentrop, l’armata rossa attraversa il confine orientale polacco. Il patto prevedeva la spartizione della Polonia tra la Russia e la Germania. Con l’entrata in guerra della Francia e della Gran Bretagna contro la Germania (3 settembre 1939) scoppia la seconda guerra mondiale. Migliaia di cittadini polacchi fuggono dalla frontiera occidentale per rifugiarsi nelle regioni orientali. Su un ponte si incontrano due colonne di profughi che vanno in direzioni opposte. «Scappate! Di qua ci sono i tedeschi». «No! Scappate di là. Qui ci sono i russi».

 

La spartizione della Polonia

 

Tutti i militari polacchi della zona sono stati fatti prigionieri. I soldati sono nelle mani dei tedeschi. Gli ufficiali sono in quelle dei sovietici i quali, fra l’altro, non hanno firmato gli accordi di Ginevra. Tra i polacchi in fuga da Cracovia, occupata dai nazisti, c’è Anna (Maja Ostaszewska), giovane moglie di Andrzej (Artur Zmijewski), capitano dell’8° reggimento dell’esercito. Con lei c’è la loro figlia di cinque anni, Nika (Wiktoria Gasiewska). Anna sta cercando di raggiungere suo marito, catturato dai sovietici e prigioniero in una zona di confine insieme a migliaia di altri ufficiali. Durante il viaggio, Anna incontra una donna, Róza (Danuta Stenka) moglie del generale dell’8° reggimento, e sua figlia Ewa (Agnieszka Kawiorska) che procedono in senso inverso al suo. Hanno capito che il generale non sarà rilasciato. Arrivata nel luogo dove suo marito è tenuto prigioniero, Anna lo vede in compagnia di un subalterno, Jerzy (Andrzej Chyra). Anna supplica invano suo marito di togliersi la divisa e fuggire con lei e la bambina. Ma un ufficiale polacco non antepone all’onore il proprio tornaconto e nemmeno gli affetti familiari. Andrzey promette alla moglie che le scriverà ogni giorno e annoterà su un taccuino tutto quello che accade. Un treno lo porta via.

 

In meno di un mese tutte le province orientali della Polonia vengono occupate dai sovietici. Circa 18.000 ufficiali, 23.000 soldati e 12.000 agenti di polizia sono fatti prigionieri. Nel frattempo a Cracovia, in casa dei genitori di Andrzej, Jan (Wladysáaw Kowaáski) professore all’Università, è convocato dalle SS insieme ad altri docenti che vengono tutti arrestati e deportati in campi di concentramento. In quello di Kozielsk, nella zona occupata dai sovietici, dove sono stati rinchiusi gli ufficiali polacchi, paure, dubbi, rimpianti si susseguono nell’animo dei prigionieri. Tra di loro c’è un giovane pilota, Piotr (Pawel Malaszynski), che tenta di suicidarsi. Il generale (Jan Englert) incoraggia i soldati e tiene alto il loro morale. Tra i prigionieri c’è anche un sacerdote in divisa che esercita con discrezione il suo ministero. La corona del rosario assume evidenza plastica nelle immagini del film relative ai  momenti più dolorosi. Andrzej ha l’uniforme logora e il suo amico Jerzy, per ripararlo dal freddo, gli regala un maglione sul quale è ricamato il suo nome.

 

Anna è bloccata con la figlia nella zona di occupazione sovietica. Le sue ripetute richieste di tornare a Cracovia vengono respinte perché è la moglie di un ufficiale. Un ufficiale dell’armata rossa, che la prende a benvolere, l’aiuta a tornare a casa. Anna si rifugia con la figlia presso la madre di Andrzej (Maja Komorowska), le dice che da un mese non ha notizie del marito e viene a sapere che Jan è stato catturato dalle SS e mandato in un lager. Arriva un pacco dalla Germania con la notizia che Jan è morto nel campo di concentramento. Il 5 marzo 1940 il Politburo del Partito Comunista decide di fucilare circa 15.000 prigionieri di guerra polacchi. Stalin firma l’ordine. In aprile i russi cominciano a deportare i primi gruppi di ufficiali polacchi prigionieri. Andrzej, Piotr e il generale vengono caricati assieme agli altri su un treno merci diretto verso una destinazione ignota. L’unico a restare è Jerzy. Il 10 aprile 1940 gli ufficiali polacchi portati fino a Gniezdovo vengono trucidati uno per uno e gettati nelle fosse comuni scavate nella foresta di Katyn.

 

Com’è noto, la guerra subisce una svolta quando, il 22 giugno 1941, Hitler decide di invadere la Russia. Stalin unisce le proprie forze a quelle degli Alleati per combattere contro la Germania. Nella sua avanzata verso Est, l’armata tedesca scopre le fosse di Katyn nell’aprile del 1943. Radio Berlino annuncia il ritrovamento dei corpi di 3.000 ufficiali polacchi uccisi e gettati nelle fosse comuni della foresa di Katyn. L’identificazione delle vittime è facile. I bolscevichi hanno lasciato sui corpi i documenti di identità. Per le strade di Cracovia gli altoparlanti leggono l’elenco degli ufficiali uccisi. La moglie del generale viene così a sapere della morte del marito. Anna invece, non sentendo il nome di Andrzej, non smette di sperare. La moglie del generale e sua figlia vengono convocate dal comando delle SS per ricevere una medaglia al valore conferita da Hitler al loro congiunto e per testimoniare che il massacro è avvenuto per mano dei sovietici. Róza rifiuta di avallare la versione dei fatti sostenuta dalle forze occupanti ed è costretta a guardare un filmato, girato dai tedeschi, con la macabra scoperta delle fosse comuni. Nel filmato appare anche un sacerdote, padre Jasinski, che benedice le salme degli uccisi.

 

La ricerca della verità

 

Nel 1945 gli Alleati entrano in Polonia. L’esercito russo prende il controllo di tutto il Paese. Secondo la versione ufficiale, imposta dai sovietici, l’eccidio di Katyn non è avvenuto per mano dei russi nella primavera del 1940, ma per mano dei tedeschi nell’autunno del 1941. Jerzy, tenuto in vita solamente perché ha accettato di confermare la versione sovietica, è arruolato nell’armata rossa. Torna a Cracovia e va a trovare Anna. Rivede anche Nika e la madre di Andrzej. Le donne, avendo sentito il nome di Jerzy nella lista delle vittime di Katyn, pensavano che fosse morto. Jerzy racconta loro di aver dato ad Andrzej il maglione con sopra il suo nome. Per questo è finito nella lista al posto dell’amico. Per la famiglia di Anna è la fine di un sogno. Profondamente scosso dal dolore della tre donne, Jerzy si rivolge a un professore di chimica che gestisce l’archivio con gli oggetti personali degli ufficiali uccisi a Katyn e chiede che gli oggetti indicati con il suo nome vengano consegnati alla famiglia di Andrzej.

 

Durante la proiezione di un documentario di propaganda sovietica sulle fosse di Katyn, che avviene nella piazza principale di Cracovia, nel quale i sovietici danno la colpa del massacro ai tedeschi, Jerzy incontra la moglie del generale. Róza, che sta vedendo per la seconda volta le stesse immagini con un commento che dice il contrario di quello che aveva udito la prima volta, accusa Jerzy di tradimento e di diffondere una menzogna. Colto dal rimorso, Jerzy si spara alla nuca dandosi così la stessa morte dei suoi compagni trucidati a Katyn. Padre Jasinski (Krzysztof Kolberger) convoca nella sua parrocchia Agnieszka (Magdalena Cielecka), sorella del pilota Piotr, e le consegna una foto che la ritrae con il fratello e l’altra sorella, Irena. Agnieszka chiede al negozio di foto gestito da Anna di duplicare la fotografia per consegnarne una copia alla sorella. Anna rivede dopo quattro anni un nipote di nome Tadeusz (Antoni Pawlicki), tornato a Cracovia perché vuole iscriversi all’Università. Nella scheda di iscrizione il ragazzo deve inserire le generalità del padre e non esita a scrivere che è morto a Katyn nel 1940, ucciso dai sovietici. La preside della facoltà, Irena, sorella di Piotr e Agnieszka (Agnieszka Glinska), lo invita a modificare i dati. Secondo lei Tadeusz deve scrivere che suo padre è morto nel 1941, ucciso dai tedeschi, come prevede la versione sovietica. In caso contrario, la sua domanda non sarà accolta. Il ragazzo si rifiuta e, uscito in strada, danneggia alcuni manifesti di propaganda sovietica. Notato dai militari, viene inseguito e investito nella fuga da una jeep.

 

Agnieszka decide di vendere i suoi lunghi capelli biondi per farne una parrucca da teatro. I teatri ebrei, infatti, hanno difficoltà a mettere in scena ruoli femminili perché le loro attrici sono tornate da poco dai campi di concentramento completamente rasate. Con i soldi della vendita Agnieszka fa costruire una lapide per il fratello Piotr e fa incidere sul marmo la data di morte: aprile 1940. Sua sorella Irena non è d’accordo con lei. Intanto è già iniziata la dittatura comunista che governerà la Polonia per decenni. Agnieszka non desiste dal suo proposito e porta la lapide in parrocchia dove il nuovo parroco (nel frattempo padre Jasinski è stato portato via dai militari) le vieta di esporla. Decide allora di metterla in un cimitero pubblico, ma lei sarà arrestata e finirà nelle camere di tortura, mentre la lapide verrà distrutta. Nella casa di Anna bussano alla porta. È un assistente del professore di chimica che Jerzy ha incontrato prima di morire. L’assistente consegna ad Anna una busta con gli oggetti personali del marito. Al suo interno c’è anche il diario nel quale Andrzej ha annotato, fino all’ultimo momento, tutto ciò che accadeva intorno a lui.

 

La tragedia di Katyn, sfruttata a scopi propagandistici dai tedeschi e occultata dai russi, è stata considerata a lungo come un argomento tabù. Per decenni il regime comunista polacco fu costretto a difendere i sovietici e a impedire ogni commemorazione di quella strage che era stata compiuta per annientare la futura classe dirigente polacca in vista di un diverso assetto politico e militare del Paese. Il velo della menzogna ufficiale è stato squarciato il 13 aprile 1990, quando a Mosca, durante l’incontro con il presidente polacco Jaruzelski, Gorbaciov, consegnandogli due pesanti contenitori di cartone nero con dentro i nomi dei polacchi massacrati, ammise la responsabilità sovietica, dando la colpa a Beria, e disse: «È doloroso, ma indispensabile parlare oggi di quella tragedia. Il cammino del rinnovamento e della comprensione passa soltanto attraverso la verità».

 

Tra gli ufficiali polacchi uccisi c’erano anche molti parenti di personalità di prestigio nell’ambiente polacco, tra i quali il padre del regista Andrzej Wajda, che dedica questo film alla memoria dei suoi genitori. «Mia madre ed io — dice il regista — siamo stati convinti per anni che mio padre fosse ancora vivo. Nelle liste di Katyn infatti il cognome Wajda compariva associato, per errore, al nome Karol, mentre il nome di mio padre è Jakub. Non vorrei tuttavia che il film fosse interpretato come la mia personale ricerca della verità o come  una lampada accesa sulla tomba del capitano Jakub Wajda. Vedo il mio film su Katyn come la storia di una famiglia separata per sempre, un film di sofferenze individuali che evoca immagini di grande emozione in rapporto ai crudi fatti della storia. Al centro del film non ci sono gli ufficiali assassinati, ma le donne in attesa del loro ritorno ogni giorno, ogni ora, in preda a un’incertezza disumana. Donne fedeli e risolute, che non aspettavano altro che aprire la porta di casa per rivedere l’uomo a lungo atteso».

 

1 Andrzej Wajda è nato a Suwaáki nel 1926. Ha intrapreso la carriera cinematografica nel 1950. Ha acquistato fama, anche fuori dalla Polonia, con i film I dannati di Varsavia (1957) e Cenere e diamanti (1958). Ha accompagnato le trasformazioni sociali e politiche del suo Paese con pellicole come L’uomo di marmo (1976) e L’uomo di ferro (1981). Oltre a numerosi premi internazionali, nel 2000 ha ottenuto l’Oscar alla carriera e sei anni più tardi l’Orso d’oro alla carriera della Berlinale (cfr V. FANTUZZI, «Andrzej Wajda da “L’uomo di marmo” a “L’uomo di ferro”», in Civ. Catt. 1982 I 363-371).

 

© La Civiltà Cattolica 2009 II 163-167   quaderno 3812

 

Virgilio Fantuzzi S.I.

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