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Il non voto, diritto alla luce del sole

√â venuto il momento... di ripensare al rapporto fra referendum e democrazia. Per definizione il referendum è stato pensato dai padri costituenti come occasione di democrazia diretta, a render possibile il rifiuto di una legge, e la sua cancellazione, per volere della maggioranza dei cittadini. Ma l'istituto è stato utilizzato negli anni '90 con una spregiudicatezza strumentale...


Il non voto, diritto alla luce del sole

da Quaderni Cannibali

del 13 maggio 2005

Il referendum abrogativo è un istituto di democrazia diretta. Il popolo degli elettori è provocato a cancellare una legge o a conservarla, mediante un sì o un no. In realtà, oltre la scelta binaria, la Costituzione repubblicana conferisce dignità e peso politico anche ad una terza scelta, l’astensione dal voto che fa mancare il quorum. Infatti, «la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi». Il livello di partecipazione è dunque ingrediente necessario di validità della consultazione; ciò significa che l’accettazione o il rifiuto di concorrervi è il primo gradino della medesima libertà democratica. (...)

 

I referendum aggrediscono la legge 40 su punti estremamente qualificanti. Sono questioni di grande delicatezza e complessità, su cui il parlamento ha lavorato per otto anni, fino all’estenuazione, lungo due legislature. I lavori preparatori, fra Commissioni e aule, riempiono una biblioteca.

L’ultimo voto di approvazione, traversando gli schieramenti partitici, ha sfiorato i due terzi del consenso. Che l’offensiva referendaria sia partita il giorno dopo, senza che neanche fosse cominciato un qualche periodo di applicazione della legge, e di valutazione dei suoi effetti, getta subito un’ombra sulla 'democraticità' di iniziative di lobbies che cavalcano lo strumento referendario come metodo improprio per ottenere obiettivi in senso lato 'politici' fuori della sede istituzionale del parlamento.

 

E’ infatti venuto il momento, dopo un’esperienza di più di trent’anni, e dopo le metamorfosi che la prassi spericolata ha prodotto sul profilo della chiamata referendaria, di ripensare al rapporto fra referendum e democrazia. Per definizione il referendum è stato pensato dai padri costituenti come occasione di democrazia diretta, a render possibile il rifiuto di una legge, e la sua cancellazione, per volere della maggioranza dei cittadini. Ma l’istituto è stato utilizzato negli anni ’90 con una spregiudicatezza strumentale – antagonista al 'sistema' parlamentare e ai suoi dibattiti, fino all’ostilità – che l’ha trasformato in strumento di lotta politica. Ci vengono in mente, fra le molte questioni agitate in passato, esempi di temi come la privatizzazione della Rai, le raccolte pubblicitarie, l’abolizione dell’ordine dei giornalisti, la separazione delle carriere in magistratura, le trattenute sindacali, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e via dicendo. Tutte con quorum fallito.

 

E’ intuitivo lo spessore politico, la complessità, la delicatezza di questioni siffatte, l’esigenza di riflessione e di dibattiti e di confronti e di approfondimenti in sede normativa. L’attrezzo referendario è una lama: o sì o no. Quel segno di percentuale (%) della maggioranza che vince potrebbe ben scriversi come un coltello fra i due zeri. Un concetto così povero di 'democrazia' assomiglia al meccanismo degli espropri. Che sconfitta arrivare a pensare che la democrazia sia soltanto la possibilità di 'sì' o 'no' alla proposta fatta, o inflitta, da altri. È stato osservato (Rodotà) che nel referendum il soggetto-popolo – che è il titolare del potere sovrano della democrazia – non può che rispondere a una domanda che gli viene posta e di cui il soggetto popolo non sceglie né la formulazione né il momento in cui gli viene posta. Questo carattere reattivo dell’azione del soggetto-popolo nella democrazia è un punto decisivo.

 

E’ dunque in relazione al particolare contesto storico-giuridico in cui questi referendum sulla legge 40 si calano, e alla materia e ai suoi specifici punti problematici, che gli elettori possono giudicare della adeguatezza o inadeguatezza dello strumento, proprio al fine di spendere la loro prima libertà di scelta, fra l’accettazione o il rifiuto della  provocazione referendaria. C’è ad esempio chi rifiuta di prestarsi al raggiungimento del quorum perché a decidere su una materia fondamentale come la vita, e il diritto naturale alla vita, non può essere il rasoio di una maggioranza di partecipanti. Sappiamo, del resto, che il criterio di maggioranza è inadeguato quando vi siano in gioco diritti umani di minoranze, come più volte rilevato dalla nostra stessa Corte costituzionale.

Alexis De Tocqueville parlava, a metà Ottocento, di «tirannia delle maggioranze». Quando le maggioranze sacrificano i diritti delle minoranze la democrazia è a rischio. Per giunta, è il trattamento dei deboli che fa da termometro alla giustizia di un popolo democratico: giustizia e uguaglianza sono valori condivisi dalla maggior parte delle persone, ma cominciano ad avere senso quando sono in concreto applicati ai meno garantiti.

 

Un altro, e diverso, profilo di inadeguatezza ha una ragione tecnica. I quesiti referendari 'parziali' sono disegnati fatalmente non con la matita ma con il cancellino; possono solo lavorare di forbice sul testo della legge che vogliono aggredire, senza poter poi rammendare e ricucire. Ciò costringe talvolta ad acrobazie che mettono a prova la sintassi. Non la sintassi linguistica, dico, ma la sintassi giuridica; perché una legge è come un albero vivo: non puoi strappare un ramo qua e un germoglio là e pretenderne di non scempiarne la primitiva figura.

 

Certi quesiti chilometrici del passato (ma anche quelli attuali non scherzano) sono letteralmente illeggibili, come una sciarada, e lo slalom fra commi, parole, congiunzioni e virgole da togliere e da lasciare lascia un’impressione di labirinto demenziale. È fatale dunque per la massa ripiegare sulle 'spiegazioni sintetiche' che vengono fornite dagli slogan. «Vuoi forse che le donne siano costrette coi carabinieri a farsi impiantare in utero gli embrioni che non vogliono?« (l’ho sentito con le mie orecchie, in una trasmissione televisiva). «Vuoi forse impedire di guarire a dieci milioni di malati di Alzheimer, Parkinson e diabete?». Così, un po’ per volta, questi cortocircuiti volgarizzati snaturano, con raffinate menzogne, i problemi affrontati con serietà in sede parlamentare. A volte se ne fanno veicolo i mezzi di comunicazione di massa, in mano a gruppi politicamente orientati in modo preciso e partigiano. È prevedibile che molti di coloro che tengono a cuore il rispetto della vita, in ragione di una sensibilità etica intrecciata alla coscienza giuridica, avvertano un istintivo disagio di fronte all’ipotesi dell’astensione dal voto. Da un lato la provocazione referendaria è anche una sorta di sfida, che invoglia a presentarsi per dire un bel 'no'. Dall’altro, c’è l’adiacenza di un concetto per il quale votare è un dovere, e il non votare è come una diserzione. Sul punto è necessario esser chiari, e non cadere in trappole o in equivoci. Dice l’articolo 48 della Costituzione che l’esercizio del diritto di voto «è dovere civico»; e questo resta fermo e va ribadito.

 

Solo che non si riferisce per niente al referendum previsto dall’articolo 75 ma ai «rapporti politici», cioè alle elezioni. Nel caso di referendum abrogativo, non sussiste un dovere civico di votare: anzi, la libera scelta di votare o di non votare è un ingrediente essenziale del congegno referendario. La norma è proprio questa: la proposta è approvata «se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi», ma a condizione che abbia «partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto». Questa condizione è dunque la prima espressione della libertà dei cittadini, di partecipare o no, per far raggiungere o far fallire il quorum. Ci mancherebbe altro che la partecipazione fosse 'doverosa': la norma non avrebbe più senso. Dunque l’astensione dal referendum ha la stessa dignità giuridica e civica della partecipazione.

 

Essa peraltro può assumere una maggiore pregnanza se viene finalizzata a portare all’esterno un messaggio ulteriore rispetto al 'no' all’abrogazione delle norme che tutelano la vita. C’è un altro no, rivolto contro la strumentalizzazione rozza del metodo refendario. È un no che rifiuta di farsi sgabello di altri perché scàlino il quorum che da soli non raggiungeranno mai; è un no che rammenta la lezione civica di Max Weber (1918) sui limiti intrinseci delle risposte normative 'binarie', caratteristiche della votazione popolare; è un no che rifiuta di assecondare le astuzie dei cacciatori di firme. È insomma un no fortemente positivo, che presidia la riflessione sulla vita nascente e sulle regole di tutela che il parlamento italiano ha deliberato, buon ultimo in Europa, solo un anno fa e dopo otto anni di lavori, contro la trattazione 'all’ingrosso' dei suoi punti più delicati, aggrediti in modo precipitoso dalla pattuglia referendaria. Lasciare che si sgonfi da sé, come accade ormai da dieci anni di quorum fallito, la loro pretesa di manovrare gli strumenti della democrazia diretta di cui s’illudono padroni, soprattutto oggi che il loro obiettivo è contro la tutela della vita, può essere una lezione civica persino doverosa.

Giuseppe Anzani

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