Dobbiamo decidere se vogliamo che le nuove generazioni in Italia diventino le risorse principali...
Si chiamano Neet, e sono tra noi. L’acronimo di “Not engaged in education, employment or training” racconta le problematiche delle nuove generazioni. Una varietà molto eterogenea di persone dai 15 ai 29 anni, alle prese con un periodo statico della propria vita, che coincide di solito con la fine degli studi, un limbo in cui non si è ancora deciso cosa fare “da grandi”. A volte questo periodo arriva dopo la fine di un contratto di lavoro temporaneo, in attesa di trovare qualcosa di meglio, ma attraversando comunque una fase di ricerca di lavoro molto blanda.
Quando il termine Neet ha cominciato a circolare, qualche anno fa, era frainteso. Come se si trattasse di una massa di giovani bamboccioni, cullati in casa da mamma e papà, con pigrizia e poca voglia di mettersi alla prova. La realtà, oggi, è invece molto diversa, e per raccontarla l’Istituto Toniolo, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e la Fondazione Cariplo hanno organizzato il 3 e 4 novembre scorso il primo convegno sul tema, “Neeting”, invitando esperti di vario genere e imprenditori che cercano di scommettere sui Neet ogni giorno.
L’argomento è caro al professor Alessandro Rosina, sociologo e professore dell’Università Cattolica, che ne ha studiato a lungo le caratteristiche e i comportamenti: «Abbiamo cercato di capire chi sono e come vivono, non solo per l’interesse scientifico che questo può implicare, ma proprio per riuscire a dare strumenti migliori al dibattito politico, ancora molto confuso sul tema. La presenza dei Neet in Italia rappresenta un rischio per tutta la società. Sono risorse potenziali che vengono sprecate, e il fatto che nel nostro paese siano così tanti la dice lunga sull’incapacità generale delle politiche giovanili».
L’Italia è infatti uno degli Stati con la percentuale di Neet più alta, insieme a Spagna e Grecia, e con la crescita maggiore nel corso degli anni. Massimiliano Mascherini, di Eurofound, ha provato a fare un ritratto della situazione, cercando di vedere com’è mutato il fenomeno nel corso degli anni: «L’Italia ha un tasso di Neet sette volte più alto rispetto all’Olanda. Nel 2015 erano il 14,8 per cento della popolazione. Purtroppo è fondamentale il ruolo giocato dalla crisi economica, in questi stati. Nei paesi del nord dove non si è vissuto un periodo simile, infatti, la presenza dei Neet è molto più bassa». L’incidenza dei Neet nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni era del 19 per cento nel periodo prima della crisi, laddove in Europa aveva una media del 13 per cento. Nel 2014 il valore italiano è aumentato fino al 26,2 per cento, nel 2015 è leggermente diminuito al 25,7 per cento, e nei primi sei mesi del 2016 il valore è del 22,3 per cento, corrispondente a 2 milioni e 200 mila giovani.
Si comincia a parlare di Neet per la prima volta in Gran Bretagna, negli anni Novanta. Si trattava di una categoria di adolescenti, che non percepivano l’assegno di disoccupazione giovanile chiamato “youth training garantee”, ma è dal 2010 che entrano realmente a far parte dell’indicatore sociale dell’Eurostat. Oggi però i Neet non sono più solo teenager impigriti, ma una realtà eterogenea, con diverse problematiche, spiega Mascherini: «Sono lavoratori scoraggiati, reduci da contratti saltuari. Sono giovani madri che scelgono di stare a casa durante i primi anni di vita dei figli, e poi trovano difficile ricollocarsi. Sono giovani con disabilità varie per i quali è arduo trovare un impiego alla propria portata. Di tutte queste categorie, però, il 65 per cento è di genere femminile».
Tutta questa mancata produttività porta una perdita nelle casse italiane di 36 miliardi di euro, per un totale del 2 per cento del pil, ma c’è un impatto anche dal punto di vista dell’ordinamento sociale. I Neet sono infatti generalmente disinteressati alla vita pubblica, non si riconoscono nelle forze politiche in campo, e non appartenendo a nessun ordine o categoria precisa, sono di difficile contatto. Per questo Fondazione Cariplo ha pensato di andarli a stanarli lì dove si trovano tutti al giorno d’oggi, cioè su Facebook, come spiegato da Sergio Urbani, direttore generale: «Sono giovani così sfiduciati che non perdono tempo a mandare un curriculum in agenzia. Ma passano ore su Facebook, per questo abbiamo deciso di provare a rintracciarli partendo da questo canale. Mettendo un banner che li interrogava in prima persona, chiedendo “hai tra i 15 e i 29 anni, non studi e non lavori? Allora contattaci”. Nel giro di pochi giorni abbiamo ricevuto tante richieste, soprattutto da mamme e nonne di Neet, speranzose di aver trovato finalmente una risposta valida per occupare il tempo del figlio o del nipote. Questo ci ha stupito, non pensavamo che fosse così preponderante il ruolo dei familiari. Con il progetto “Neetwork” abbiamo coinvolto nel progetto tante aziende del terzo settore, circa 230 aziende, per un totale di 500 tirocini offerti, e molti ancora ne arriveranno». Per il momento il progetto è limitato alla Lombardia, ma questa regione è la terza in Italia per numero di Neet, circa 260 mila.
Il lavoro della Fondazione Cariplo è stato anche riassunto in un filmato, durante il quale quattro giovani Neet hanno raccontato quanto è cambiata la propria vita una volta usciti dal guscio. Uno di loro ha raccontato che prima di iniziare il tirocinio le sue giornate erano tutte uguali, tra il divano e il letto, e dopo qualche periodo la gioia per questa ritrovata pigrizia dopo la fine della scuola è stata soppiantata da un senso di fallimento. Ha spiegato un altro dei ragazzi della Fondazione Cariplo che il tirocinio temporaneo lo ha aiutato a sentirsi più sicuro, a capire cosa gli piacerebbe fare nella vita. Un obiettivo non da poco, ha sottolineato il professor Rosina: «Si tratta di giovani con competenze carenti, visto che la maggior parte ha un titolo di studio non superiore alla licenza media inferiore, e che vivono una condizione di disagio sociale, a rischio di una marginalizzazione permanente. Dobbiamo decidere se in Italia le nuove generazioni sono le principali vittime di un paese rassegnato al declino, già vittima della denatalità, o se vogliamo che diventino le risorse principali di un paese che vuole tornare a crescere e a tornare competitivo».
Elisabetta Longo
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