Testi Salesiani

5. PICCOLO SALTIMBANCO


5. PICCOLO SALTIMBANCO

 

I nove anni di Giovannino sono marchiati dal “grande sogno”: la moltitudine dei fanciulli, l'Uomo che lo ammonisce: “Non con le percosse ma con la mansuetudine”, la Donna che gli predice: “A suo tempo tutto comprenderai”.

Nonostante le prudenti parole della nonna, quella notte ha gettato una luce sul futuro. Il sogno dei nove anni - scrive Pietro Stella - condiziona tutto il modo di vivere e di pensare di Giovanni Bosco. E condiziona anche la condotta della madre nei mesi e negli anni che seguono. Anche per lei è la manifestazione di una volontà superiore, un chiaro segno della vocazione sacerdotale del figlio. Solo così si può spiegare la sua tenacia nel condurre Giovannino per la via che lo avrebbe fatto salire all'altare.

Nel sogno, Giovanni ha visto un esercito di ragazzi, e gli è stato ordinato di far loro del bene. Perché non cominciare subito? Di ragazzi ne conosce già parecchi: i compagni di gioco, i piccoli garzoni che vivono nelle cascine sparse per la campagna. Molti sono bravi ragazzotti, ma altri sono volgari, bestemmiatori.

D'inverno, molte famiglie trascorrevano insieme la serata in una stalla grande, dove i buoi e le mucche funzionavano da termosifone. Mentre le donne filavano e gli uomini fumavano la pipa, Giovanni cominciò a leggere ai suoi amici i libri che gli prestava don Lacqua: Guerin Meschino, La storia di Bertoldo, I Reali di Francia. Ebbe un successo fulmineo. “Tutti mi volevano nella stalla - racconta -. Ai miei compagni si aggiungeva gente di ogni età e condizione. Tutti godevano di poter passare la serata ascoltando immobili il povero lettore ritto sopra una panca perché tutti potessero vederlo”.

Il best-seller di quelle serate era I Reali di Francia. Narrava le avventure meravigliose e un po' macchinose di Carlomagno e dei suoi paladini: Orlando, Oliviero, il traditore Gano, il vescovo Turpino, le stragi della spada magica Durlindana. Scrive don Bosco: “Prima e dopo i miei racconti facevamo tutti il segno della Santa Croce con la recita dell'ave Maria”.

 

Le trombe sulla collina

Nella bella stagione le cose cambiano. Le storie non fanno più presa. Per radunare i suoi amici, Giovanni capisce che deve fare qualcosa di “meraviglioso”. Ma cosa?

Le trombe dei saltimbanchi squillano sulla collina vicina. È giorno di fiera. Giovanni ci va con la madre. Si compra, si vende, si discute, si imbroglia. E ci si diverte. La gente fa mucchio attorno ai prestigiatori e agli acrobati. Giochi di prestigio, esercizi di destrezza fanno rimanere a bocca aperta i contadini. Ecco ciò che potrebbe fare anche lui. Bisogna che si metta a studiare i segreti degli equilibristi e i trucchi dei prestigiatori.

I grandi spettacoli però si vedono solo alle feste patronali: gli equilibristi ballano sulla corda, i prestigiatori fanno il “gioco dei bussolotti” cioè le prestidigitazioni più vistose: cavare colombi e conigli dai cappelli, far sparire una persona, tagliarla in due e poi farla riapparire integra. Molto ammirati sono anche i “cavadenti senza dolore”.

Ma per vedere questi spettacoli si paga il biglietto, due soldi. Dove prenderli? Margherita, consultata, risponde:

- Aggiustati come vuoi, ma non chiedermi denaro. Non ne ho.

Giovanni si aggiusta. Cattura uccelli e li vende, fabbrica cesti e gabbie e li contratta con gli ambulanti, raccoglie erbe medicinali e le porta allo speziale di Castelnuovo.

Riesce così ad arrivare nelle prime file degli spettacoli. Osservando attentamente capisce l'equilibrio che sulla corda dà il bilanciere, nota il rapido movimento delle dita che nascondono il trucco. Riesce anche a scoprire imbrogli grossolani.

Togliere un dente cariato, a quel tempo, è per tutti una tortura. Il primo anestetico sarà sperimentato in America solo nel 1846. Giovanni, durante una fiera del 1825, assiste alla “cavata di un dente senza dolore” attribuita a una polvere magica. Il contadino che si presta ha un molare che gli fa veramente male. Il prestigiatore, dopo aver intinto le dita nella polvere, tra il fragore di trombe e tamburi glielo estrae con un colpo secco di una chiave inglese che si è fatto scivolare giù dalla manica. Il contadino balza in piedi urlando, ma le trombe fanno fracasso, e il prestigiatore lo abbraccia fino a soffocarlo gridando: “Grazie! Grazie! L'esperimento è riuscitissimo!”. Giovanni è uno dei pochi che ha visto scivolare la chiave inglese, e se ne va ridendo.

A casa prova i primi giochi. “Mi esercitavo giorni e giorni finché non avessi imparato”. Per far sbucare i conigli dal cappello, per camminare sulla corda, ci vogliono mesi di esercizio, di costanza, di capitomboli. “Può darsi che non mi crediate - scrive don Bosco - ma a undici anni io facevo il gioco dei bussolotti, il salto mortale, camminavo sulle mani, marciavo e danzavo sulla corda”.

 

Spettacolo sul prato

Una sera di domenica, in piena estate, Giovanni annuncia agli amici il suo primo spettacolo. Su un tappeto di sacchi distesi sull’erba, fa miracoli di equilibrio con barattoli e casseruole sospese sulla punta del naso. Fa spalancare la bocca a un piccolo spettatore, e ne tira fuori decine di pallottole colorate. Lavora con la bacchetta magica. E alla fine balza sulla corda e vi cammina tra gli applausi degli amici.

La voce passa di casa in casa. Il pubblico si ingrossa: piccoli e grandi, ragazze e ragazzi, persino persone anziane. Sono gli stessi che nelle stalle lo ascoltavano leggere I Reali di Francia. Ora lo vedono far scendere dal nasone di un contadino ingenuo una fontanella di monete, cambiare l'acqua in vino, moltiplicare le uova, aprire la borsa di una signora e farne volar via un colombo vivo. Ridono, gli battono le mani.

Anche il fratello Antonio andava a vedere i giochi - scrive il Lemoyne -, ma non si metteva mai nelle prime file. Si nascondeva dietro un albero, compariva e scompariva. A volte scherniva il piccolo saltimbanco:

- Ecco il pagliaccio, il poltrone! Io mi rompo le ossa nel campo, e lui fa il ciarlatano!

Giovanni soffriva. Qualche volta sospendeva lo spettacolo, per ricominciarlo duecento metri più in là, dove Antonio finiva per lasciarlo in pace. Era un ciarlatano “speciale” quel ragazzo. Prima del numero finale, tirava fuori di tasca il Rosario, s'inginocchiava e invitava tutti a pregare. Oppure ripeteva la predica sentita al mattino in parrocchia. Era l'offerta che domandava al suo pubblico, il biglietto che faceva pagare a piccoli e grandi. Nella vita, Giovanni Bosco sarà generosissimo nel dare la sua fatica, ma da buon piemontese chiederà sempre un prezzo: non in denaro ma in impegno per Dio e per i ragazzi poveri.

Poi il brillante finale. Legava una fune a due alberi, vi saliva, camminava reggendo un rudimentale bilanciere, tra improvvisi silenzi e ovazioni frenetiche.

“Dopo alcune ore di queste ricreazioni - scrive -, quando io ero ben stanco, cessava ogni trastullo, facevasi breve preghiera, e ognuno se ne andava a casa”.

 

Prima Comunione

La Pasqua, nel 1826, cadeva il 26 marzo. In quel giorno Giovanni fece la sua prima Comunione, nella chiesa parrocchiale di Castelnuovo. Ecco come la ricorda:

“Mia madre mi stette vicino. Durante la quaresima mi aveva condotto a confessarmi. " Giovanni mio, mi disse, Dio ti prepara un gran dono; preparati bene. Confessa tutto, sii pentito, e prometti a Dio di farti più buono in avvenire ". Tutto promisi; se poi sia stato fedele, Dio lo sa.

Quel mattino mi accompagnò alla sacra mensa, fece con me la preparazione e il ringraziamento. In quella giornata non volle che mi occupassi di alcun lavoro materiale, ma che m'impegnassi a leggere e a pregare. Mi ripetè più volte:

"Per te è stato un gran giorno. Dio ha preso possesso del tuo cuore. Ora promettigli di fare quanto puoi per conservarti buono sino alla fine della vita. In avvenire va' sovente a comunicarti; di' sempre tutto in confessione; sii sempre ubbidiente; va' volentieri al catechismo e alle prediche; ma per amore del Signore fuggi come la peste coloro che fanno discorsi cattivi ".

Procurai di mettere in pratica gli avvisi di mia madre: e mi pare che da quel giorno vi sia stato qualche miglioramento nella mia vita, specialmente nell'ubbidienza e nella sottomissione agli altri, al che provavo grande ripugnanza”.

 

L'inverno più nero della vita

L'inverno che seguì fu per Giovannino il più nero della vita.

Era morta la nonna (madre di Francesco), e Antonio, 18 anni, era sempre più “lontano” dalla famiglia. I suoi quarti d'ora di violenza divennero più frequenti.

Negli ultimi giorni di ottobre, Margherita accennò alla possibilità di mandare ancora per un anno Giovanni alla scuola di don Lacqua. Avrebbe potuto imparare i primi elementi del latino. Antonio reagì bruscamente:

- Che latino? Che bisogno di latino abbiamo in casa? Lavorare, lavorare!

Con ogni probabilità, Margherita gli accennò alla possibilità che Giovanni diventasse prete, ma Antonio dovette giudicarla un'utopia irrealizzabile.

“Per fare un prete - si sentirà dire tante volte Giovanni - ci vogliono diecimila lire”. Una somma spropositata, per una famiglia contadina di quei tempi.

Con la scusa di commissioni da fare alla zia Marianna e al nonno che viveva a Capriglio, Giovanni riuscì ad andare qualche volta da don Lacqua anche in quell'inverno 1826-27. Antonio però masticava amaro. E un giorno le cose precipitarono in guerra aperta. Lo racconta don Bosco stesso:

“Prima con mia madre, poi con mio fratello Giuseppe, Antonio disse in tono imperativo:

- Adesso basta. Voglio finirla con questa grammatica. Io sono venuto su grande e grosso e non ho mai veduto questi libri.

Dominato in quel momento dall'afflizione e dalla rabbia risposi quello che non avrei dovuto:

- Anche il nostro asino non è mai andato a scuola, ed è più grosso di te.

A quelle parole saltò sulle furie, e a stento potei scappare a una pioggia di busse e di schiaffi. Mia madre era afflittissima, io piangevo”.

Le cose andarono avanti ancora qualche giorno, tra tensioni sempre più astiose. Antonio era un testone, Giovanni non voleva lasciarsi mettere i piedi sul collo e reagiva vivacemente. Poi, per un libro che Giovanni aveva messo sulla tavola accanto al suo piatto, scoppiò la scenata che abbiamo raccontato all'inizio di queste pagine. Giovanni non riuscì a scappare e fu pestato dal fratello.

La mattina dopo, Margherita gli disse quelle parole tristissime: “È meglio che tu vada via di casa”.

In una giornata nebbiosa di febbraio, Giovanni arrivò alla cascina Moglia, e fu accettato come garzone per il suo pianto sconsolato.

 

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