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Incontro con Roberto Benigni su “La tigre e la neve”.

In rete circolano già diverse versioni dell'incontro di Benigni con la stampa, tutte, ovviamente, parziali, data la lunghezza della conferenza. Proponiamo un resoconto completo dell'incontro con il regista, con l'attrice e produttrice Nicoletta Braschi e con il compositore Nicola Piovani, autore della colonna sonora.


Incontro con Roberto Benigni su “La tigre e la neve”.

da Quaderni Cannibali

del 09 ottobre 2005

Nella prima scena di La tigre e la neve lei riesce a far comparire, grazie a delle immagini di repertorio, quattro grandi autori ormai defunti quali Jorge Luis Borges, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, e Marguerite Yourcenar. Dove è nata l’idea di “digitalizzare la poesia”?

 

Benigni: I poeti compaiono all’interno di un sogno. Certo si potrebbe cercare una metafora, una simbologia, chiedersi come mai ho scelto proprio questi quattro poeti… Ebbene sono gli unici che ho trovato disponibili. È un fatto tecnico, sono poeti che si conoscono, almeno in Italia. Alcuni riconosceranno Montale, Ungaretti, Borges e la Yourcenar. Ma anche se qualcuno non li riconosce, sono bellissimi lo stesso perché sono quattro facce da sogno, sono quattro facce bellissime di signori straordinari che ci hanno fatto sognare. Poi c’è Tom Waits che è un’altra faccia da sogno, l’ambiente è tutto onirico…

 

Come mai nel film ha utilizzato una scena del film “Il buono, il brutto e il cattivo”?

 

Benigni: C’è ovviamente una ragione, ma non è quella di citare Sergio Leone. Serviva nella sceneggiatura per creare una narrazione per quella scena. Alla fine serve di più come spettacolo che non come citazione.

 

Signora Braschi questo film si avvale di una produzione molto moderna…

 

Braschi: Ci siamo occupati autonomamente del film, Melampo Cinematografica ha finanziato le riprese, abbiamo girato prima a Roma, poi negli studi di Cinecittà in Umbria e poi in Tunisia. Per quanto riguarda gli effetti speciali, la parte a cui tenevamo di più era la realizzazione delle scene di guerra, ci siamo rivolti ad un consulente americano che è anche il consulente per i film di Steven Spielberg.

Per quanto riguarda gli animali la tigre ha lavorato per mezz’oretta, non voleva uscire dalla gabbia, allora hanno inventato un gioco: con il gioco è uscita. Il canguro era il più fragile, il più delicato, ha lavorato per un giorno o due, poi si è stancato.

 

Benigni, lei dà un grande valore all’amore per la vita, tutto nei suoi film si risolve nell’amore. Non teme che qualcuno si aspetti un film più politico, più schierato? O di essere accusato di buonismo?

 

Benigni: Non mi sembra che il film sia buonista. Certo non è ideologico. Però mentre certe opere sulla guerra sono dirette alla testa, sono documentaristiche o hanno un punto di vista energico, credo che questo vada al cuore, che è più pericoloso, più forte. Questo è un film che squarcia il cuore, ovvero la parte più profonda del nostro pensiero, della nostra anima. Credo che questo film entri prepotentemente, consciamente o inconsciamente, nella coscienza dell’anima come un discorso contro la guerra proprio perché non è molto buonista, ma prepotentemente di cuore, è anche feroce. C’è una scena in cui c’è anche una forte violenza: quando muore una persona si sa che muore tutto il mondo, non è che muore solo lui. E il tentativo di salvare una vita si può definire un classico, il discorso dell’amore che vince sulla morte: può sembrare una cosa banale, ma è sempre più nuova, perché non si finisce mai di doverlo dire. Io non pretendo di essere Esopo, non ci tengo né ci tesi mai, come diceva Petrolini, anche se mi piace, però intendo far distrarre e commuovere, questa è l’unica cosa che si può fare. Non è che l’arte o i film salvano il mondo, però ci consolano. Allora vedere bella una storia d’amore circondata da miriadi di scintille intorno… Non credo che si possa tacciare di buonismo il film. Credo anzi che si tratti di qualcosa di molto molto più potente, senza ideologie e per questo molto più forte contro la guerra: vediamo questo povero ometto che combatte la sua guerra personale; mentre fuori ci sono i soldati americani con il mitra seduti sul carro armato, lui sta seduto su una sedia di barbiere con uno scacciamosche. Una mattina c’è uno sguardo tra il protagonista e uno dei soldati, ognuno dei due combatte la propria guerra. E quanto è più prepotente, più forte, più eroica e maestosa la guerra di quel povero ometto in confronto. È un film sulla forza del sentimento, sulla forza dell’amore che ci fa andare là dove nessun angelo o demone oserebbe mettere piede. È un film sulla forza del sentimento che è la forza più sovversiva e più rivoluzionaria e più potente del mondo, è la forza dell’amore. Naturalmente, tutto questo deve emozionare, perché se non arriva l’emozione siamo rovinati!

Quando ho pensato questo film sono stato trainato trasportato: i soldati, come diceva Cassola (il poeta Carlo Cassola, ndr) sono disoccupati armati, si capisce che stanno lì così. Il discorso contro la guerra, se fatto in maniera diretta, ti rimbalza indietro; invece il discorso è indiretto, evocativo, perché non si può rappresentare la guerra in modo tale da umanizzarla, sarebbe un errore narrativo. I fatti di sangue, le cose più terribili vanno sempre evocate, così hanno una forza superiore. La guerra è sempre sullo sfondo ed è importante che sia proprio questa guerra, dove per la prima volta si fanno le azioni antiterrorismo e un comico fa la parodia di un kamikaze. È l’attualità e per questo è un’immagine molto forte e molto potente da un punto di vista stilistico. L’aspetto bello del comico è la capacità non solo di fare ridere, ma anche di andare a penetrare zone sconosciute con la grazia, la leggerezza, la forza e la ferocia di cui è dotato.

Il suo film sembra trarre grande forza dai monologhi, è un continuo narrare, ci sono poesie in tutto il film. Viene nominato anche Walt Whitman…

 

Benigni: Dal punto di vista della guerra o sui contenuti o sul significato… Gli artisti sono come dei sonnambuli, quando fanno le loro cose hanno una grazia sconcertante, quando fanno delle opere d’arte o delle opere di poesia si muovono con quella grazia addormentata e vanno avanti e superano tutti i pericoli, ma se li si sveglia e gli si fa una domanda fuori dall’arte, una domanda come questa, cominciano ad essere goffi. Inciampiamo, non sappiamo cosa rispondere. Proprio per questo l’arte deve rappresentare questo sogno e questo miracolo che avviene quando qualcosa si muove come un sonnambulo, con la stessa grazia e leggerezza. Lui è un poeta un po’ forte, non è dolciastro per niente, anzi. Forse è la prima volta, credo ci siano stati casi rarissimi, che vediamo come protagonista un poeta. Già questa è una cosa rivoluzionaria: vedete un cittadino qualunque e vedete la sua visione della guerra e del mondo, vedete che lo sfiora. La scena del check point, quando i soldati lo fermano e continuano a ripetere “poeta”, è di grande forza, è una grande scommessa.

Walt Whitman viene nominato di proposito. Volevo proprio che il generale americano con quell’arma e con quella faccia ripetesse con la propria voce quel nome, quasi fosse una reminiscenza scolastica, un qualcosa che viene da lontano, dal profondo. Creava un certo contrasto.

Su questo film ho puntato tutte le giacche che avevo! Ci sono la commedia e la tragedia insieme. Ci sono le parti commoventi e quelle in cui ci si distrae. Per quanto mi riguarda però sono soprattutto gli attori che danno credibilità e verosimiglianza. Nella commedia ancora più che nella tragedia e in tutti gli altri stili sono gli attori che rendono credibili e verosimili qualsiasi emozione.

 

Cosa ci può dire degli altri due protagonisti del film?

 

Benigni: Vorrei ringraziare Jean Reno, che è stato coraggioso ad accettare un ruolo (il poeta iracheno Fuad, ndr) che non appartiene alla sua “storia” di attore. È stato straordinariamente bravo. A Parigi gli avevo accennato in tre parole di cosa si trattava, non ha voluto neanche leggere il copione, ha detto subito di sì. Interpreta il ruolo di un poeta iracheno e ha imparato non l’arabo, ma proprio l’iracheno e anche l’italiano, con una professionalità e un amore per il film che ci ha proprio abbracciati.

La protagonista è Nicoletta Braschi (Vittoria, la donna amata da Attilio, ndr). È tanto tempo che lavoriamo insieme, ma ogni volta la scelgo perché mi sembra proprio colei che meglio rappresenta dal punto di vista artistico le qualità che cerco. Il suo personaggio è una donna elegante, severa, misteriosa e dolcissima. Solo lei con pochi sguardi è riuscita a dare verosimiglianza a questo carattere. Se il film vi ha suscitato qualche emozione, la storia è importante, ma nel cinema sono gli attori la parte, il cuore principale.

 

Signora Braschi come attrice, ma soprattutto come moglie, cosa ha provato, pur dovendo rimanere immobile in un letto, nel sentire quei monologhi così pieni d’amore?

 

Braschi: Quando il mio personaggio era in coma, io recitavo, non potevo certo pensare alle mie cose personali. Non è facile stare fermi e evitare di deglutire ad esempio. Ero concentrata su questo. Quando lavoro per Roberto, quando cioè lui è il regista e io sono l’attrice, sono uno strumento nelle sue mani, nelle mani del regista. Invece come produttore condivido con lui la responsabilità di tante scelte, soprattutto le scelte estetiche. È un grande impegno di responsabilità.

 

Nel momento in cui sa di essere stata scritturata da Roberto, quando viene a sapere come sarà il suo ruolo? E può intervenire sul personaggio?

 

Braschi: Dopo tanti anni di collaborazione Roberto dall’inizio mi racconta quale sarà il mio personaggio, quindi mi avvantaggio con i tempi. Poi come produttore seguo il lavoro fin dall’inizio. Gli propongo delle cose ogni tanto, se mi sembra il caso, ma con molta circospezione, come faccio sempre con ogni regista.

Benigni lei nel film non fa riferimenti religiosi se non quando si trova in un territorio di guerra e a quel punto però non si rivolge a Dio, come farebbe un italiano, ma invoca Allah. Come mai?

 

Benigni: Non è il caso di andare a cercare troppi significati perché si rischia di perdere quello che si ha davanti. E questo film è proprio ciò che si vede. Che la guerra è brutta lo sappiamo tutti. È uno spettacolo terribile; uno spettacolo più triste di una guerra vinta è soltanto una guerra persa. È la passione più forte dell’uomo, se si va a vedere, dal 3000 avanti Cristo non c’è un periodo senza guerre. Per quanto riguarda i riferimenti religiosi, in questo film non c’è un discorso di questo tipo. Io credo in Dio, vengo dall’Italia, sono cresciuto sotto il suono delle campane, ma non parlo mai di Dio se non come lo può fare un poeta. Nel film mi rivolgo ad Allah che è lo stesso nostro Dio, solo che parla arabo; e mi rivolgo a lui recitando il Padre Nostro, che è una bellissima preghiera le cui parole sono le uniche che ci ha lasciato Gesù Cristo, ed è uno dei miei momenti preferiti. E poi c’è questa voglia di vivere, di fare tutto per la donna che il protagonista ama, una voglia di vivere che è il contrario di quello che la cinematografia, e a volte anche la letteratura, di questi tempi trasmette, è una voglia di vivere quasi disperata. C’è una frase che dico all’amico poeta che poi è anche quello che penso nella vita: morire non mi piace per niente e infatti sarà l’ultima cosa che faccio. E lo trasmetto nel film. È una voglia di vivere che accetta tutti gli aspetti, compreso il dolore. Infatti la scena della lezione è piena di ossimori, di contrapposizioni perché non si sa bene dov’è la verità però l’importante è cercarla.

 

Attilio, poeta folle, nel film sopravvive, mentre Fuad muore. Perché?

 

Benigni: Come dicevo prima, non bisogna andare a cercare un significato o una metafora particolare, altrimenti ci incartiamo e non ne usciamo più. Così è la storia: come avviene in tutte le guerre le persone sensibili muoiono e si suicidano. È già accaduto purtroppo molte volte, perché non ce la si fa a sopportare la volgarità e l’orrore della guerra. È il suicidio di Fuad è indissolubilmente legato a questo. L’altro si salva, ma non per un motivo particolare legato magari alla follia.

 

La colonna sonora potrebbe sembrare una musica un po’ “felliniana”. Cosa ci potete dire in proposito?

 

Benigni: Sarebbe un complimento altissimo, ma non ritengo la musica del maestro Nicola Piovani “felliniana”. In questo film la musica cambia i percorsi di ogni battito del cuore. Come gli sguardi degli attori, la musica è il metronomo di ogni battito del cuore. Ad esempio quando il poeta Fuad si uccide all’inizio c’è un silenzio in cui è presente solo il vento e poi quando sbattono le porte inizia la musica. È il momento più alto del film. La difficoltà era entrare nelle musiche della storia d’amore per poi entrare nella storia dell’orrore. Questa colonna sonora è un lavoro straordinario davanti al quale io mi sono già inchinato sette o otto volte.

Piovani: L’ambizione non era quella di realizzare una musica “felliniana”. Quando lavori a un film, soprattutto un film che ti appassiona, di cui ti innamori come in questo caso, il desiderio è quello di entrarci dentro il più possibile, con passetti e passoni, con la sonorità. Io spero invece che questa musica sia “benignesca”. Questo film mi ha dato la possibilità di lavorare con la passione. Roberto è innamorato della storia e del film e ha la capacità di trasmetterlo alle persone con cui collabora, ma questo ti fa anche aumentare la paura di sbagliare. E poi dentro questo film tra gli altri regali ho trovato una meravigliosa canzone di Tom Waits (“You Can Never Hold Back Spring”, ndr), che accompagna il sogno del film e lavorare in parte su quel materiale è un lusso.

L’idea de La tigre e la neve è nata in collaborazione con Vincenzo Cerami, che ha firmato anche la sceneggiatura. Come vi siete divisi i ruoli in questo lavoro? Da chi nasce il sentimento che attraversa tutta la narrazione?

 

Benigni: In questo film io sono regista, attore e sceneggiatore… Abbiamo fatto le primarie in produzione e ho vinto io. È un film “ad personam”, si potrebbe definire un “salva-Benigni”.

Il metodo di lavoro di una sceneggiatura è un metodo ormai consolidato da molti anni da un rapporto che è di amore e di amicizia.

Io ho provato il desiderio forte, di quelli che ti spaccano il ventricolo destro del cuore, di voler fare un film dove un personaggio ne ama un altro in una maniera che mi piace tanto. Perchè l’amore è una follia, ti fa fare cose folli: non è quella cosa fatta di fidanzatini e di fedine, è una tigre feroce che ti si attacca addosso e ti strappa. L’amore è una cosa che sconvolge il mondo, non è una cosa che ti fa portare i fiorellini. Questo mi piaceva, questo sentimento dell’amore è prepotente, spasmodico, è presente in tutti i tempi. Dunque l’idea nasce da qui, da come esprimere questo sentimento. E si sa che tutte le più grandi storie d’amore si svolgono vicino alla guerra, ma non andava bene una guerra qualsiasi. Il desiderio era quello di scrivere una storia d’amore che mi facesse piangere e divertire. Questa idea mi aveva avviluppato e non me ne liberavo. E andavo tutti i giorni in apnea, a fondo a cercare delle gemme, ma non trovavo niente e tornavo a galla senza fiato. Per mesi ho vissuto questa specie di apnea. E poi volevo raccontare questa storia con semplicità. Come dice Flaubert a proposito dei romanzi, il regista dovrebbe essere come Dio nell’universo: presente ovunque, ma visibile in nessun luogo. Quello era il modo di volerlo scrivere e quando lo si scrive con l’ausilio di Vincenzo Cerami, con la bellezza e la grandezza di un autore che ha una struttura narrativa e una forza straordinaria… È uno che sorveglia sempre il comico, sta lì passo passo e ha delle grandi idee. Non sarebbe giusto dire che una cosa l’ho pensata io e un’altra l’ha pensata lui; diciamo che la scintilla che ha determinato la nascita della storia è venuta da parte mia, tutto il resto lo si è fatto insieme.

 

Che cos’è per lei il coraggio?

 

Benigni: Il coraggio è la qualità più alta dell’uomo. Sul coraggio si è fondata l’epica; e questo è un film epico, non è intimo. La caratteristica di ogni epicità è la pietà. Lo sguardo di pietà con cui si guarda a qualsiasi paese e a qualsiasi persona che soffre. Attilio durante la lezione dice “non abbiate paura di soffrire” e “per trasmettere la felicità bisogna essere felici e soffrire”, questo è il prezzo del dolore. Il coraggio è una qualità che viene sempre associata alla guerra, in realtà va associata all’epica e all’amore, perché è soprattutto per amare che bisogna avere un coraggio spaventoso; ci vogliono Ulisse, Aiace, Patrloco Achille, Garibaldi e Gasparri messi insieme. Perché quando ci si innamora ci si lascia andare, ci si spoglia e si è nudi, si nasce per la prima volta. Quindi si può morire solo se ci si innamora. Se non ti innamori non nasci mai, quindi non puoi neanche morire perché non sei mai nato. Quindi per innamorarsi bisogna avere un coraggio “spreponderante”, ecco un termine nuovo che piacerebbe a Gadda…

Da anni molti la considerano un poeta. In questo film lei stesso interpreta il ruolo di un poeta e si incorona da solo. Di chi è stata l’idea?

 

Benigni: Il poeta diventa un cittadino qualsiasi. Ha le caratteristiche che normalmente la gente associa alla figura del poeta. È una persona che vive normalmente, ha delle figlie. Nella prima parte, attraverso la storia dell’uccellino che può sembrare un po’ dolciastra lui insegna alle bambine anche una tecnica della poesia. È quasi come un lavoro, quello di trovare le parole e metterle in un modo: è come un falegname, un ferramenta, deve cercare le parole, trovare l’ispirazione, a volte devono aspettare mesi e mesi. Quando stavo lavorando alla sceneggiatura de Il piccolo diavolo, Federico Fellini mi chiese “perché non la scrivi insieme ad Andrea Zanzotto (poeta trevigiano, ndr)?”. Lo chiamò davanti a me e lui mi disse “ma non so i suoi tempi, io a volte per trovare una parola ci metto otto o nove mesi…”. Questo è il poeta. Inventa un’emozione e deve trovare la parola giusta per farla vivere anche agli altri allo stesso modo.

 

In questo film sono presenti anche i soldati americani, ma in una veste differente rispetto a La vita è bella. Che immagine ne vuole dare? Nella scena del check point c’è un riferimento a Nicola Calipari?

 

Benigni: Ne La vita è bella c’era l’immagine della liberazione alla fine della Seconda Guerra Mondiale. In questo film il punto di vista è quello di un poeta, Attilio De Giovanni, cioè un poeta. I soldati americani sono visti come presenza, nessuno li giudica, non si può giudicare. Certo credo che il sentimento che arriva contro la guerra sia molto forte, almeno per quello che mi riguarda, ma i soldati americani sono persone che si trovano là e sulle quali non c’è da esprimere un giudizio. C’è una forma di pietas nello sguardo di tutti i soldati. La scena del check point non è un riferimento al tragico omicidio, era stata pensata e scritta molto prima del terribile omicidio di Nicola Calipari. È un fatto che ci riguarda da vicino, ma anche molti americani sono stati uccisi ai posti di blocco

 

Prima del suicidio, Attilio vede il suo amico e Fuad vestito da arabo recarsi in moschea. In questo modo il poeta iracheno rinuncia a quegli aspetti della cultura occidentale che aveva vissuto e fatto suoi?

 

Benigni: Ci sono delle contraddizioni quando si decide di compiere un atto estremo. Lui la notte prima dice di non credere nell’Al di là, dice che dopo la morte non c’è nulla, poi il giorno dopo invece va in moschea. Quando si decide di compiere un atto estremo come la morte ci si rivolge sempre a ciò che c’è di più alto, a ciò che non si conosce e al tempo stesso si ha voglia di tornare a ciò che ci è appartenuto in maniera più profonda. Si dice che Erasmo da Rotterdam parlò per tutta la vita in latino, ma quando morì parlava il dialetto del suo piccolo villaggio.

 

Ci può parlare del finale del film?

 

Benigni: Il finale è per me il momento più bello di tutto il film. È forse la scena su cui è nato tutto il film, lo ritengo il momento più alto, è pieno di emozione. Lì si snoda tutto il film, si riprende il filo di tutto, anche se Attilio non rivela nulla alla donna che ama, anzi se ne va. Ma in quel momento c’è il riconoscimento, l’agnizione, che il grande classico di tutte le grandi storie, dalla tragedia greca. Lo si ritrova ad esempio anche in Luci della città di Charlie Chaplin. E devo dire che quel momento mi squarcia il cuore, mi fa sobbalzare tutte le membra.

 

La tigre e la neve verrà presentato anche in Iraq?

 

Benigni: Spero proprio di sì. C’è stata una consulenza da parte degli iracheni per quanto riguarda il linguaggio e non solo. Da parte loro poi c’è stato un grande amore nei confronti della sceneggiatura. Se la situazione attuale lo consentirà ci sarà senz’altro una proiezione del film anche in Iraq.

 

 

Giulia Arbace

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