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Carlo Urbani

«Devo essermi addormentato, per un momento, soltanto per un momento. Eppure l'aria fresca che ubriaca i polmoni, la moto leggera, mi sembra ancora di sentirle. Veloce quasi a penetrare nello spazio, dritta come una lancia che tuttavia non ferisce ma va in profondità per conoscere e amare, non per possedere».


Carlo Urbani

da Quaderni Cannibali

del 21 maggio 2009

«Devo essermi addormentato, per un momento, soltanto per un momento. Eppure l’aria fresca che ubriaca i polmoni, la moto leggera, mi sembra ancora di sentirle. Veloce quasi a penetrare nello spazio, dritta come una lancia che tuttavia non ferisce ma va in profondità per conoscere e amare, non per possedere».

 

A guardarlo, i viaggiatori che transitano per l’aeroporto di Bangkok non sono particolarmente incuriositi dal quell’uomo appartato, come avvolto su se stesso, dall’aria esausta e con il petto scosso per una tosse mite ma capricciosa.

 

In verità, neanche l’uomo, solitamente goloso di umanità e di tutte le sue sfumature, in quel momento sembra accorgersi dello spazio che lo circonda. È concentrato, lo sguardo come uno spillo, appuntato a terra e il pensiero che corre, corre attraversando una strada, lasciando un percorso che sembra rallentare per volare su uno più veloce, con l’unico scopo di arrivare all’obiettivo e centrarlo: organizzare nel modo più preciso possibile, la sua salvezza, se questa sia mai possibile.

 

È sempre stato un uomo dai grandi orizzonti, uno per il quale i confini si dilatano fino a scomparire.

 

«Ho sognato ancora. Ero con il mio parapendio, lieve nel giorno che saliva. L’orizzonte mi accoglieva nel suo grembo ed io, senza peso e senza pesi, potevo guardare il mondo dall’alto. Quasi a poterlo stringere tutto tra le braccia come fosso un solo unico corpo, dai capelli di seta odorosi e gli abiti d’oro ma sotto gli abiti ferito e affamato, malato e bisognoso di cure. Ed io folle d’amore con gli altri dei miei, pronto a curarlo».

 

 

L’uomo di Hanoi

 

È una giornata come un’altra, l’11 marzo 2003. L’uomo che nessuno guarda è arrivato da Hanoi, atteso a Bangkok per una delle infinite conferenze che tiene nel mondo. È Carlo Urbani, esperto di malattie tropicali, parassitologo, il presidente di Medici Senza Frontiere Italia, nella delegazione che ha ritirato il premio Nobel per la Pace ad Oslo nel 1999, il rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel Pacifico Occidentale.

 

È l’uomo che pochi giorni prima, nell’ospedale di Hanoi, visitando un malato di polmonite, ha guardato oltre e ha riconosciuto un virus infettivo e letale, sconosciuto e subdolo: il virus della SARS. Ed è per questo, che l’uomo appartato nell’aeroporto, in attesa da più di un’ora dell’autoambulanza, sa cosa vogliano dire quel senso di spossatezza, quella tosse insistente, quel respiro che ogni tanto si spegne. Carlo Urbani ha capito di essere stato contagiato e sa che, se così è, morrà ma non ha nessuna intenzione di arrendersi, non mollerà per indole, non mollerà per amore della vita, per amore dei suoi, per amore degli altri.

 

Alla fine, chiederà di conservare il suo tessuto polmonare perché studiandolo i suoi colleghi riescano a scovare dalla tana il mostro e possano schiacciarlo con il nuovo farmaco.

 

«Sono grato alla vita. A volte nella solitudine del viaggio, nel crepuscolo del sonno, sorrido, e quasi piango, a pensare quanto vedo, a quanto sento scorrermi intorno, al profumo degli occhi che incrocio, e al sapore di questa vita colorata, una macedonia di gioie, piacere e tristezza, schiaffi e dolci carezze».

 

Titoli e cariche. Alla fine Carlo Urbani non sarà né un genio né un eroe. Carlo Urbani è una mente e un cuore.

 

Siamo a Bangkok, in aeroporto. Lo sguardo resta appuntato in terra e mille strategie di un medico di talento, mille farmaci a combinarsi per un virus che non ha precedenti che possano aiutare, si rincorrono nella mente di Carlo Urbani con altri ricordi e altri amori.

 

Gli spettatori ben vestiti che assistevano quella sera alla consegna del Premio Nobel per la Pace stavano applaudendo all’uomo dell’aeroporto, ma di certo non avrebbero potuto immaginare l’ironia di uno smoking preso in affitto per l’occasione, e pur guardando i filmati del telegiornale prima di uscire non lo avrebbero di certo riconosciuto tra i manifestanti davanti all’ambasciata russa che protestavano contro gli attacchi alla capitale cecena Grozny. Carlo Urbani è così, dalla parte dell’umanità violata, ovunque essa sia e da qualunque parte venga.

 

E mentre il piano di organizzazione nasce e mille volte muta nella sua mente, intanto nell’uomo dell’aeroporto si fa strada quel sottile senso di amaro che impasta la bocca e strizza il cuore, la sensazione di poter fare poco e niente, di essere impotenti. Impotente come in quel primo mattino di agosto, all’ora in cui il sole ancora non ha preso a gridare, e l’uomo dell’aeroporto celebrava la cerimonia degli addii stringendo tra le braccia suo padre Alberto, il capitano di lungo corso, che aveva ceduto al sonno con un sorriso per quella dolce intimità, conquistata con la morte. E Carlo che lo accarezzava.

 

La sua famiglia. Sua madre, suo fratello Paolo e sua sorella Cristiana salutati a Natale, pochi mesi prima, senza che nessuno immaginasse che sarebbe stato per sempre.

 

«Giuliana. Intelligente. Bellissima. E con che foga lotta anche contro di me, se necessario. Doveva essere davvero spaventata l’ultima volta ed io non ho saputo fare nulla di meglio che rispondere – Non dobbiamo essere egoisti. Dobbiamo pensare anche agli altri.- Che sciocco, avevo inteso farle una lezione di altruismo. A lei, che aveva capito subito come sarebbe andata a finire e mai era stata d’ostacolo, mai aveva rivendicato qualcosa per sé piuttosto per i figli. Aveva capito da subito. Dai primi viaggi organizzati in Africa quando ero medico di base a Castelpiano. Da tutte le notti trascorse all’ospedale di Macerata per accumulare giorni di ferie da trascorrere in missione dall’altra parte del mondo. Dall’anno di aspettativa passato in Cambogia e lei a seguirmi con due bambini di 10 e 2 anni. Dal rifiuto del posto da primario all’ospedale di Macerata per accettare la nomina dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e trasferirci ad Hanoi nel 2000 con varie missioni in Cina, Laos, Cambogia, Filippine. Giuliana con me, sempre con me, portando i due piccoli e la nuova sorellina Maddalena. Aveva accettato di avere come casa il mondo, non le tradizionali quattro mura, con il passar degli anni stipate di ogni ninnolo che per la famiglia avesse un significato, cose accumulate nei decenni, ricordi su ricordi, mattone su mattone. Sempre un po’ straniera, un po’ in equilibrio, trattenuta da radici che tirano e spinta dalla curiosità di conoscere l’altro, diversità, ricchezza, aiuto, solidarietà. Così aveva accettato anche che la sua famiglia si allargasse fino a comprendere tutti i diseredati, i malati, gli affamati, le vittime delle ingiustizie che si muovevano intorno a noi, davvero molti, e che in qualunque ora del giorno e della notte avevano bisogno di me. Piena di coraggio a riempire le mie assenze, cercando di organizzarsi in questi paesi lontani, così diversi da quello cui siamo abituati. Non credo lei se ne sia mai accorta, ma a volte mi fermo a guardarla e penso che sia tutta lì la mia debolezza e la mia forza, il mio coraggio e la mia paura, l’esitazione e lo slancio, tutto lì tra le sue mani e nei suoi occhi».

 

«Vorrei comunque fare di meglio, non nel lavoro, dove do tanto, ma con gli affetti più prossimi. So quanto Giuliana, Tommaso, Luca e Maddalena abbiano un dannato bisogno di me. D’altra parte ognuno di loro è per me parte essenziale della vita, e a volte, soprattutto al rientro dai numerosi viaggi, avrei voglia di guardarli e toccarli per ore, per sentirli miei e far sentire loro il mio affetto».

 

Un sobbalzo. Era lui che suonava al piano e Tommaso lo accompagnava con il saxofono, in casa della nonna, un vocio di sottofondo.

 

È così che l’uomo dell’aeroporto ha un fremito. I figli. I piccoli gioielli che sorridono solo per lui, diamanti al centro del mondo. Tommaso, il più grande, allegro e curioso di conoscere ogni novità, pieno di entusiasmo verso questi paesi straordinari dove cerca di vivere come il protagonista di un romanzo di avventura, con garbo, rispetto e in vera comunione di sentimenti. Luca, più piccino e più tenero di Tommaso, che scrive meglio in francese piuttosto che in italiano. Come Maddalena, principessina bionda, fatina del bosco, dolce come il miele, che parla soltanto vietnamita e Carlo e Giuliana a volte hanno bisogno di un’interprete per intendersi. Le tre stelle del mattino nell’incredibile sistema solare dell’uomo che nessuno guarda.

 

 

Idealisti coi piedi per terra

 

«Bellissime creature, la mia gioia e ora il mio tormento. Quante cose vorrebbe dirvi il babbo. Quanti baci fino ad arrossarvi le guance. Quanti abbracci fino a togliervi il respiro. Le vostre voci squillanti a sciogliere nodi, le vostre grida di allegria per ogni nuova scoperta, le risate argentine che rendevano incantate le strade. Ed io a guardare, attraverso i vostri occhi, il mondo che assumeva nuovi colori e l’aria di una nuova speranza spazzava via il grigiore. Eravate voi che giocavate con rispetto nelle capanne dei poveri villaggi vietnamiti a convincermi che il progetto di un mondo dove l’umanità soffrisse meno, dove la giustizia sociale fosse un dritto naturale, era possibile. Sareste stati voi, gli uomini del domani, cresciuti senza paraventi, con sguardi capaci di contenere il mondo in una visione d’insieme dove non esistano nemici ma solo compagni di viaggio. Sareste stati voi a farcela, passo dopo passo, a realizzare quello che noi avevamo solo tentato. Eravate voi la grande impresa, fare di voi uomini di cuore e d’amore, di forza e vigore. Per fare questo sarebbe stato indispensabile farvi conoscere la verità e distruggere gli stereotipi con cui i mass media e le teorie di comodo hanno ricoperto il mondo. La fame, la povertà, la mancanza di libertà e dei diritti umani fondamentali come quello alla salute. Ogni diritto immolato sull’altare del guadagno. Tutto avreste dovuto conoscere perché foste davvero liberi e immuni da quell’idea assurda che questo sia davvero il migliore dei mondi possibili. Nel mondo dove vivrete mentre uomini in smoking banchettano in ristoranti di lusso, i bambini muoiono di malattie che un vaccino da pochi centesimi potrebbe guarire. Cosa c’è di giusto in tutto questo? La risposta è: niente. Quindi fatevi sotto. Siate idealisti con piedi ben poggiati per terra. Non sprovveduti senza risorse. Io non vi lascerò. Vi penserò e voi sarete con me. Vi guarderò sorridere o soffrire e sognerò di voi ogni notte».

 

E così il pensiero dell’uomo dell’aeroporto andò a Dio, lieve come una farfalla che non fa rumore nell’aria perché le sue stesse ali sono d’aria.

 

«Ti affido i miei figli, Signore anche se questo lascia intatto il mio tormento. Tu perdona questa debolezza di un padre. Ti ho amato con sincerità e onestà, con tutto me stesso e nel modo in cui sono riuscito. Avrei potuto fare di più e meglio? Magari questo lo vedremo insieme. In questo lunghissimo viaggio Ti ho portato con me ovunque: a vestire gli ignudi, a dare da mangiare agli affamati, a curare i malati, a gridare al mondo che l’imperatore era nudo, perché soltanto la verità rende liberi. Ti ho portato dove i tuoi figli stanno morendo e i loro fratelli fortunati fingono di non sapere. Dove muoiono e soffrono quelli cui Tu hai dedicato le Beatitudini. Direi giustamente, visto che tanto e tale orrore sulla terra ha pure diritto a riscuotere poi nel Regno dei Cieli. Ti ho amato e rispettato in qualunque uomo avesse nel cuore il senso del divino sebbene questo potesse avere un altro nome. Ti ho amato e rispettato in qualunque uomo avesse il cuore pieno d’amore anche senza dedicarlo a Te. E rivolgendoti una preghiera nei tramonti, così lontani dal mio paese, sono stato travolto dalla commozione. Ora metto nelle tue mani il mio destino e la mia lotta estrema per farcela, il mio dolore e quanto lo maledirò, la mia sofferenza e tutto quello che farò per evitarla. Alla fine non mi ribellerò alla morte, ma sappi che la vita è la cosa più bella che potesse capitarmi».

 

L’uomo che nessuno vede finalmente si scuote. È arrivata l’ambulanza. Infermieri come marziani si avvicinano per stenderlo e dargli conforto alleviando il malessere. All’arrivo del personale medico, l’uomo che nessuno guarda si riappropria della sua identità. Carlo Urbani viene ricoverato in isolamento nell’ospedale di Bangkok per diciotto giorni. Giorni in cui parteciperà con tutte le sue forze ai tentavi di arginare il virus, insieme a colleghi giunti da ogni dove per aiutarlo. Il 28 marzo 2003 morirà in quello stesso ospedale. Accanto sua moglie.

 

Sarà come volare…. Sento l’alito dell’universo circondarmi e sorreggermi. Provo infinita pace.

 

 

Soltanto un uomo

 

Carlo Urbani: oltre che un onore è stata una gioia scrivere di lui. Non capita spesso di scrivere di uomini, di uomini che non esagerano, che non somigliano neanche lontanamente a Superman. Non sono né geni né eroi. Sono uomini di mente e di cuore che prendono sul serio il compito di essere uomini in un mondo dove in certi posti è più complicato che in altri. Uomini che non sopportano di essere felici da soli, che tendono sempre ad essere un po’ più di se stessi e che s’innamorano del loro prossimo, fino a scoprire sotto l’aspetto malandato una straordinaria bellezza di sguardi, una mano sottile, la dignità del volto. Consapevole della delicatezza del suo compito non cedeva a seduzioni governative e ai ricevimenti nelle ambasciate. Rifiutava la scorta armata messa a disposizione dai governi dei paesi che lo ospitavano con Medici senza Frontiere perché accettarla sarebbe stata una scelta di campo e per lui la neutralità era sacra. Fustigava quanti barattavano la salute del mondo con trenta denari perfino nel discorso in occasione del premio Nobel per la Pace. Quello che detestava era il disimpegno, la superficialità. Lo sguardo vuoto che sfiora senza guardare qualunque cosa e nulla muta. Il pensiero fragile che finge di non comprendere. Il contadino del proprio piccolo orticello di privilegi. Credente nel profondo, avrebbe voluto che la Chiesa militante gridasse davanti alle ingiustizie e alle sofferenze più forte del suo Figlio. Era certo che «Dio preferisse la costruzione di latrine per i poveri piuttosto che Chiese per onorarlo». Mite ma fermo, sognatore ma concreto, nessun compromesso. Portò Cristo con se tra gli ultimi. Cristo mite come lui e che, come lui, aveva preso a calci i mercanti nel tempio.

 

Carlo Urbani non era un santo e neppure uno sprovveduto. Mise la sua scienza al servizio dell’umanità che soffre e quando il 28 febbraio 2003 lo chiamarono dall’ospedale di Hanoi per un paziente che sembrava affetto da una strana polmonite, egli andò senza esitare. E quando si accorse che il virus era difficile da identificare e altamente infettivo e probabilmente mortale, non immolò se stesso con sprezzo del rischio, come se la sua fosse una delirante follia. Carlo Urbani amava troppo la vita e amava toccarla e stringerla tra le mani e baciarla e sentirne il sapore. Troppo per rischiarla così come raccontano le vite dei Santi. Carlo Urbani identificò il virus di quella che poi fu ribattezzata SARS, «severa sindrome acuta respiratoria». Il Vietnam dove per primo si era manifestata la malattia, uscì dal contagio primo al mondo. Sessantatre persone contagiate. Solo cinque morte. Carlo Urbani si preoccupò di prendere tutte le precauzioni possibili per evitare il contagio, non aveva la vocazione dell’agnello sacrificale. Non aveva intenzione di lasciare sua moglie i suoi figli, la sua famiglia. Li amava con una passione che fremeva. E quando si scoprì malato, non accettò stoicamente la sofferenza. Lottò, lottò con tutte le sue forze e prendendole in prestito quando fu sfinito, fino alla fine ed ebbe paura. Carlo Urbani ebbe paura di morire. Ebbe paura. E morì come solo gli uomini muoiono.

 

Ai nostri giovani non servono modelli inarrivabili, figure dall’aurea perfetta che, senza dubbi della ragione o tremori del cuore, si sacrificano fino a consumarsi per un’idea. Li vedrebbero inarrivabili. Perderebbero fiducia nella possibilità dell’impresa prima di cominciare. Si sentirebbero inadeguati. A servire sono uomini che, solo per questo loro essere uomini, non cercano di essere nulla di più e non accettano di essere nulla di meno. L’uomo ama l’uomo. Lo cura. Lo difende. Denuncia le ingiustizie delle quali è vittima. Non era un eroe Paolo Borsellino. Non lo era Ilaria Alpi. Non lo era Carlo Urbani. Vissero da uomini. Come gli uomini ebbero paura. Come uomini morirono.

 

Gioia Quattrini, Note di Pastorale Giovanile

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