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Una Parola che mette a nudo e che ferisce

Questo dolore della Parola che mette a nudo, giudica e mette a morte è però tollerabile perché nasce da uno sguardo di amore, esattamente come lo sguardo di Gesù sull'uomo ricco, uno sguar¬≠do che trasmette amore, quell'amore al cui interno può avvenire la rive¬≠lazione della povertà...


Una Parola che mette a nudo e che ferisce

Che cosa avviene quando la Parola di Dio, scaturita dal testo biblico, raggiunge l'ascoltatore? Un'esperienza non infrequen­te che al credente è dato di fare è quella di sentirsi «radiografato», «messo a nudo» o durante la proclamazione liturgica della Parola o durante la lettura di un testo biblico nella lectio divina, oppure all'ascolto di una omelia o di un commento di un testo biblico. La fede e l'ascolto che il credente predispone divengono sorpren­dentemente accoglienza di una Parola che già lo conosce e così lo mette in crisi. È l'esperienza di David che reagisce con veemenza alle parole del profeta Natan, ma poi deve riconoscere che ciò che ha detto il profeta non riguarda altri, ma concerne direttamente e personalmente lui: «Sei tu quell'uomo!» (cf 2 Sam 12,1-14); è la sor­presa della donna di Samaria di fronte a Gesù che le parla (Gv 4,26): «Mi ha detto tutto quello che ho fatto» (Gv 4,29). Nella Parola di Dio, in ogni pagina della Scrittura che contiene la Parola di Dio, è sempre presente la domanda di Dio rivolta ad Adamo e ad ogni uomo: «Dove sei?» (Gen 3,9), dove ti situi? Domanda che coglie Adamo e ogni uomo che accetti di ascoltarla, nella nudità, nella fragilità: non che questa Parola crei tale nudità, ma la fa emergere, ponendo l'uomo davanti a una Presenza altra (cf Gen 3,10). Quan­do si ascolta la Parola di Dio nella convinzione di fede che essa ci ri­guarda (vorrei sottolineare: ci ri-guarda, ci scruta e ci vede nel pro­fondo), che parla a noi e di noi (res nostra agitur), allora noi la ac­cogliamo quale veramente è: non come parola «su» Dio, non co­me parola solamente umana, ma «quale Parola di Dio che esercita la sua efficacia in coloro che credono» (cf lTs 2,13).

Questa efficacia della Parola, che implica anche una sua valen­za giudiziale, è parallela a quella dell'Eucaristia attestata con forza da Paolo. È quanto emerge dal passo di 1Cor 11,17-34 in cui i versetti 26-32 testimoniano la valenza giudiziale dell'Eucaristia:

«Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi an­nunciate la morte del Signore, finché egli venga. Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esa­minassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme con il mondo» (1 Cor 11,26-32).

Come l'Eucaristia è un «annunciare» la presenza del Signore crocifisso, risorto e veniente (1Cor 11,26; verbo katanghéllein), co­sì annunciare l'Evangelo (1Cor 9,14; verbo katanghéllein) è un ma­nifestare la presenza del Cristo vivente (cf 2Cor 4,2): «Cristo è pre­sente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura» (SC 7); tramite le Scritture «Dio parla al suo popolo, Cristo annuncia ancora l'Evangelo» (SC 33); nelle Scritture Dio viene con sovrabbondanza di amore incontro al suo popolo, cerca l'incontro e la relazione con ogni credente (cf DV 21). Sì, se nell'annuncio della Parola di Dio avviene la phanérosis tês aletheías (2Cor 4,2), la «manifestazione della verità» che è Cristo, questa diviene anche svelamento della verità che è in ciascuno: ma svelamento è anche spogliazione, abbattimento delle difese, delle corazze, delle maschere, perché emerga la verità interiore. E questo svelarsi a noi della nostra verità intima si accompagna sem­pre a un grande dolore: il dolore della morte delle nostre idealiz­zazioni, dello spezzamento delle immagini di noi che tanto amia­mo ma che null'altro sono se non idoli. Come le folle di Gerusa­lemme, così anche il credente di sempre sente la trafittura del cuo­re all'ascolto della Parola di Dio (cf At 2,37).

Questo dolore della Parola che mette a nudo, giudica e mette a morte è però tollerabile perché nasce da uno sguardo di amore, esattamente come lo sguardo di Gesù sull'uomo ricco, uno sguar­do che trasmette amore («Gesù, fissato lo sguardo su di lui, lo amò»: Mc 10,21), quell'amore al cui interno può avvenire la rive­lazione della povertà, della mancanza profonda, forse anche della contraddizione che abita quell'uomo («Una cosa ti manca»: Mc 10,21), senza che questa lo schiacci, lo umilii, ma sia invece il pri­mo gradino della sequela dietro a Gesù nella libertà e nella verità («Vieni e seguimi»: Mc 10,21).

Sì, la valenza giudiziale della Parola, il fatto che essa tenda a con­vincere di peccato, a svelare all'uomo la debolezza e la povertà che lo abitano, è parte costitutiva del cammino di salvezza che la Pa­rola di Dio indica e fa percorrere all'uomo. È una Parola che fa emergere la situazione reale dell'uomo davanti a Dio, gli pone un'esigenza che indirizza il suo cammino e concede anche, a chi la accoglie, la forza di mutare la propria condizione. In questo mi pa­re di ravvisare le tre grandi «forme» della Parola di Dio nell'Antico Testamento: la sapienza, la legge, la profezia. Se la parola sapienzia­le «dice» il reale, se la parola del comando (la legge) «orienta» il reale e se la parola profetica «interviene» nel reale e lo «cambia», sempre que­sta parola cerca relazione con l'uomo e la trova in pienezza nella Parola fatta carne, Gesù Cristo, che è la via (livello della Legge - To­rah), la verità (livello profetico) e la vita (livello sapienziale). Gesù Cristo è la Parola, e in quanto tale è anche il Giudizio, è colui che sa ciò che vi è in ogni uomo (Gv 2,25), che scruta il cuore e i reni, cioè la vita conscia e l'inconscio degli uomini. Egli è la Parola di Dio i cui occhi sono fiammeggianti (Ap 19,12-13).

Insomma, la Parola di Dio ci giudica quando e perché da essa noi ci sentiamo posti di fronte alla Presenza del Signore! E questo giudizio tende a suscitare la responsabilità dell'uomo: «Davanti al­la Parola di Dio (lógos toû theoû) non c'è creatura che possa na­scondersi, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi (cioè, della Parola) e noi ad essa dobbiamo rendere conto (ho lógos)» (Eb 4,13). Alla Parola (di Dio) deve rispondere la nostra parola, cioè l'intera nostra vita con tutte le dimensioni psicologiche e affettive, soma­tiche e spirituali che sono interpellate, toccate, messe in crisi, fe­rite dalla Parola. È l'opera di purificazione che la Parola, abitata dallo Spirito di Dio, opera nell'uomo. È la morte attraverso cui la Parola fa passare il credente per guidarlo alla pienezza della vita. Perché anche l'ascolto della Parola avviene all'interno della logica pasquale, cioè nel quadro di una morte e di una resurrezione. Ac­cogliere la Parola dell'Evangelo comporta sempre questa dinami­ca pasquale. E questo ci dice come sia difficile l'ascolto della Paro­la di Dio: noi poniamo resistenze a tale ascolto, temiamo il giudi­zio della Parola su di noi, cerchiamo di evitare la purificazione e lo spogliamento prodotti in noi dall'accoglienza del seme della Pa­rola, così come i terreni non profondi, sassosi, o infestati dai rovi (Mc 4,1-9.13-20) non accolgono la semente perché per farlo do­vrebbero lasciarsi dissodare dai sassi, ripulire dai rovi, arare e sar­chiare come fa il padrone della vigna nella parabola narrata in Is 5. Ma, per quanto temibile, questo giudizio è vitale. Come è vitale l'evento della morte di croce che si apre alla resurrezione.

Luciano Manicardi

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