21. TESTA A TESTA CON CAVOUR

21. TESTA A TESTA CON CAVOUR

 

« Se questo prete fosse generale d'armata... » 

Quelle passeggiate accendevano nei giovani un entusiasmo enorme. L'Oratorio, quella mescolanza di preghiera, giochi, passeggiate, era ormai la loro vita. Ogni ragazzo era talmente mio amico che non solo obbediva a ogni mio cenno, ma era ansioso di fare qualcosa per me. Un giorno un carabiniere mi vide richiamare al silenzio quattrocento ragazzi con un solo gesto della mano, ed esclamò: 

- Se questo prete fosse generale d'armata, potrebbe battere il più potente esercito del mondo. 

Devo riconoscere che l'affetto e l'obbedienza dei miei ragazzi toccava vertici incredibili. Ma questo rafforzò la voce che don Bosco, coi suoi giovani, poteva da un momento all'altro dare inizio a una rivoluzione. 

 

Il Marchese capo della polizia perde la pazienza 

Era un voce ridicola, eppure trovò credito presso le autorità. In modo particolare destò i sospetti del marchese Michele di Cavour, padre dei celebri Camillo e Gustavo, Vicario della città e quindi capo della polizia. Mi convocò nel Palazzo Municipale, mi fece una breve relazione sulle voci che circolavano sul mio conto, e concluse: 

- Lei è un bravo prete. Accetti il mio consiglio: rimandi a casa loro quei mascalzoni. Possono dare soltanto dei dispiaceri a lei e alle autorità pubbliche. Ho le prove che le riunioni di questi giovani sono pericolose, e perciò non posso permetterle. - Signor Marchese - risposi, - io tento soltanto di migliorare la vita di questi poveri figli del popolo. Non cerco aiuti finanziari. Cerco solo un luogo dove radunarli. Con la mia attività rendo minore il numero di quelli che finiscono in prigione. - Si sbaglia, reverendo. Le sue fatiche sono inutili. Io non posso darvi una sede perché, lo ripeto, le vostre riunioni sono pericolose. E senza il mio aiuto non troverete più i mezzi per pagare fitti e spese. Vi ripeto: non posso più permettere le riunioni di questi vagabondi. 

- Lei dice che le mie fatiche sono vane. Ma i risultati che ho ottenuto dicono il contrario. Molti giovani erano completamente abbandonati. Li ho raccolti, li ho tirati fuori da strade cattive, li ho avviati a una professione onesta. Non sono più finiti in carcere, come era già loro capitato. Quanto ai mezzi finanziari, non mi sono mai mancati: sono nelle mani di Dio, che a volte si serve di strumenti di scarso valore per realizzare i suoi disegni più grandi. 

- Abbia pazienza e mi obbedisca. Io non posso più dare il mio permesso alle vostre riunioni. 

- Lei non lo nega a me, Marchese, ma a questi giovani abbandonati. Così facendo, lei li spinge su una strada pericolosa. - Stia zitto. Non l'ho chiamata qui per discutere. Lei crea disordini che io devo e voglio stroncare. Non sa che è vietata ogni riunione pubblica se non è munita di regolare permesso? - Ma le mie riunioni non hanno scopo politico. Io insegno catechismo a dei poveri ragazzi, e lo faccio con il permesso dell'Arcivescovo. 

- L'Arcivescovo è a conoscenza della sua attività? 

- Certamente. Non ho mai fatto un passo senza il suo permesso. 

- Io però non posso permettere queste riunioni.

- Signor Marchese, non vorrà mica proibirmi di far catechismo con il permesso dell'Arcivescovo? 

- Se l'Arcivescovo le ordinerà di troncare questo ridicolo Oratorio obbedirà? 

- Ho cominciato e sono andato avanti incoraggiato dal mio Superiore Ecclesiastico. Qualunque ordine vorrà darmi, mi troverà pronto. 

- Allora vada. Parlerò io con l'Arcivescovo. Ma se non obbedirà nemmeno a lui, mi costringerà a usare mezzi più severi. Se lo ricordi. 

A questo punto credevo di essere lasciato in pace almeno per qualche tempo. Invece, appena tornato a casa, trovai una lettera dei fratelli Filippi che mi licenziavano in tronco. Rimasi avvilito. 

« I suoi ragazzi stanno facendo del nostro prato un deserto - scrivevano. - Anche le radici dell'erba sono consumate dal calpestio continuo. Le condoniamo volentieri il fitto scaduto, ma entro quindici giorni deve lasciar libero il prato. Non possiamo concedere dilazioni». 

Molti amici, venuti a conoscenza di tutte queste difficoltà, mi consigliavano di sciogliere l'Oratorio. « 1 tuoi sono sforzi inutili », dicevano. Altri, vedendomi preoccupato e sempre in mezzo ai ragazzi, cominciarono a insinuare che ero diventato matto. 

 

« Povero don Bosco, è proprio andato » 

Un giorno, mentre erano presenti don Sebastiano Pacchiotti e altri preti, don Borel in camera mia disse: 

- Qui, se non salviamo qualcosa, corriamo il rischio di perdere tutto. Sciogliamo l'Oratorio e teniamo con noi solo una ventina dei ragazzi più piccoli. Nessuno si preoccuperà se con-tinuiamo a far catechismo a un gruppetto di bambini. E intanto Dio ci indicherà la strada più opportuna per andare avanti. - Non sciogliamo niente - risposi. - Abbiamo già una sede: un cortile ampio e spazioso, una casa pronta per molti ragazzi, con chiesa e porticati. E ci sono preti e chierici pronti a lavorare per noi. 

- Ma dove sono queste cose? - mi interruppe don Borel. - Non lo so. Ma so che esistono e sono a nostra disposizione. Allora don Borel scoppiò a piangere. Esclamò: 

- Povero don Bosco, è proprio andato. 

Mi prese per mano, mi baciò, e se ne andò con don Picchiotti e gli altri. Rimasi solo nella mia stanza.

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