Testi Salesiani

2. LA PICCOLA E LA GRANDE TRAGEDIA


2. LA PICCOLA E LA GRANDE TRAGEDIA

 

“Il nome di mia madre era Margherita Occhiena di Capriglio; Francesco quello di mio padre. Erano contadini, che con il lavoro e con la parsimonia si guadagnavano onestamente il pane della vita”.

Giovanni Bosco vide la luce il 16 agosto 1815. Sua madre lo chiamò Giuanin, un diminutivo familiare in ogni parte del Piemonte.

Il suo primo ricordo è la morte del padre. Francesco Bosco aveva comprato una casetta e qualche fazzoletto di terreno. Ma per mantenere le cinque persone che gli erano in casa doveva anche prestare la sua opera presso un vicino, proprietario benestante.

Una sera di maggio, ritornando dal lavoro bagnato di sudore, commise l'imprudenza di entrare nella cantina del padrone. Qualche ora dopo gli venne addosso una febbre violenta, probabilmente una polmonite doppia. In quattro giorni fu stroncato. Aveva 33 anni.

“Non avevo ancora due anni - racconta don Bosco - quando mi morì il padre e non ne ricordo nemmeno il volto. Ricordo solo le parole di mia madre: " Eccoti senza padre, Giuanin ". Tutti uscivano dalla camera del defunto, ma io mi ostinavo a rimanere. " Vieni, Giuanin ", insisteva mia madre dolcemente. " Se non viene papà, non voglio venire neppure io ", rispondevo. " Su vieni, piccolo, il padre non ce l'hai più ". E con queste parole la santa donna, scoppiando in singhiozzi, mi portava via. Io piangevo perché lei piangeva. A quell'età, che cosa può capire un bambino? Ma quella frase " Eccoti senza padre ", mi è rimasta sempre in mente. È il primo fatto della mia vita di cui tengo memoria”.

 

Una stagione stregata

Il secondo ricordo di Giovanni è quello della fame sofferta in quello stesso anno.

I Becchi, la piccola località dov'era la casa della famiglia Bosco, erano dieci case sparse su un'altura, immerse in una campagna ondulata e vastissima. Vigne e boschi. Facevano parte della frazione di Morialdo, a cinque chilometri dal capoluogo comunale, Castelnuovo d'Asti.

Nel 1817 le colline del Monferrato (Castelnuovo è nella fascia settentrionale della regione monferrina) furono colpite insieme a tutto il Piemonte da una carestia dura. Brinate in primavera, poi una lunghissima siccità. I raccolti andarono perduti.

Nei paesi ci fu la fame, la fame vera, quella che faceva trovare i mendicanti morti nei fossi, con la bocca piena d'erba.

Un documento del tempo descrive Torino, la capitale del Piemonte, invasa da una migrazione biblica: file di gente smunta e cenciosa abbandonavano le campagne; dalle valli e dalle colline calavano verso la città gruppi di famiglie, che si accampavano davanti alle chiese e ai palazzi a stendere la mano.

Margherita si trovò sulle braccia la famiglia proprio in quella stagione stregata. In casa aveva la suocera (anziana madre di Francesco) inchiodata dalla paralisi su una poltrona, Antonio (9 anni) figlio di un matrimonio precedente di Francesco, e i suoi due bambini Giuseppe e Giovanni (4 e 2 anni). Contadina analfabeta, manifestò in quei mesi la sua dote migliore, l'energia del carattere.

“Mia madre diede nutrimento alla famiglia finché ne ebbe - racconta don Bosco -. Poi diede una somma di denaro a un vicino, Bernardo Cavallo, perché andasse in cerca di cibo. Andò su vari mercati, ma anche a prezzi esorbitanti non potè provvedere nulla. Giunse dopo due giorni, di sera, aspettatissimo. Quando restituì il denaro dicendo che non aveva trovato niente, il terrore ci invase. Già quel giorno non avevamo mangiato. Mia madre, senza sgomentarsi, prese a parlare: " Francesco, morendo, mi disse di avere confidenza in Dio. Inginocchiamoci e preghiamo ".

Dopo una breve preghiera si alzò e disse: " Nei casi estremi si devono usare mezzi estremi ". Con l'aiuto di Bernardo Cavallo andò nella stalla, uccise un vitellino, ne fece cuocere una parte e ci sfamò. Eravamo sfiniti. Nei giorni seguenti fece venire da paesi lontani dei cereali, a carissimo prezzo”.

Nelle famiglie piemontesi di campagna, fino a non molte decine di anni fa, uccidere il vitello era un atto di disperazione. Il vitellino che ingrossava nella stalla era l'investimento che poteva permettere, con la sua vendita al mercato, il superamento di una congiuntura difficile, per esempio di una malattia. Ucciderlo, voleva dire privarsi dell'estrema riserva della famiglia.

 

Un avvenimento che avrebbe cambiato la faccia al mondo

Morte, fame, precarietà. Primi ricordi di un bambino che diventerà padre di tanti orfani, e darà pane nelle sue case a moltissimi ragazzi poveri.

La piccola tragedia della famiglia Bosco, su una collina sperduta, si aggiungeva alla grande tragedia che come una bufera aveva sconvolto l'Europa e l'Italia in quegli ultimi decenni.

Ventott'anni prima (1789) a Parigi era scoppiata la rivoluzione francese, un avvenimento che avrebbe cambiato la faccia al mondo. Non intendiamo evidentemente tracciarne la storia, ma ci pare di dover accennare ad alcuni aspetti degli avvenimenti, che ebbero profonda incidenza anche sulla vita di Giovanni Bosco.

L'aria, in tutta l'Europa, era diventata di colpo satura di novità e di aspettativa. Anche in Italia rimbalzavano gli echi di formidabili cambiamenti. Dopo secoli di società pietrificata nel dominio assoluto del re e dei nobili, la Francia esplodeva. La borghesia e il popolo reclamavano i loro diritti, la cessazione dei privilegi della nobiltà e dell'alto clero. Le parole “libertà” e “uguaglianza” non erano più sussurrate, ma gridate alla luce del sole.

Venivano proclamati i “diritti dell'uomo” e la “sovranità del popolo”. “Gli uomini sono nati e restano liberi e uguali nei loro diritti. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all'oppressione. La fonte di ogni sovranità sta essenzialmente nella nazione” (Preambolo alla Costituzione del 1791). Per l'affermazione di questi diritti (non più per quelli dinastici di un re) le armate francesi combattevano contro le altre nazioni d'Europa.

Come in ogni epoca di cambiamenti radicali, però, si mescolavano decisioni formidabili e giustissime a violenze faziose e ingiustificate.

I grandi borghesi che guidavano la rivoluzione, fecero riconoscere il diritto di voto soltanto per i proprietari. “L'intervento nelle decisioni governative del popolo privo di istruzione e di autocontrollo - dichiararono - conduce facilmente a eccessi”.
La rivoluzione, quindi, aboliva tutti i privilegi, ma si arrestava davanti a quello della ricchezza. I borghesi ottenevano la libertà, ma i poveri restavano poveri.
D'altra parte, la “rivoluzione parallela” che veniva condotta in quello stesso tempo dai ceti popolari e contadini, sembrava dar loro ragione.
I contadini francesi muovevano all'assalto dei castelli dei nobili e li bruciavano.

Contemporaneamente (erano anni di tremenda carestia) impedivano con mezzi violenti la circolazione dei cereali, e ingaggiavano vere battaglie contro i gruppi di affamati che vagavano disperati in cerca di cibo.

Il popolo di Parigi si accendeva in fiammate insurrezionali violente e improvvise. Il re Luigi XVI fu assediato da gente che lo costrinse a mettersi in testa il berretto dei rivoluzionari e a bere alla salute della nazione. Venti giorni dopo fu trascinato in prigione con la sua famiglia.

Dall'agosto del 1792 al luglio del 1794, la “rivoluzione parallela” prese il potere. I borghesi furono sostituiti alla testa della nazione dai “rappresentanti popolari”, che cercarono di trasformare la “rivoluzione della libertà” in “rivoluzione dell'uguaglianza”.

Alcuni esiti furono, purtroppo, disastrosi.

In settembre, reparti armati del popolo invasero le prigioni colme di aristocratici e di presunti cospiratori, e massacrarono più di mille persone.

Nel gennaio del 1793 il re fu riconosciuto colpevole di tradimento e ghigliottinato.

Nello stesso 1793 iniziò il “periodo del terrore”. Si attribuì il reato di tradimento a tutte le persone “sospette” di essere nemiche della rivoluzione. In ottobre, i condannati alla ghigliottina furono 177, nel luglio dell'anno seguente 1.285. I “nemici della rivoluzione” venivano liquidati in maniera spiccia, senza nemmeno una parvenza di processo.

Nello stesso tempo si procedeva a una massiccia “scristianizzazione”: proibizione del culto cristiano, chiusura delle chiese, distruzione dei simboli cristiani, persecuzione dei preti, sostituzione del “culto della Ragione” a quello di Dio (con avvilenti mascherate nella stessa cattedrale di Parigi).

L'Europa guardava allibita. I fatti di Parigi in quei mesi sembravano manifestazioni di demenza collettiva. Anche le persone più progressiste, che all'inizio avevano simpatizzato con la rivoluzione, erano sconvolte.

Quando, negli anni futuri, si parlerà con paura di “rivoluzione”, si penserà al periodo del terrore parigino. Con il termine di

spregiativo di “rivoluzione democratica” si intenderà indicare il “popolaccio scatenato nel disordine e nella violenza”.

 

Un generale di 27 anni: Napoleone

Nel luglio del 1794 il terrore e la “dittatura popolare” finirono con la condanna a morte dei suoi stessi capi: i fanatici “giacobini” Robespierre, Saint Just, Couthon.

La rivoluzione tornò ad essere “borghese”. La nuova Costituzione (varata nel 1795) riconobbe il diritto di voto unicamente a 30.000 persone (Parigi aveva 600.000 abitanti). La direzione del Paese veniva attribuita solo al ceto ristretto dei grandi proprietari. E presto si sarebbe verificata un'“involuzione”: il regime repubblicano si sarebbe trasformato addirittura in un'“impero”.

1796. Un'armata della rivoluzione giunge in Italia guidata da un generale di 27 anni, Napoleone Bonaparte. Nella Valle Padana batte in battaglie sanguinose gli Austriaci. I soldati francesi parlano di fraternità, uguaglianza, libertà. Nonostante le ombre del terrore, queste parole accendono entusiasmi enormi tra le giovani generazioni. Il regno di Sardegna (Piemonte-Savoia-Sardegna) è sconvolto. Il re parte per l'esilio.

Ma Napoleone è un genio inquieto. Più che il trionfo della rivoluzione insegue luminosi e sanguigni traguardi di gloria militare.

Le tragiche vicende dell'Italia di quegli anni, oggi le studiano i ragazzini di terza media. Nel 1799 Napoleone è in Egitto, e gli Austro-Russi invadono nuovamente l'Italia del nord: sui piccoli cavalli della steppa, i cosacchi (barbe lunghe e folte, picche minacciose) rientrano nelle città. Napoleone ritorna, ed è di nuovo guerra, che semina miseria anche nelle ricche campagne della Valle Padana.

Poi Napoleone torchia denari e soldati da ogni regione d'Italia: gli servono per la guerriglia della Spagna e la spedizione in Russia. Egli invade questo lontano e misterioso Paese alla testa del più grande esercito di tutti i tempi. Nel rigido inverno di Mosca, il grande crollo e la disastrosa ritirata. Napoleone si vede morire accanto 600.000 uomini. Tra essi 25.000 italiani. 20.000 sono stati uccisi in Spagna.

Dal 16 al 19 ottobre 1813, nella piana di Lipsia, la gigantesca “battaglia delle nazioni” segna la fine del grande Impero francese, e (nella mente di molti) il seppellimento degli ideali della Rivoluzione.

Ancora una volta, giù dalle Alpi e attraverso l'Isonzo, calano verso la pianura padana Austriaci, Tedeschi e Croati. Tutti proclamano di venire a “liberare l'Italia”, ma come tutti i “liberatori” nessuno li ha chiamati, e si autopagano depredando campagne e città. Dopo l'ultimo sussulto dei “cento giorni” e la battaglia di Waterloo, Napoleone finisce i suoi giorni in un isolotto dell'Atlantico.

L'Europa e l'Italia sono stanche, seminate di rovine e di orfani. Le campagne sono state spogliate dalla guerra, spopolate dalle “leve” che requisivano a forza i giovani per portarli a morire su lontani campi di battaglia.

La gente, che ha gridato per anni “libertà”, cerca ora soltanto la pace.

È nel contesto di questa grande tragedia di popoli che la famiglia Bosco vive, nel 1817, la sua piccola ma intensa tragedia.

 

Il re rimette indietro di 15 anni l'orologio

Giovanni Bosco saprà dai libri di storia di essere nato all'inizio di una nuova epoca, chiamata “restaurazione”. Era iniziata il 1° novembre 1814, con l'apertura a Vienna del Congresso delle nazioni vincitrici, e nella maggior parte dell'Italia sarebbe durata fino al 1847, cioè fino all'inizio del Risorgimento.

La restaurazione è un'epoca di grossi equivoci. I re detronizzati dalla rivoluzione e da Napoleone tornano, per volontà del Congresso, alle loro regge, e pretendono, con alcuni tratti di penna, di cancellare venticinque anni di storia.

L'Italia, alla festa di Vienna, è stata divisa come una torta in otto fette: il Regno di Sardegna (comprende Piemonte, Sardegna, Savoia, Nizza, e gli è stata assegnata come “giunta” la repubblica di Genova), il Regno Lombardo-Veneto (strettamente sottoposto all’Austria), il Ducato di Modena, quello di Parma e Piacenza, il Granducato di Toscana, il Principato di Lucca, gli Stati Pontifici, il Regno delle Due Sicilie.

Vittorio Emanuele I rientra a Torino. È a bordo del carrozzone di gala, circondato dai nobili vestiti all'uso antico, con parrucca incipriata e codino.

La gente per le strade acclama il re. Specialmente la gente che vive nelle campagne vuole la pace più di ogni altra cosa. Ma le parrucche incipriate dei nobili la vogliono garantire ricostruendo “tutto come prima”. Ignorano le realtà nuove, positive, che pur tra le sanguinose campagne di Napoleone sono nate e si sono irrobustite in Italia.

La storia ha camminato, e niente può farla tornare indietro. La borghesia si è affermata come la classe nuova. Il commercio e gli uomini viaggiano sulla solida rete stradale costruita dagli ingegneri napoleonici.

Per centinaia d'anni la grande massa della popolazione italiana è nata, vissuta, morta nello stesso podere, nel medesimo villaggio, pietrificata nelle sue piccole autarchie, nelle sue usanze secolari. Le armate napoleoniche hanno rotto questa inerzia. L'emigrazione interna, anche se provocata spesso da cause tragiche, è diventata un fenomeno di massa.

Sulle diligenze viaggiano anche giornali e libri. Pochi sanno leggere, ma la curiosità è ormai una qualità diffusa. I pochi lettori comunicano notizie, gli orizzonti si allargano. Francesco IV di Modena denuncerà al congresso di Lubiana (1821): “La libertà di stampa, la diffusione delle scuole, il libero passo accordato a tutti d'imparare a leggere e a scrivere: ecco i cattivi semi da cui germogliano le rivoluzioni”.

In Piemonte l'agricoltura prenderà presto uno sviluppo nuovo, rigoglioso. Si sono distrutte le ultime foreste nelle zone piane e sulle colline. Nuove vaste zone sono diventate coltivabili. Si stanno piantando migliaia di gelsi, che permetteranno un rapido sviluppo alla coltura del baco da seta.

Presto sorgeranno ovunque manifatture, opifici, “martinetti”. L'industria si articolerà, i prezzi si stabilizzeranno.

Vittorio Emanuele I, il giorno dopo il suo ritorno, abolisce le leggi degli ultimi quindici anni e rimette in vigore quelle pre-napoleoniche. Nobili e alto clero riacquistano tutti i loro

privilegi. La borghesia perde di colpo molti dei suoi sudati diritti.
Conseguenze: mentre il re rimette indietro di 15 anni il suo orologio, gli intellettuali borghesi (come Silvio Pellico) emigrano a Milano; la gioventù delle migliori famiglie fa la fronda, entra nelle società segrete, e punta le sue speranze su un giovanissimo principe di casa Savoia-Carignano, Carlo Alberto, che pare sensibile ai tempi nuovi.

Gli echi di queste vicende arrivano molto smorzati sulle colline del Monferrato, dove Giovanni Bosco vive gli anni poveri e sereni della sua infanzia.

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