Nel “Punto”, sorta di Rassegna stampa del Corriere, è stato pubblicato un articolo interessante, di taglio educativo, a firma di Elena Tebano, la quale, citando alcuni articoli e pubblicazioni straniere, fa emergere perché giochi pericolosi fanno bene ai bambini. Eccone uno stralcio:
«Una delle regole implicite dell’educazione contemporanea è che dove c’è un bambino che gioca, c’è sempre anche un o una adulta che lo monitora. E spesso interviene perché eviti di fare cose “pericolose”. Per la maggior parte della storia dell’umanità, non è stato così. E fino agli anni 70 o 80 era normale che i bambini giocassero da soli in cortile o in strada. Io a sei anni giocavo nel giardino condominiale con mio fratello gemello e i figli dei vicini mentre gli adulti erano a casa. A sette andavamo a scuola da soli a piedi, a otto giravamo in bicicletta per il quartiere (c’era solo un divieto: “Non andate sulla strada grande”). Il nostro gioco preferito - una prova di coraggio - era saltare dal muretto di un asilo vicino a casa insieme ai bambini più grandi. Oggi simili passatempi fanno rabbrividire e i genitori che li permettono sono considerati pessimi genitori. In realtà è il contrario: il gioco rischioso fa bene. E sempre più ricerche mostrano che permettere ai bambini di giocare senza la supervisione costante degli adulti è altamente educativo e gli permette di sviluppare maggiori risorse fisiche e mentali».
Perché dobbiamo scoprire le cose solo quando arrivano dagli USA o dai pesi scandinavi, quando la nostra tradizione educativa ha sempre veicolato la pericolosità e l’aggressività dentro il gioco, palestra di vita? Uno spazio dove il rischio è calcolato (con un margine di incertezza) e proprio per questo motivo di educazione. Ecco la pedagogia scout, don Bosco che non mandò i suoi ragazzi in guerra come don Cocchi, ma grazie a un militare in pensione incanalò l’aggressività di moda in un mondo ludico.
Che dire? Viva la pallaguerra.
So long
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