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Il nemico della gioia non è il dolore, ma l'apatia

Non esiste piena felicità che là dove il sentire si risveglia e ci scopre più grandi, più vivi, così che sentiamo in noi il respiro che si allarga, si fa più capace e puro il sentimento della realtà...


Il nemico della gioia non è il dolore, ma l’apatia

da Quaderni Cannibali

del 03 agosto 2005

 «Esultare» è in definitiva far salti di gioia, e «allegria» è parola apparentata ad «alleggerire», e chi è leggero cammina come danzando. La gioia nutre il riposo vero, che sta contento all’ora e non si muove né cerca altro, ma la gioia ne fluisce anche, come nuovo slancio. Dalla quiete accesa del riposo nasce una mobilità nuova – che è quella che non ha fuori di sé il suo scopo, ma ha in sé la sua finalità senza fine (direbbe Kant): quella che distingue il movimento della danza, che non serve ad andare da nessuna parte, dal moto a luogo, e il gioco dall’essere indaffarati.

Eppure, sempre di mobilità, rapidità, leggerezza, libero gioco di un’energia nuova, si tratta. L’altra faccia del paradosso della stanchezza, per il quale ci vuole già un po’ d’energia, un po’ di vita, per sentire la gioia che ristora e riposa, è il paradosso del riposo. Per il quale più si è in riposo più si è in intimo moto, più la quiete è profonda più la vita è viva, meno si vuole pensare e vedere e più largo è l’orizzonte del visibile per la mente, più folti e insieme limpidi i nessi che le cose mostrano al pensiero.

Il riposo nutre se stesso, come la stanchezza da sé si divora. Che cos’è questa vita che nell’uno cresce, nell’altra si riduce, e che crescendo aumenta la capacità di ricreazione e dunque di nuova vita, riducendosi ci toglie fino a quel minimo necessario per bere, ristorarci, riposare? Lo abbiamo già incontrato a più riprese lungo queste meditazioni, tanto che potremmo addirittura considerarlo il loro visibile e invisibile filo. È il sentire, i suoi improvvisi risvegli, il suo lungo sonnambulismo, le sue avventure carnali e spirituali, le sue tremende latitanze e le sue amorose fioriture, la sua dolorosa interminabile maturazione.

Il sentire è quella facoltà senza la quale non avremmo accesso al valore delle cose, e al disvalore che le minaccia. Alla loro bellezza e alla loro fragilità, ai beni e ai mali dell’esistenza. È dunque ciò senza di cui nessuna azione sembrerebbe valere la fatica che costa, nessuna decisione potrebbe apparire migliore di un’altra, nessun esercizio di libertà sarebbe dunque praticabile. La vita allora sarebbe solo un carico, ma nulla di cui farsi carico. Perché nessuna presa di posizione avrebbe un senso: e dunque nessuna responsabilità, nessun dovere di rispondere delle nostre azioni e delle nostre parole ci parrebbe vincolante. E questo è il perfetto stato di apatia, diabolica caricatura della quiete, del distacco, dell’abbandono di chi 'vive volentieri'.

Ecco una pagina del diario dell’apatico: «Non prendo gusto a niente, né a camminare – è una fatica; né a sdraiarmi perché allora bisognerebbe o restare distesi a lungo ed è quello che non ho voglia di fare, o alzarsi subito dopo e neppure di questo ho voglia…invano cerco qualcosa che possa mettermi in gioco…insomma, non ho neppure voglia di annotare quello che ho appena scritto, né di cancellarlo». È Kierkegaard che parla, e descrive come meglio non si potrebbe l’accidia, vale a dire uno stato depressivo profondo, che come si vede si accompagna alla suprema stanchezza. All’esaurimento di ogni vita, all’appiattimento di ogni differenza, allo svuotamento di senso di ogni alternativa.

E questo un’ultima cosa ancora ce la suggerisce, forse: un’ultima piccola verità che può ben servire da congedo per chi scrive, e da augurio per ognuno. Il rigoglio, la fioritura, la felicità di una vita non si oppone affatto alla sofferenza, che è un modo del patire, ma all’apatia, che è la corona triste della suprema stanchezza. Si oppone al vuoto, all’indifferenza, all’aridità. All’anima morta che si lamenta di esser tale: «Tu non sei morta, ma se’ ismarrita/anima nostra che sì ti lamenti…» (Dante). Felicità la piena attivazione, il vigere dalla superfice all’estrema profondità, di tutti gli strati del sentire che ci costituiscono.

Forse per questo non esiste piena felicità che là dove il sentire si risveglia e ci scopre più grandi, più vivi, così che sentiamo in noi il respiro che si allarga, mentre si fa più capace e più puro il sentimento della realtà. E questo avviene in ogni nuovo amore, nel suo felice consentire a ciò che esiste.

Roberta De Monticelli

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