La scrittrice è spesso ricordata solo per l’autobiografico “Una donna”, che nel 1906 fece grande scalpore.
Il nome di Sibilla Aleramo resta consegnato a un solo libro autobiografico, Una donna (1906), un esordio che fece scalpore, diventando il manifesto, seppure involontario, del femminismo italiano: si consideri che le suffragette Christabel e Annie Kenney erano state arrestate l’anno prima per aver gridato slogan in favore del diritto di voto. I gender studies, a proclamarne l’importanza nel quadro della letteratura delle donne, avrebbero poi fatto il resto.
La trasformazione della scrittrice in icona delle sacrosante battaglie per l’emancipazione femminile non ha però giovato a una giusta comprensione della sua prolifica carriera letteraria, schiacciando troppo e molto in fretta l’opera sulle sue turbolente vicissitudini esistenziali, senza aggiungere che la scrittrice ha pubblicato libri assai migliori, come per esempio il terminale Dal mio Diario (1940-1944), apparso nel 1945. La stessa Aleramo, per altro, è stata la prima causa del suo male, favorendo con certe sue dichiarazioni la pigrizia dei critici e la loro disposizione ideologica: «Ho fatto della mia vita, come amante indomita, il capolavoro che non ho avuto così modo di creare in poesia».
Ritorna ora a rimettere le cose per il giusto verso il più grande italianista francese in attività, e cioè René De Ceccatty, che ripropone per In-Schibboleth un libro apparso in patria nel 1992, Sibilla Aleramo. Notte in un paese straniero (pagine 416, euro 24,00), che ebbe allora grande fortuna. Bisognerà aggiungere che De Ceccatty unisce le formidabili qualità di biografo (ha già scritto, tra gli altri, di Pasolini, Moravia, Elsa Morante, Maria Callas) a quella di scrittore dotato d’un vero e proprio talento narrativo.
Dico subito, a questo proposito, che l’incipit è di grande effetto: è il 18 gennaio 1929 e Sibilla Aleramo, a cinquantadue anni, è pronta a umiliarsi davanti a Benito Mussolini, un uomo per il quale non nutre alcun rispetto. Proprio lei, già socialista e poi futurista, che aveva firmato il manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce ed era stata persino amante di Tito Zaniboni, il quale aveva tentato di uccidere il duce. Avrà poi anche il tempo, nel 1945, di inscriversi al Partito comunista: «È una donna graziosa ma dalle forme un po’ appesantite; si crede bella, e ha conservato in effetti una certa eleganza altezzosa». Adesso però è «povera e avvilita dall’oscurità a cui l’hanno condannata i suoi troppo numerosi voltafaccia politici e letterari, le sue infatuazioni amorose troppo affrettate, la sua spiccata propensione per l’irresponsabilità sentimentale». Chiede di essere la prima donna ad entrare nell’Accademia d’Italia: otterrà invece un vitalizio perché – le ricorda il Duce –, seppure lo meriterebbe, le donne non possono essere ammesse. Sono gli anni di maggiore prostrazione: quelli in cui, disperata e indigente, arriverà pure a collaborare – siamo nel 1930 – con la rivista tedesca “Querschnitt”, «che dedica un numero all’Italia», sulla quale elogia l’«ordine nuovo» del fascismo, che avrebbe ricondotto «le masse femminili alla loro precisa e sacra funzione di riproduttrici della specie».
Non starò a ricapitolare le tante relazioni d’una vita libera e spregiudicata – a cominciare dal matrimonio con Ulderico Pierangeli, preparato da un vero stupro, per finire con l’amore senile nei confronti del giovanissimo poeta Franco Matacotta, passando per l’appassionata e furiosa storia con Dino Campana –, né l’abbandono del marito e del figlio piccolissimo (che rivedrà di nuovo a 56 anni, «ormai estranei l’uno all’altra, lui più vecchio di lei»), oppure l’animata vicenda culturale, o anche i moltissimi rapporti con figure eminenti della società letteraria, tra i quali spicca il «meschino e abietto» Salvatore Quasimodo, ancora lontano dal Nobel: «Quasimodo aveva bisogno di essere amato da una scrittrice la cui vita fosse all’altezza della sua opera: per lui, geometra spesso lasciato in disparte a causa delle sue attività antifasciste, la letteratura rappresenta un sogno antisociale, poiché non è di letteratura che vive». E poi: «Quest’ometto mingherlino, invecchiato prima del tempo, forma con la donna florida che è ormai diventata Sibilla una coppia tipica dell’Italia di quegli anni: sembrano due normalissimi coniugi di mezza età, che si siano tanto amati in gioventù». Infine, con una perfida stoccata a Enrico Emanuelli, scrittore oggi completamente dimenticato: «In confronto a loro Emanuelli, coi suoi capelli neri impomatati, il collo forte e i pantaloni da golf, strabocca di giovinezza e vitalità».
Se ho indugiato sulla citazione è perché ci consente di capire meglio che tipo di scrittore sia René De Ceccatty, di certificare la sua felice capacità di mettere al servizio dell’invenzione del vero – perché di questo si tratta – le qualità d’un avvincente romanziere, che però non ha alcuna intenzione di “fare” romanzo, inseguendo chissà quale calligrafia dell’immaginazione.
Concludo sulle pagine che De Ceccatty dedica al primo tempo della vita di Aleramo, imperniate sulle figure dei genitori: le quali dimostrano come si possa fare psicocritica senza lasciarsi soggiogare dalla dogmatica psicoanalitica, attitudine per altro diffusa tra i critici transalpini, in una cultura non poco funestata, più che dai profondismi di Freud, da quelli di Lacan. Stando al rapporto coi genitori della bambina Sibilla, presto carica di responsabilità per via della malattia mentale della madre, forse si capisce meglio ciò che sarà il suo destino. La madre: che tentò il suicidio gettandosi dal balcone passando poi il resto della vita in manicomio. Il padre: che l’adora ricambiato, ma che lei scopre adultero con un’operaia della fabbrica che dirige. Al fondo di tutto, in una vita così venturosa, stinge un’irredimibile disperazione, ma sempre dissimulata. Ecco: «In cos’altro consiste l’amore se non nell’accettare l’abiezione del sesso e nel prepararsi alla lunga noia di due vite parallele?». Ma è davvero questo l’amore?
di Massimo Onofri
tratto da avvenire.it
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