La pandemia ha scoperto una sorta di vaso di Pandora che, in realtà, in molti conoscevano ma hanno tenuto sempre lontano dai post sui social, dai tavoli del Ministero, dalle riviste e dai siti specializzati, dagli assessorati competenti, persino dalla stessa comunità scolastica a volte.
di Marco Pappalardo
La pandemia ha scoperto una sorta di vaso di Pandora che, in realtà, in molti conoscevano ma hanno tenuto sempre lontano dai post sui social, dai tavoli del Ministero, dalle riviste e dai siti specializzati, dagli assessorati competenti, persino dalla stessa comunità scolastica a volte. È la vera distanza sociale, quella creata non da un male ignoto, ma da un virus ben più diffuso da anni, già denunciato da Don Lorenzo Milani, quello di una scuola per pochi anche quando si mostra per tutti, cioè presente e distante allo stesso tempo: «Se si perde loro (gli ultimi) la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati». Certo di strada in positivo da allora se ne è percorsa, tuttavia si sente ancora la necessità del modello e dell’esperienza di Barbiana. Paradossalmente il Coronavirus ha gridato e grida che ancora “il re è nudo”! La didattica a distanza è ritenuta insufficiente e limitata anche perché rischia di lasciare indietro chi non ha la possibilità di connettersi o manca degli strumenti per farlo; se poi ciò tocca pure studenti che vivono in situazioni di disagio familiare o economico, cadere nella dispersione scolastica è certamente più facile. Prima di interrogarci su cosa si è fatto in questi mesi e cosa si può fare per arginare il problema, bisogna compiere un balzo indietro fino a metà febbraio, quando tutto si svolgeva “normalmente”. Dobbiamo essere onesti intellettualmente nell’affermare che la dispersione scolastica c’era ugualmente e i problemi di connessione o di device pure, solo che ci si faceva caso appena, poiché la presenza in aula – pur saltuaria spesso - copriva per la maggior parte quelle mancanze. Restavano questioni legate ad alcuni casi in certe scuole, cosiddette di periferia, lasciate all’impegno generoso e competente di ottimi colleghi che facevano pure da assistenti sociali. Insomma, perché a questi ragazzi non ci abbiamo pensato tutti prima ed in tempo di pace? Non era comunque grave che, nell’era di internet, fossero costretti a esserne fuori o ai margini, al massimo cibandosi delle briciole dell’uso dei social, tra l’altro senza un’educazione specifica e quindi ad altro rischio? In questi mesi sono state messe delle pezze per coprire le distanze, innanzitutto grazie ai sacrifici di molte famiglie, poi di tanti insegnanti, di associazioni di volontariato, di realtà ecclesiali, di singoli benefattori, fino a che il governo e le amministrazioni locali non hanno posto in campo persone e fondi per le istituzioni scolastiche dedicati a tal fine. Sappiamo, però, che la didattica a distanza ci accompagnerà ancora e persino alla ripresa della scuola, dunque in questi mesi non sarebbe il caso che ogni scuola censisse con moltissima cura quegli studenti che hanno mostrato difficoltà per tali ragioni, creando a stretto giro un tavolo di lavoro con le istituzioni locali per superare il problema in vista di settembre? Certo non è solo una questione di denaro e di strumenti, ma di avere un progetto e persone adeguate ed attente, non burocrati bensì educatori ed esperti nel sociale, visto che non basterebbe dare un pc e 50 giga senza prendersi cura pienamente dello studente.
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