Testi Salesiani

21. IL MIRACOLO DEI PICCOLI MURATORI


21. IL MIRACOLO DEI PICCOLI MURATORI

 

In cinque pagine delle sue Memorie, don Bosco ricorda l'“orario tipo” che si seguì per anni nell'oratorio di Valdocco. Impegnato, fin troppo diremmo. Credo che pochi, oggi, oserebbero proporre ai ragazzi di un oratorio festivo un orario di quel tipo.

“Di buon mattino si apriva la chiesa, e si cominciavano le confessioni, che duravano fino all'ora di Messa. Essa era fissata alle otto, ma per accontentare tutti quelli che desideravano confessarsi, era sovente differita alle nove”.

La Messa, la Comunione, la spiegazione del Vangelo (che dopo qualche domenica fu sostituita dal racconto a puntate della Storia Sacra). “Alla predica teneva dietro la scuola, che durava fino a mezzogiorno”.

All'una pomeridiana (don Bosco quindi si concedeva al massimo un'oretta per il pranzo e per tirare il fiato) cominciava la ricreazione: bocce, stampelle, fucili e spade di legno, attrezzi di ginnastica. Alle due e mezzo si iniziava il catechismo. Seguiva il Rosario, finché i giovani non furono in grado di cantare i Vespri. Quindi breve predica, canto delle Litanie e benedizione eucaristica.

“Usciti dalla chiesa, cominciava il tempo libero”. Qualcuno continuava la scuola di catechismo, frequentava canto o lettura. La maggior parte giocava, correndo e saltando fino a sera.

“Io mi serviva di quelle smodate ricreazioni per avvicinare ogni ragazzo. Con una parola all'orecchio, a uno raccomandavo maggior obbedienza, all'altro maggior puntualità al catechismo, a un terzo suggerivo di venirsi a confessare, e così via”.

 

Faceva il prete

Don Bosco giocava, faceva anche il saltimbanco (lo dice espressamente), ma faceva specialmente il prete. Sapeva essere gentilmente deciso, quando occorreva. Racconta, per dimostrarlo, “uno dei tanti fatti”.
Un ragazzo, più volte da lui invitato a fare Pasqua, prometteva ma non manteneva mai. Un pomeriggio, mentre giocava con grande foga, don Bosco lo fermò, pregandolo di accompagnarlo in sacrestia per un affare.
“Voleva venire com'era, in maniche di camicia. " No, gli dissi, mettiti la giubbetta e vieni ". Giunti in sacrestia gli dissi:
- Inginocchiati a questo inginocchiatoio. - Che vuole da me?
- Confessarti.

- Non sono preparato.
- Lo so. Preparati e poi ti confesserò.
- Ha fatto bene a prendermi così, altrimenti non mi sarei mai deciso.

Mentre recitavo il Breviario, si preparò un poco. Poi fece bene la sua confessione e il ringraziamento. D'allora in poi fu costante nel compiere i suoi doveri di religione”.

 

Addio al rondò

Sul fare della notte, ancora tutti in cappella per le preghiere della sera, che si chiudevano con un canto. Poi, davanti alla tettoia, la scena allegra e commovente della partenza.

“Usciti di chiesa - scrive don Bosco - ciascuno dava mille volte la buona sera, senza staccarsi dagli altri compagni. Io avevo un bel dire: " Andate a casa, che si fa notte e i parenti vi attendono ". Era inutile. Bisognava che li lasciassi radunare, mentre sei dei più robusti facevano con le loro braccia una specie di sedia sopra cui, come sopra un trono, era giocoforza che io mi ponessi a sedere. Messisi quindi in ordine di più file, portando sopra quel palco di braccia don Bosco, procedevano cantando, ridendo e schiamazzando fino al rondò (l'incrocio di corso Regina, allora chiamato S. Massimo, con altre strade). Colà si cantavano ancora alcune lodi. Fattosi poi profondo silenzio io potevo augurare a tutti buona sera e buona settimana. Tutti, con quanto avevano di voce, rispondevano: buona sera! In quel momento io venivo deposto dal mio trono. Ognuno andava in seno alla propria famiglia, mentre alcuni dei più grandicelli mi accompagnavano fino a casa, mezzo morto di stanchezza”.

Molti di quei ragazzi gli avevano sussurrato: “Don Bosco, non mi lasci solo durante la settimana. Venga a trovarmi”. E dal lunedì, i muratori nei cantieri di Torino assistevano a uno spettacolo strano: un prete si rimboccava la veste e saliva sui palchi, tra secchie di calce e pile di mattoni. Compiuto il suo ministero all'Ospedaletto, nelle carceri, nelle scuole della città, don Bosco saliva lassù a trovare i suoi ragazzi.

Era una festa per loro. La “famiglia” dove tornavano alla sera, in tanti casi, non era quella di papà e mamma, rimasti al paese, ma quella di uno zio, di un parente o di un compaesano. A volte era addirittura quella del padrone, che li aveva avuti in “affidamento” dai genitori. C'era poco calore per quei ragazzi. Era quindi una festa incontrare un amico “vero”, che voleva loro bene e li aiutava.

Proprio perché voleva loro bene, don Bosco si fermava a fare quattro chiacchiere con il padrone. Voleva sapere qual era la loro paga, il tempo di riposo, la possibilità di santificare la festa. Sarà tra i primi ad esigere regolari contratti per i suoi giovani apprendisti, e a vigilare perché i padroni li osservino.

Incontrava i suoi amici, e ne cercava degli altri. “Visitava le fabbriche - testimonierà don Rua - dove c'erano numerosi apprendisti, e tutti li invitava al suo oratorio. Si rivolgeva specialmente ai giovani forestieri”.

 

Don Bosco sputa sangue

Don Bosco però era solo un uomo, e le forze di un uomo hanno un limite. Dopo gli stress della primavera, ai primi calori la sua salute cominciò a sbandare paurosamente.

La marchesa di Barolo, che lo stimava molto, all'inizio di maggio lo chiamò. Era presente il teologo Borel. Gli mise davanti la somma enorme di cinquemila lire (otto anni di stipendio), e gli disse imperiosamente:

- Lei adesso prende questi soldi e se ne va. Dove vuole, in assoluto riposo -. Don Bosco rispose:

- La ringrazio. Lei è molto caritatevole. Io però non mi sono fatto prete per curare la mia salute.

- Ma nemmeno per ammazzarsi. Ho saputo che lei sputa sangue. I suoi polmoni vanno a pezzi. Quanto crede di poter andare avanti così? La smetta di andare nelle carceri, al Cottolengo. E soprattutto lasci per un bel po' di tempo i suoi ragazzi. Il teologo Borel ci penserà lui.

Don Bosco vide in questo invito un ennesimo tentativo di allontanarlo dai ragazzi. Reagì bruscamente:

- Questo non lo accetterò mai. La marchesa perse la pazienza:
- Se non vuol cedere con le buone, dovrò usare le cattive. Lei ha bisogno del mio stipendio per tirare avanti. E allora sa cosa le dico? O lei lascia il suo oratorio e va a riposarsi, o io la licenzio.

- Va bene. Lei può trovare molti sacerdoti da mettere al mio posto. Ma i miei ragazzi non hanno nessuno. Non posso abbandonarli.

Don Bosco dice delle parole eroiche, ma ha torto. La marchesa sembra torturarlo, e invece ha ragione. I prossimi mesi lo dimostreranno. Don Bosco è un sacerdote santo, ma giovane (31 anni) e caparbio: non ha ancora acquistato il senso del limite. La marchesa, 61 anni, si dimostra più saggia di lui. Ed è una santa donna, se dopo questa sfuriata “si mise in ginocchio davanti a don Bosco chiedendogli di essere benedetta” (secondo la testimonianza di don Giacomelli che aggiunge: “Così non usava con me”).

In una lettera che subito dopo consegna a don Borel (con l'intenzione evidente di farla arrivare a don Bosco), la marchesa riassume così la sua posizione:

“1. Approvo e lodo l'opera dell'istruzione ai ragazzi (anche se non la vedo opportuna nelle vicinanze delle mie opere per ragazze pericolanti).

2. Siccome credo in coscienza che il petto di don Bosco ha bisogno di un riposo assoluto, non gli continuerò il piccolo stipendio se non a condizione che si allontani da Torino il tempo sufficiente per rimettersi in salute. Questo mi preme molto perché lo stimo molto”.

Se don Bosco rifiuta, fra tre mesi gli troverà un sostituto come cappellano dell'Ospedaletto. Intanto, per vie traverse, gli fa arrivare l'offerta di 800 lire.

Don Bosco sputava sangue sul serio, aveva con ogni probabilità un'infiltrazione tubercolare ai polmoni. Eppure pensava all'avvenire. Il 5 giugno 1846 affittò tre stanze al piano superiore della casa Pinardi, per quindici 'are complessive al mese.

In questo tempo, anche il marchese di Cavour si faceva risentire. Ogni domenica spediva mezza dozzina di guardie a sorvegliare don Bosco. Nel 1877, don Bosco dirà a don Barberis: “Mi rincresce tanto non aver avuto una macchina fotografica. Sarebbe bello poter rivedere quelle centinaia di giovani che pendevano dalle mie labbra, e sei guardie civiche in divisa, ritte a due a due, impalate in tre diversi punti della chiesa, che con le braccia conserte ascoltavano anch'esse la predica. Mi servivano tanto bene per assistere i giovani, anche se erano lì per assistere me! Qualcuno col rovescio della mano si asciugava furtivamente le lacrime. Sarebbe bello averle fotografate in ginocchio fra i giovani, attorno al mio confessionale, ad aspettare il loro turno. Perché le prediche io le facevo più per loro che per i giovani: parlavo del peccato, della morte, del giudizio, dell'inferno”.

 

“Signore, non fatelo morire”

Prima domenica di luglio 1846. Dopo la massacrante giornata passata all'oratorio in un caldo torrido, mentre torna alla sua stanza presso il Rifugio, don Bosco sviene. Lo portano al suo letto di peso. “Tosse, infiammazione violenta, perdite continue di sangue”. Parole che con ogni probabilità equivalgono a “pleurite con febbre alta, emottisi”. Complesso di malattie gravissime per quel tempo, e per quel malato che già ha avuto sbocchi di sangue.

“In pochi giorni fui giudicato all'estremo della vita”. Gli viene dato il Viatico e l'Unzione degli infermi. Sui palchi dei piccoli muratori, nelle officine dei giovani meccanici, la notizia si diffonde rapida: “Don Bosco muore”.

In quelle sere, alla cameretta del Rifugio dove don Bosco agonizza, arrivano gruppi di poveri ragazzi spauriti. Hanno ancora gli abiti imbrattati dal lavoro, la faccia bianca di calce. Non hanno cenato per correre a Valdocco. Piangono, pregano:

- Signore, non fatelo morire.

Il medico ha proibito ogni visita, e l'infermiere (messo subito accanto a don Bosco dalla marchesa) impedisce a tutti di entrare nella camera del malato. I ragazzi si disperano:

- Me lo lasci solo vedere.
- Non lo farò parlare.
- Io ho solo da dirgli una parola, una sola.
- Se don Bosco sapesse che sono qui, mi farebbe entrare certamente.

Otto giorni don Bosco rimase fra la vita e la morte. Ci furono dei ragazzi che in quegli otto giorni, al lavoro sotto il sole rovente, non toccarono un sorso d'acqua, per strappare al Cielo la sua guarigione. Nel Santuario della Consolata, i piccoli muratori si diedero il turno giorno e notte. C'era sempre qualcuno in ginocchio davanti alla Madonna. A volte gli occhi si chiudevano per il gran sonno (venivano da 12 ore di lavoro), ma resistevano perché don Bosco non doveva morire.

Alcuni, con la generosità incosciente dei ragazzi, promisero alla Madonna di recitare il Rosario per tutta la vita, altri di digiunare a pane e acqua per un anno.

Sabato, don Bosco ebbe la crisi più grave. Non aveva più forze, e il minimo sforzo gli provocava uno sbocco di sangue. Nella notte, molti temettero la fine. Ma non venne.

Venne invece la ripresa, la “grazia”, strappata alla Madonna da quei ragazzi che non potevano rimanere senza padre.

Una domenica verso la fine di luglio, nel pomeriggio, appoggiandosi a un bastone, don Bosco s'incamminò verso l'oratorio. I ragazzi gli volarono incontro. I più grandi lo costrinsero a sedersi sopra un seggiolone, lo alzarono sulle loro spalle, e lo portarono in trionfo fino al cortile. Cantavano e piangevano, i piccoli amici di don Bosco, e piangeva anche lui.

Entrarono nella cappellina, e ringraziarono insieme il Signore. Nel silenzio che si fece teso, don Bosco riuscì a dire poche parole:

- La mia vita la devo a voi. Ma siatene certi: d'ora innanzi la spenderò tutta per voi.

Per me, sono le parole più grandi che don Bosco disse nella sua vita. Sono il “voto solenne” con cui si consacrò per sempre ai giovani e solo a loro. Le altre parole grandissime (vera continuazione di queste) le dirà sul letto di morte: “Dite ai miei ragazzi che li aspetto tutti in Paradiso”.

Le pochissime forze di cui poteva disporre quel giorno, don Bosco le spese per parlare a uno a uno con i ragazzi, “per cambiare in cose possibili i voti e le promesse che non pochi avevano fatto senza la dovuta riflessione quando io ero in pericolo di vita”. Un gesto delicatissimo.

I medici prescrissero una lunga convalescenza di assoluto riposo, e don Bosco salì ai Becchi, nella casa di suo fratello e di sua madre. Ma promise ai ragazzi:

- Al cadere delle foglie sarò di nuovo qui, in mezzo a voi.
“O la borsa o la vita”.
Compì il viaggio cavalcando un asino. Fece tappa a Castelnuovo perché “ben crollato dal somarello”, e arrivò ai Becchi verso sera.

Sull'aia, a dargli il “bentornato” c'era la gioia rumorosa dei nipotini. I figli di Antonio, che s'era costruito una piccola casa di fronte a quella che abitavano da ragazzi, erano cinque: Francesco 14 anni, Margherita 12, Teresa 9, Giovanni 6, e Francesca, una bimbetta vivace di appena 3 anni. Anche Giuseppe, di fronte alla casa paterna, aveva costruito una sua casa, e vi abitava con mamma Margherita e con quattro figli: Filomena che aveva ormai 11 anni, Rosa Domenica 8, Francesco 5, e Luigi che vagiva ancora in culla.

Don Bosco è ospitato da Giuseppe. L'aria delle sue colline, l'affetto silenzioso della mamma, le passeggiate sempre più lunghe che fa verso sera tra i filari dove l'uva comincia a tingersi di rosso, gli ridanno vita e forze.

Ogni tanto scrive a don Borel per avere notizie dei suoi ragazzi. Ringrazia “don Pacchiotti, don Bosio, il teologo Vola, don Trivero”, che vanno a dare una mano.

Nel mese di agosto, in una passeggiata, arriva fino a Capriglio. Sta tornando attraverso un boschetto, quando una voce dura gli intima:

- O la borsa o la vita.
Don Bosco è spaventato. Risponde:

- Sono don Bosco, denari non ne ho -. Guarda quell'uomo che è sbucato tra le piante brandendo un falcetto, e con voce diversa continua:

- Cortese, sei tu che vuoi togliermi la vita?
Ha scoperto in quel volto coperto dalla barba un giovanotto che gli era diventato amico nelle prigioni di Torino. Anche il giovanotto lo riconosce, e vorrebbe sprofondare.
- Don Bosco, perdonatemi. Sono un disgraziato -. Gli racconta a pezzi e bocconi una storia amara e solita. Dimesso dalla prigione, a casa sua non l'hanno più voluto. “Anche mia madre mi voltò le spalle. Mi disse che ero il disonore della famiglia”. Lavoro, nemmeno parlarne. Appena sapevano che era stato in prigione, gli chiudevano la porta in faccia.
Prima di arrivare ai Becchi, don Bosco l'ha confessato, e gli ha detto: “Adesso vieni con me”. Lo presenta ai suoi familiari:
- Ho trovato questo bravo amico. Stasera cenerà con noi.
Alla mattina, dopo la Messa, gli dà una lettera che lo raccomanda a un parroco e ad alcuni bravi padroni di Torino, lo abbraccia.
Ottobre. Nelle lunghe camminate solitarie, don Bosco ha costruito lentamente il suo progetto per il futuro immediato. Tornando a Torino, andrà ad abitare nelle stanze affittate da Pinardi. Lì, poco per volta, darà ospitalità ai ragazzi che non hanno famiglia.

Quel luogo, però, non è adatto per un prete solo. Poco lontano c'è la “casa equivoca”, cioè la casa Bellezza con l'osteria “Giardiniera”, dove gli ubriachi cantano fino a notte alta. Dovrebbe abitare insieme a una persona che lo garantisca dai sospetti e dalle malignità, che a girare fanno presto.

Ha pensato a sua madre. Ma come fare a dirglielo? Margherita ha 58 anni, e ai Becchi è una regina. Come sradicarla dalla sua casa, dai suoi nipotini, dalle abitudini serene di ogni giorno? Forse don Bosco si sente incoraggiato dalla triste stagione che si sta profilando per le campagne. I raccolti del 1846 sono stati cattivi, e per il 1847 si prevedono più cattivi ancora.

- Mamma - le dice una sera prendendo il coraggio a due mani -, perché non venite a passare qualche tempo con me? Ho affittato tre stanze a Valdocco, e presto ospiterò dei ragazzi abbandonati. Un giorno mi avete detto che se diventavo ricco non sareste mai venuta a casa mia. Ora invece sono povero e carico di debiti, e abitare da solo in quel quartiere è rischioso per un prete.

Quella donna anziana rimane pensosa. È una proposta che non si aspettava. Don Bosco insiste con dolcezza:

- Non verreste a fare da mamma ai miei ragazzi?
- Se credi che questa sia la volontà del Signore - mormora -, vengo.

 

Forestieri senza niente

3 novembre, martedì. Le foglie cadevano al vento d'autunno, e don Bosco ripartì per Torino. Portava sotto il braccio un messale e il breviario. Accanto a lui camminava mamma Margherita. Al braccio aveva un canestro con un po' di biancheria e di cibo.

Don Bosco aveva comunicato per lettera le sue decisioni a don Borel, e il “padre piccolo” era stato tanto gentile da trasportare le poche masserizie di don Bosco dalla stanza del Rifugio alle camere di casa Pinardi.

I due pellegrini fecero la lunga strada a piedi. Quando giunsero al rondò, un sacerdote amico di don Bosco li riconobbe, e venne a salutarli. Li vide impolverati e stanchi.

- Bentornato, caro don Bosco. Come va la salute?
- Sono guarito, grazie. Ho portato con me mia madre. - Ma perché siete venuti a piedi?

- Perché manchiamo di questi - e sorridendo fece scorrere il pollice sull'indice. - E dove andate ad abitare?
- Qui, in casa Pinardi.
- Ma come farete a vivere senza risorse?

- Non lo so, ma la Provvidenza ci penserà.

- Sei sempre il solito - mormorò il bravo prete scuotendo il capo. Tirò fuori di tasca l'orologio (allora era un oggetto prezioso e raro) e glielo porse:

- Vorrei essere ricco per aiutarti. Faccio solo quello che posso. Margherita entrò per prima nella sua nuova casa: tre stanzette nude e squallide, con due letti, due sedie e qualche casseruola. Sorrise, e disse al figlio:

- Ai Becchi, ogni giorno dovevo darmi da fare per mettere in ordine, pulire i mobili, lavare le pentole. Qui potrò riposare molto di più.

Ripresero fiato, poi si misero tranquilli a lavorare. Mentre Margherita preparava un po' di cena, don Bosco appese alla parete un Crocifisso e un quadretto della Madonna, poi preparò i letti per la notte. E insieme, madre e figlio, si misero a cantare. La canzone diceva:

Guai al mondo - se ci sente
forestieri - senza niente.
Un ragazzo, Stefano Castagno, li sentì e la notizia corse di bocca in bocca tra i giovani di Valdocco:
- Don Bosco è tornato!

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