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A proposito della RU486

Nella RU486, la propria liberazione (non quella delle donne) dalla “tristezza infinita” degli aborti. Con la nuova tecnica non si compromettono carriere, non si impegna la struttura sanitaria, non si immobilizza la sala operatoria, non si candida il proprio reparto a farsi carico della massa di interventi abortivi. Alcuni fatti...


A proposito della RU486

da Quaderni Cannibali

del 17 novembre 2005

486, la pillola abortiva, sembra avere un merito: aver convertito alcuni medici obiettori. Su Repubblica di ieri, il dottor Salvatore Garzarelli dell’ospedale San Paolo di Savona, che ha chiesto alla Asl di sperimentare il farmaco, proclama: “Aiutare le donne è un mio dovere”. Nessuno chiede all’intervistato perché il semplice fatto che l’aborto sia effettuato con una tecnica diversa faccia crollare all’improvviso le sue obiezioni “di coscienza”.

 

La verità è che la classe medica vede, nella RU486, la propria liberazione (non quella delle donne) dalla “tristezza infinita” degli aborti. Con la nuova tecnica non si compromettono carriere, non si impegna la struttura sanitaria, non si immobilizza la sala operatoria, non si candida il proprio reparto a farsi carico della massa di interventi abortivi. Il coro è univoco: la RU486 è sicura, semplice, rivoluzionaria per la salute delle donne.

 

Eppure, dietro la “kill pill” si addensano ambiguità irrisolte. Poco si sa, in Italia, delle quattro giovani donne morte in meno di due anni in California, tutte per shock settico dovuto a infezione da Clostridium Sordellii, contratta immediatamente dopo la somministrazione della pillola abortiva. Lo ha confermato lo scorso quattro novembre la Food and Drug Administration (Fda). Perché solo in California? Adesso anche la Fda è costretta a chiederselo, ma la risposta non c’è. E’ forte il dubbio che queste morti siano state diagnosticate solamente laddove cercate, e quanto è successo in California dovrebbe far riflettere i medici travolti da improvvisa passione per una tecnica abortiva che, dati alla mano, appare meno sicura per la salute delle donne delle attuali procedure disponibili, e consente enormi profitti a pochi produttori farmaceutici.

 

Vediamo con ordine i fatti americani. Nel settembre 2000 la Fda permette l’aborto chimico, autorizzando l’uso del Mifepristone. Si scatenano proteste e contestazioni, che vengono formalizzate nel 2002 con una durissima petizione in cui la Fda è accusata di aver seguito un protocollo accelerato, destinato solo a farmaci salvavita per la cura dell’Aids, del cancro e della lebbra, e di aver sottovalutato gravi complicanze, alcune della quali letali, sopravvenute durante la sperimentazione. Nel settembre del 2003 muore a San Francisco Holly Patterson, 18 anni: uno shock settico immediatamente successivo all’aborto chimico, con una dolorosissima agonia di alcune ore. I genitori iniziano un’azione legale per l’accertamento delle cause di morte, e delle effettive responsabilità del farmaco abortivo. Nel 2004 la battaglia dei Patterson ottiene un primo, notevole risultato: cambiano le avvertenze sul foglietto illustrativo. La Fda comunica che “le nuove informazioni ricordano agli operatori della salute che infezioni batteriche serie e sepsi possono avvenire senza i segni usuali dell’infezione, come febbre e debolezza”. E’ del 19 luglio 2005 la seconda comunicazione della Fda, dopo ulteriori monitoraggi sul farmaco: “La Fda è consapevole che negli Usa quattro donne sono morte di sepsi (grave malattia causata da infezione del sangue) dopo un aborto medico con Mifeprex e misoprostol. La sepsi è un noto rischio legato a ogni tipo di aborto. I sintomi in questi casi non sono stati quelli usuali della sepsi. Non sappiamo se è l’uso del Mifeprex o misoprostol a causare queste morti. I pazienti dovrebbero contattare immediatamente un operatore professionale della salute se hanno assunto queste medicine e sviluppato dolore allo stomaco o disagio, debolezza, nausea, vomito o diarrea, con o senza febbre, per più di 24 ore dopo aver ingerito misoprostol”. Pochi giorni dopo, il 26 luglio, appare l’anteprima on line di un articolo del “The Annals of Pharmacotherapy” a firma Ralph Miech, Professore di Farmacologia Molecolare, Fisiologia e Biotecnologie della Brown Medical School. Sostiene che fin dal 1992 alcuni studi suggeriscono che il Mifepristone potrebbe predisporre ad infezioni dovute a contaminazioni batteriche, suscettibili di progredire in shock settici. E’ un’ipotesi che merita di essere verificata, soprattutto dopo la conferma recente della Fda che a causare i quattro decessi da shock settico sono state infezioni riconducibili allo stesso batterio, e senza febbre. I più recenti studi a carico di singoli gruppi di ricerca nazionali insieme alle sperimentazioni portate avanti dall’Oms, evidenziano come la RU486 non sia affatto il metodo più sicuro e meno doloroso per interrompere una gravidanza, e anzi sia necessario un rigoroso follow-up da parte dei medici.

 

Soprattutto parlano le donne che lo hanno fatto, e che hanno riversato sulla Danco centinaia di segnalazioni spontanee: perdite di sangue molto abbondanti e di maggior durata rispetto a quelle registrate per aborto chirurgico, maggior frequenza di dolori uterini, vomito e diarrea, ma anche febbre e esantema. In uno studio della Oms pubblicato nel luglio 2004 si fa presente che circa il 10 per cento delle donne sottoposte a sperimentazione si è sottoposta a ulteriori visite di controllo rispetto a quelle programmate, e di queste il 15 per cento è dovuta poi ricorrere al ricovero ospedaliero, soprattutto per trattamenti di gravi emorragie, che hanno compreso anche trasfusioni. Il 70 per cento delle donne oggetto della sperimentazione ha dichiarato che, nel caso di un ulteriore aborto medico, sceglierebbe l’ospedale. La grande maggioranza delle donne che ha assunto la pillola abortiva, insomma, lo rifarebbe solo se garantita dalla permanenza in una struttura sanitaria, come peraltro richiede la 194.

Assuntina Morresi, Eugenia Roccella

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