Le risorse di cui il paese è ricco depredate dai gruppi armati; la testimonianza di un gesuita in prima linea a fianco dei minatori sfruttati.
del 20 novembre 2013
“Guerra mondiale africana”: con questa espressione, apparentemente paradossale, è stato definito il conflitto che, dalla metà degli anni ’90, attraversa la Repubblica Democratica del Congo. Il motivo del paragone sta nel numero delle vittime, senza precedenti, appunto, dal 1945: almeno 5 milioni di morti, ma alcune stime arrivano ad 8. Enorme anche il numero dei rifugiati nei Paesi confinanti - circa 450 mila, secondo l’UNHCR - e degli sfollati interni, oltre 2 milioni e mezzo.
Nell’ultimo anno e mezzo le ostilità si sono concentrate soprattutto attorno a Goma, capoluogo della regione orientale del Nord-Kivu. A contendersene il controllo, da un lato l’esercito congolese, appoggiato da una missione delle Nazioni Unite (MONUSCO) di oltre 20mila uomini ma dal mandato - fino a pochi mesi fa - limitato, e spesso criticata; dall’altro, l’ultimo di una lunga serie di gruppi ribelli, il Movimento del 23 marzo (M23), che secondo un rapporto dell’Onu è stato sostenuto - come altri in passato - da Uganda e Rwanda.
M23 ha recentemente annunciato la fine delle ostilità e un negoziato di pace resta faticosamente in piedi, ma anche le difficoltà rimangono. “Se anche l’M23 sarà eliminato, nasceranno altri gruppi, perché con un kalashnikov possono avere cibo, donne e denaro gratis”, dice ad esempio padre Didier De Failly, gesuita belga che da oltre 20 anni lavora nell’area. Le motivazioni economiche, in effetti, non sono l’unica causa del conflitto, ma certamente le immense risorse del Congo hanno contribuito alla sua durata.
Tutto, puntualizza il religioso, è stato usato come fonte di finanziamento dai belligeranti - compreso il malpagato esercito regolare - “il carbone di legna, il legno stesso, e poi anche i minerali”. L’est del Congo infatti ospita importanti riserve di oro, cassiterite (da cui si estrae lo stagno), tungsteno e coltan, miscela di columbite e tantalite, i cui costituenti sono fondamentali per la produzione di computer, telefoni cellulari e componenti elettronici in genere.
L’estrazione dei minerali deve molto al lavoro di un gran numero di minatori artigianali (detti localmente creuseurs, ‘scavatori’), che però hanno visto finire altrove la stragrande maggioranza dei profitti. Molte ong e le stesse Nazioni Unite hanno denunciato gli illeciti che permettono ai gruppi armati (complici alcuni Stati vicini) di contrabbandare le risorse congolesi sui mercati internazionali. Per contrastare i traffici, la parola d’ordine, per molti, è ‘tracciabilità’: certificare la provenienza di ogni singolo carico di minerali, in modo da impedire che finanzi il conflitto. È questa la filosofia, ad esempio, di alcune norme contenute nella legge statunitense ‘Dodd-Frank’ del 2010.
“La tracciabilità è essenziale”, riconosce padre De Failly, che, oltre ad essere una delle molte voci ecclesiali intervenute sulla questione mineraria, la studia da specialista fin dal 2001. Ma ricorda che prima della ‘Dodd-Frank’ un’altra legge fu proposta da tre senatori “tra cui Russ Feingold, oggi inviato speciale Usa nell’area”. Questa proposta “prevedeva sanzioni, ma anche misure a favore dei minatori; sfortunatamente - spiega ancora il sacerdote - la ‘Dodd-Frank’ ne ha ripreso solo la parte punitiva”.
Il lavoro nella società è invece fondamentale: sono ancora poche le miniere ‘certificate’ e in più i prezzi sul mercato locale sono crollati. Come sostenere dunque chi ormai vive solo di questa industria? Il missionario non ha dubbi: il lavoro di documentazione sul terreno resta il primo passo. “Sappiamo ancora troppo poco delle condizioni di vita e di lavoro dei minatori”, dichiara infatti. “Ad esempio - spiega - abbiamo visto che molti di loro sono analfabeti perché, quando erano in età scolare, c’era la guerra”. L’alfabetizzazione dei minatori tramite quelli tra loro che hanno potuto frequentare almeno qualche anno di scuola, dunque, è uno dei compiti cruciali; ma la formazione deve andare oltre, e coinvolgere gli attivisti locali. Lo scopo, spiega il gesuita, è prendere chi viola i diritti dei creuseurs “tra due fuochi”: da un lato una forza-lavoro istruita, dall’altro una società civile attiva.
Se gli si domanda che rapporto abbiano questi sforzi con la sua vocazione missionaria, padre Didier ricorda i molti casi a cui ha assistito di studenti universitari che, per pagarsi gli studi, lavoravano da ‘scavatori’ durante la sospensione dei corsi. Poi dice: “Sono persone deboli; io mi batto per i diritti di questi piccoli”. E questo, conclude “è assolutamente cristiano”.
di Davide Maggiore
tratto da http://www.aleteia.org
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