A partire dal Cinquecento il pane eucaristico ha educato atteggiamenti, modellato la socialità, configurato lo spazio urbano: presenza stratificata che resta forte anche nell'Italia secolarizzata
Esce in questi giorni in libreria per i tipi di Einaudi il saggio dello storico del cristianesimo Matteo Al Kalak, Mangiare Dio. Una storia dell'eucaristia (pagine 272, euro 28). Anticipiamo qui alcune pagine dell'introduzione.
Il 13 ottobre 1972 un velivolo dell’aeronautica militare uruguayana si abbatteva sulle Ande al confine tra Cile e Argentina. A bordo c’era una squadra di rugby, gli Old Christians Club, partita da Montevideo per disputare un incontro. Quando l’aereo precipitò al suolo, a 3.600 metri di quota, molti passeggeri riuscirono a sopravvivere, ma furono subito assaliti da un dilemma angosciante: come avrebbero potuto resistere al freddo, ai ghiacci e alle ferite riportate, in attesa che i soccorsi arrivassero? Non trascorse molto perché, nella mente di chi aveva superato lo schianto, si affacciasse un’idea, sinistra e inconfessabile, per reagire alla fame e al venir meno delle energie. L’unico cibo che si poteva trovare in quel luogo desolato era la carne di chi non ce l’aveva fatta, di quanti erano morti a causa dell’impatto. [...] Come fu possibile che quegli uomini appesi tra la vita e la morte, tra il cannibalismo e il suicidio, potessero ritrovare nell’eucarestia un modello di sopravvivenza? Non vi è dubbio, come si è detto, che l’ostia, “carne trionfale” di Cristo, fosse un’esperienza frequente, consueta e familiare per i sopravvissuti del 1972 come per molti cattolici praticanti. Tuttavia, ciò che la terribile prova in cui incapparono suggerisce è che il sacramento, al di là degli sforzi teologici, normativi e pastorali per regolarne la fruizione e la percezione da parte dei fedeli, conservò inalterata la sua natura prodigiosa e razionalmente inafferrabile, ispirata a una sacralità dai contorni antichissimi.
Nella vita del cattolico, l’eucarestia doveva essere il pane necessario, sostegno indispensabile per proseguire nel cammino di ogni giorno; e ciò che agli occhi dei protestanti era la ridicola illusione di una teologia distorta, per le autorità romane assurgeva a segno sublime dell’amore oblativo di Dio. Ancora all’inizio del Novecento, il catechismo di Pio X insisteva nel definire l’eucarestia a partire anzitutto dalla “materialità” del suo mistero: essa era «il sacramento che, sotto le apparenze del pane e del vino, contiene realmente Corpo, Sangue, Anima e Divinità del Nostro Signor Gesù Cristo per nutrimento delle anime». Imparata a memoria da generazioni di devoti, questa formula compendiava ciò che l’eucarestia era nella professione di fede della cristianità obbediente a Roma, ma rivelava anche come la Chiesa continuasse a sottolinearne una duplice fisionomia: nelle specie offerte sull’altare si fissavano anima e divinità di Cristo (una dimensione spirituale di grazia comunicata al fedele) e la fisicità del corpo e sangue dell’uomo- Dio Gesù. [...] L’eucarestia plasmata dalla Controriforma e corroborata dall’intransigentismo ottocentesco è infatti uno dei pilastri di quella che è stata definita la religione degli italiani, una religione riepilogata «nel cattolicesimo tridentino e nella pratica sociale delle [sue] forme rituali e istituzionali», anche intesi come elemento di unità nazionale.
È un pezzo di pane, l’eucarestia, attorno a cui si sono sviluppati linguaggi e retoriche: Cristo sacramentato ha educato i fedeli ad assumere determinate posture, in chiesa e fuori di essa; ha configurato lo spazio urbano, divenendo esso stesso un elemento del paesaggio fisico e culturale; è uno spettacolo, fatto di luci, suoni e immagini, che eccita i sensi e rende Dio percepibile nei moti dell’animo. È onnipresente, tramite le associazioni immaginifiche costruite dalla teologia e dall’omiletica: quando si mangia il pane di ogni giorno, invocato dal paternoster (che è fisico e spirituale assieme); quando si guarda al potere vivificante del sole, che con i suoi raggi benefici è come l’ostensorio circonfuso di oro; quando si è nella malattia e nella sofferenza, curate dall’unico vero medicamento, commestibile e assimilato dal corpo, che è l’eucarestia.
Tutto questo si deposita nei comportamenti e nelle abitudini della devozione: l’Italia, dal Cinquecento ai giorni nostri, è scandita da processioni che, come ricorda la fortunata iconografia di santa Chiara che ghermisce l’ostia contro i Mori, fanno del pane consacrato un potente farmaco contro i nemici visibili e invisibili. I cortei scacciano le epidemie, le carestie stagionali, gli assalitori della cristianità e i tanti flagelli con cui Dio prova il suo popolo. Ma costituiscono anche momenti in cui il potere e l’articolazione del corpo sociale manifestano visibilmente la propria presenza, dal vescovo e dal sindaco con la fascia tricolore dell’Italia democratica, sino al doge, al governatore e ai magistrati di antico regime che sfilano dietro al sacramento. Grandi feste di popolo e di paese che conservano una presa sulla società attraverso la capacità aggregativa e la suggestione comunitaria, oltre che in virtù di un’intramontabile ricerca di rassicurazione su cui ha scritto pagine profonde Jean Delumeau.
La religione degli italiani, pur provata dalla secolarizzazione, sembra rinunciare sempre di più a sacramenti come la confessione, un tempo centrali, e persino al matrimonio in chiesa, ma non a nutrirsi, direttamente o indirettamente, del pane celeste. I segnali di crisi, anche su questo versante, non mancano e meriterebbero una ricerca a sé. Malgrado ciò, l’ingente investimento della Chiesa cattolica sull’eucarestia ha opposto resistenza, più che in altre confessioni religiose, alle molte proposte di modernizzazione che hanno riguardato il sacramento. L’obiettivo, studiato, consapevole e, sotto vari punti di vista, comprensibile, è stato quello di tutelare l’irrazionalità insita nel candido tondo, anche al variare delle liturgie, delle costruzioni retoriche e interpretative, degli adeguamenti pastorali, e così via. Per quanto il sacramento abbia conosciuto una straordinaria diffusione sociale, culturale e cultuale, il valore che di fatto ne costituisce il fondamento è, in ambito cattolico, la sua intima natura prodigiosa. A differenza di altre denominazioni cristiane, ci sono pochi dubbi sul fatto che Roma abbia reso l’eucarestia uno dei propri emblemi, se non addirittura il suo marchio distintivo.
Il culto all’eucarestia – nella messa, nell’adorazione, nelle processioni – e la fedeltà al papa e alla gerarchia sono i due lineamenti più riconoscibili del cattolicesimo dal concilio di Trento in avanti. E tuttavia, poco si comprenderebbe della scelta delle autorità romane senza tenere conto del costante richiamo al prodigio che il sacramento ripropone e della strenua difesa del carattere misterioso e inafferrabile dell’eucarestia, a rischio, talora, di sfuggire di mano ai suoi stessi amministratori. Un pericolo – questo il punto – che la Chiesa ha ritenuto necessario correre, soprattutto se si rivela, come sui ghiacci delle Ande, la porta di accesso alle dimensioni più nascoste della natura umana.
di Matteo Al Kalak
articolo ed immagine tratti da Avvenire.it
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