In occasione del raduno della Consulta Mondiale della Famiglia Salesiana, tenutasi nel mese di maggio 2022 a Torino-Valdocco, mi è stato chiesto di approfondire con la Strenna per l’anno 2023, il tema della dimensione laicale della Famiglia salesiana: una famiglia che cerca di essere sempre fedele al Signore sulle “orme” di Don Bosco. Il presente commento intende rispondere a tale richiesta.
Anzitutto, desidero ricordare che la Strenna 2023 è rivolta a due gruppi di destinatari.
I primi sono gli adolescenti e i giovani di tutte le presenze della Famiglia di Don Bosco nel mondo – quali primi “destinatari” della missione salesiana. Essi, infatti, fin dalle origini sono presenti nelle case salesiane e al centro delle attenzioni di qualsiasi gruppo della nostra famiglia e devono poter conoscere – come cristiani o anche come credenti di altre religioni – la forza di questo messaggio del Signore: «essere sale della terra e luce del mondo»; essere lievito nella famiglia umana di oggi. Si tratta di un impegno molto bello, di un bel modo di vivere la propria vocazione; e, contemporaneamente, di una sfida preziosa rivolta a noi educatori, che abbiamo il compito di accompagnare i giovani nel cammino della vita, affinché essa sia vissuta all’insegna dell’impegno e della responsabilità, nella ricerca della fraternità e della giustizia per tutti e per ciascuno.
Allo stesso tempo, la Strenna è indirizzata a tutti i gruppi della Famiglia salesiana, invitati a riscoprire (o a scoprire) la dimensione laicale propria della nostra famiglia e la complementarità vocazionale che c’è e che deve esserci sempre tra di noi.
Alla luce di ciò che caratterizza maggiormente la nostra pedagogia e la nostra spiritualità, intendiamo aiutare soprattutto gli adolescenti e i giovani a scoprire che ognuno di loro è chiamato ad essere come il lievito di cui parla Gesù: il lievito buono che aiuta a far crescere e a rendere più grande e saporito il “pane” della famiglia umana. Ciascuno di loro è chiamato ad essere un vero protagonista, perché, a modo suo, è «una missione su questa terra»1.
Per la Famiglia di Don Bosco questo vuole essere un messaggio che vigorosamente la sprona nella riscoperta della sua dimensione laicale. Infatti, è una famiglia dove la maggioranza dei membri è costituita da laici: uomini e donne di numerose nazioni e distribuiti in tutti i continenti. Questa varietà che ci contraddistingue è già in sé un dono ed è una responsabilità che non possiamo eludere. Essere così ricchi di culture e così capillarmente presenti nel mondo è frutto della storia della missione e del carisma nei quali siamo stati generati e che sono dono dello Spirito. L’essere insieme come popolo di Dio (laós = popolo, da cui laico, cioè membro del popolo) per il bene dei giovani dall’Est all’Ovest del globo, dal Sud al Nord, è in piena sintonia con quanto la Chiesa chiede insistentemente da tempo, ed è ciò di cui il nostro mondo così frammentato ha sempre più bisogno.
Come consacrati e consacrate nella Famiglia Salesiana siamo ugualmente invitati a essere “lievito nella pasta del pane dell’umanità” e a vivere gli uni con gli altri, lasciandoci arricchire dalla laicità evangelica di tanti fratelli e sorelle. Con loro, infatti, condividiamo gran parte delle giornate. Pertanto, la secolarità è già nel nostro DNA di consacrati e consacrate salesiani, perché siamo stati generati nella famiglia alla quale ha dato vita Don Bosco nel primo Oratorio e che, fin dalle origini, era composta da consacrati e laici. Siamo nati con questa intensa vicinanza e condivisione tra stati di vita e vocazioni. Insomma e per dirla in breve: siamo chiamati come Famiglia a donarci e a completarci a vicenda.
Gesù disse ancora:
«A che cosa posso paragonare il Regno di Dio?
È simile al lievito, che una donna prese
e mescolò in tre misure di farina,
finché non fu tutta lievitata» (Lc 13,20-21)
Il lievito lavora silenziosamente. La lievitazione avviene nel silenzio, così come l’operare del Regno di Dio; lavora “dal di dentro”.
Chi, infatti, ha potuto ascoltare il lievito mentre agisce sulla farina e sulla pasta in cui è stato messo, mentre fa lievitare l’intera massa? Questa immagine permette di comprendere l’azione del Regno di Dio. Lo stesso apostolo Paolo presenta il Regno a partire richiamando l’essenziale: «Il Regno di Dio, infatti, non è cibo o bevanda, ma giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rom 14,17). Ebbene, questo è il modo di agire interiormente e invisibilmente dello Spirito; è il lievito messo nel cuore. E come il lievito svolge la sua azione per contatto diretto, così accade per il Vangelo.
La parabola del lievito, scelta come tematica della Strenna 2023, ha una grande saggezza evangelica e pedagogica e presenta una forte valenza educativa: esprime in modo compiuto la natura del Regno di Dio che Gesù ha vissuto ed insegnato.
Ci sono varie interpretazioni e accentuazioni possibili. La mia scelta interpretativa per la Strenna di quest’anno è di presentare il lievito come l’immagine-simbolo della fecondità e della crescita tipiche del Regno di Dio. Regno che nel cuore delle persone feconda la chiamata alla vita, la vocazione lì dove Dio ci ha piantato, orientando la missione dei laici e dell’intera famiglia di don Bosco in tutto il mondo.
«Un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta» (Gal 5,9). È sorprendente come una porzione di farina raddoppi o triplichi il proprio volume, grazie all’aggiunta di una piccola porzione di lievito. Il Signore dice che il Regno di Dio è come il lievito con cui si fa lievitare la farina impastata con cui si prepara il pane. Il lievito, come sottolinea Gesù, non l’elemento presente in grande quantità. Al contrario, se ne usa pochissimo. Ma ciò che lo distingue è di essere l’unico ingrediente vivo e, poiché è vivo, ha la forza di influenzare, condizionare e trasformare l’intera pasta.
Possiamo affermare, quindi, che il Regno di Dio è
«una realtà umanamente piccola e apparentemente irrilevante. Per entrare a farne parte bisogna essere poveri nel cuore; non confidare nelle proprie capacità, ma nella potenza dell’amore di Dio; non agire per essere importanti agli occhi del mondo, ma preziosi agli occhi di Dio, che predilige i semplici e gli umili. Certamente il Regno di Dio richiede la nostra collaborazione, ma è soprattutto iniziativa e dono del Signore. La nostra debole opera, apparentemente piccola di fronte alla complessità dei problemi del mondo, se inserita in quella di Dio non ha paura delle difficoltà. La vittoria del Signore è sicura: il suo amore farà spuntare e farà crescere ogni seme di bene presente sulla terra. Questo ci apre alla fiducia e alla speranza, nonostante i drammi, le ingiustizie, le sofferenze che incontriamo. Il seme del bene e della pace germoglia e si sviluppa, perché lo fa maturare l’amore misericordioso di Dio». 2
Nel Vangelo il Regno viene con Gesù stesso: è la sua presenza, la sua parola – lui, il Verbo fatto carne. È il suo modo di vivere con la gente, mescolandosi con persone di ogni estrazione sociale, tra cui predilige proprio coloro che altri escludono. C’è un passaggio del vangelo secondo Matteo che apre una finestra sul modo di essere Regno di Dio vissuto da Gesù.
Allora i farisei uscirono e tennero consiglio contro di lui per farlo morire.
Gesù però, avendolo saputo, si allontanò di là.
Molti lo seguirono ed egli li guarì tutti e impose loro di non divulgarlo,
perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:
«Ecco il mio servo, che io ho scelto;
il mio amato, nel quale ho posto il mio compiacimento.
Porrò il mio spirito sopra di lui
e annuncerà alle nazioni la giustizia.
Non contesterà né griderà
né si udrà nelle piazze la sua voce.
Non spezzerà una canna già incrinata,
non spegnerà una fiamma smorta,
finché non abbia fatto trionfare la giustizia;
nel suo nome spereranno le nazioni» (Mt 12,14-21).
Gesù stesso opera come lievito in mezzo alla gente più comune, tra i poveri e i malati bisognosi di guarigione.
«Ed egli guarì tutti»: è un volto “laicale” quello di Gesù, in mezzo al laos, al suo popolo, dove non c’è differenza di ceto sociale o provenienza; dove tutti sembrano essere accomunati dalla povertà e dal bisogno di aiuto. Una vulnerabilità che non Gli è estranea – come mostrano i primi versetti dove si parla della aperta ostilità dei farisei: segno premonitore della croce che si sta avvicinando e dove il suo farsi povero per arricchirci raggiungerà pieno compimento (Cfr. Gv 19,30).
«Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 4,15). L’espressione si trova 122 volte nel Vangelo e 90 volte sulle labbra di Gesù. Come ha espresso tante volte il grande teologo Karl Rahner, è evidente che al centro della predicazione di Gesù c’è il Regno di Dio. Gesù ha vissuto pienamente il Regno, dimostrando nei fatti l’amore incondizionato di Dio per gli ultimi, e il suo stile di vita viene assunto per osmosi dai dodici e continua nella prima Chiesa: «Chi crede in me anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi» (Gv 14,12).
Anche oggi riconosciamo che è tanto il bene che si fa e che cresce a tutte le latitudini, in questo Regno in costruzione. Riconosciamo altresì la presenza di tanto dolore: un’afflizione che spesso è conseguenza diretta del nostro modo di stare e di agire all’interno della famiglia umana.
Siamo chiamati ad aprire i nostri occhi e i nostri cuori al modo di agire di Dio che stabilisce il suo Regno secondo le sue vie. È sintonizzandoci con il suo modo di essere e di agire che collaboriamo con Lui, come operai nella sua vigna. Diversamente cessa di essere “di Dio” e diventa soltanto opera nostra.
L’apertura universale che ci caratterizza come Famiglia Salesiana è in piena sintonia con il Vangelo del Regno. La vicinanza a così tante e diverse comunità umane in circa il 75% dei paesi del mondo è già in se stessa un potenziale formidabile di unità e di missione. La Chiesa è formata per oltre il 99% da laici. Immaginiamo come aumenta la proporzione se si considera e se si abbraccia l’intera famiglia umana: i laici sono la pasta oltre che lievito del Regno. Come già scriveva San Giovanni Paolo II, oltre 30 anni fa, in questo vasto mondo «la missione è solo agli inizi».3
A volte il nostro contributo umano o il nostro piccolo sforzo possono sembrare insignificanti, ma sono sempre preziosi davanti a Dio. Non dobbiamo e non possiamo misurare l’efficacia o i risultati dei nostri sforzi calcolando quanto investiamo in essi, la fatica che ci richiedono, come se fossero gli unici fattori in gioco, poiché la ragione e il movente di tutto è Dio. Non perdiamoci in scuse che paralizzano la missione e la costruzione del Regno. Anche per Don Bosco l’ottimo poteva essere nemico del bene: non occorre attendere circostanze ideali per muovere un primo passo. Essere coscienti del nostro limite, liberi da trionfalismi e autoreferenzialità sterili, e allo stesso tempo pieni di fiducia, sicuri che sempre «avvi un punto accessibile al bene»4: questo è lo stile del Regno vissuto secondo il carisma salesiano.
Guardando la realtà con gli “occhi” e con il “cuore” di Dio comprenderemo che piccolezza e umiltà non significano debolezza e inerzia. È poco quello che possiamo fare di fronte al molto che ci viene richiesto. Tuttavia, mai è «non abbastanza» o irrilevante, perché è Dio che fa crescere. È la forza di Dio che viene in aiuto. Ed è Dio che alla fine accompagna il nostro impegno, i nostri sforzi, il nostro essere povero lievito nella pasta. A condizione di operare tutto e sempre nel suo nome.
«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».5
Così inizia la Costituzione Pastorale del Concilio Vaticano II Gaudium et Spes. Fra tre anni ricorderemo il 60° della sua promulgazione6. Essa ha segnato e continua a segnare l’orizzonte entro cui la Chiesa è chiamata a muoversi: un panorama così familiare per chi nella Chiesa e nel mondo porta avanti una missione come quella di Don Bosco, dove la vitalità giovanile e la compassione per chi è povero e soffre sono sempre compresenti.
È un invito a sentirci solidali ed entrare senza paura in questo tempo che ci è dato di vivere, con sfide che sembrano crescere sempre più in intensità, che sono sempre più globali e dove i primi ad esserne toccati, spesso in modo tragico, sono le fasce più giovani della popolazione.
È una spinta a scoprire il significato della propria esistenza nella consapevolezza che la mia vita non è mai isolata da quella di tutti gli altri. L’“io” e il “noi” possono esistere e vivere bene solo insieme. La parabola del lievito e la proposta di questa Strenna aiutano a sintonizzarci con l’evolversi nel tempo dei processi che disegnano la storia umana. Il lievito amalgamato con la massa del pane ha bisogno di un tempo proprio per fermentare; e anche noi abbiamo una responsabilità e un impegno nella costruzione di questa famiglia umana affinché il mondo sia più vivibile, più giusto, più fraterno.
Conosciamo il tanto bene che ci circonda, ma anche quanta è la sofferenza, l’ingiustizia, la pena che ancora attanaglia il mondo in cui viviamo, come ho già detto. Papa Francesco ci ricorda proprio questo, quando afferma:
«Ogni generazione deve far proprie le lotte e le conquiste delle generazioni precedenti e condurle a mete ancora più alte. È il cammino. Il bene, come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà, non si raggiungono una volta per sempre; vanno conquistati ogni giorno. Non è possibile accontentarsi di quello che si è già ottenuto nel passato e fermarsi, e goderlo come se tale situazione ci facesse ignorare che molti nostri fratelli soffrono ancora situazioni di ingiustizia che ci interpellano tutti».7
Cresce il grido dei poveri, la maggioranza dei quali sono bambini, adolescenti e giovani: abbiamo davanti sfide che sono tanto estese quanto prossime a quelle che troviamo alle origini della nostra missione. Siamo fatti per questo tempo non meno di quanto Don Bosco lo è stato per il suo. Sentiamo forte l’appello che viene dalla famiglia umana della quale siamo parte come singoli e come comunità; famiglia segnata e ferita dal bisogno pressante di giustizia e di dignità per gli ultimi e gli scartati8; bisognosa di pace e di fraternità9; di cura della casa comune10.
Non meno forte e radicale, cioè alla radice di ogni altro anelito, sono il bisogno di verità11 e il bisogno di Dio12.
Di fronte a questa realtà, dobbiamo essere molto consapevoli del fatto che non possiamo rimandare a domani il bene che possiamo e dobbiamo fare oggi. Siamo chiamati a essere lievito che trasforma la famiglia umana dal suo interno. È un mandato fondamentale e coincide con la nostra stessa vita, con l’essere umani: nessuno può tirarsi fuori o ritenersene escluso.
Perciò come membri della Famiglia di Don Bosco e ispirandoci alla dinamica evangelica del lievito, intendiamo approfondire e riconoscere la ricchezza dell’essere parte di questa Famiglia, umana e salesiana, dove tanti in questa famiglia di Don Bosco sono laici e laiche, e dove come consacrati dobbiamo arricchirci con questa complementarità13. L’essere laico è uno stato di vita, una vocazione che caratterizza in modo così preponderante tutte le presenze nel mondo che in vario modo si identificano o sintonizzano con la Famiglia di Don Bosco. Riconoscenti e uniti come un’autentica famiglia vogliamo valorizzare al meglio nelle diverse culture e società, il dono della loro vita, la forza della loro fede, la bellezza della loro famiglia, la loro esperienza di vita e di lavoro, il loro talento nell’interpretare e vivere il carisma e la missione di Don Bosco per i giovani e il mondo di oggi.
Le cose stanno così: il laico nella Chiesa e nella Famiglia salesiana è e sarà sempre più un cristiano impegnato che “santifica il mondo dal di dentro”.
Uno sguardo corretto e attento all’ecclesiologia proposta dal Concilio Vaticano II consente di dichiarare che oggi, soprattutto come cristiani, non possiamo accettare (e tanto meno incoraggiare) un dualismo tra sacro e profano nella realtà di un mondo che è stato creato da Dio. Sicuramente questa deriva dualista si è verificata nel momento in cui la legittima autonomia delle “cose secolari”, in contrapposizione alle cose “sacre” o religiose, non è stata adeguatamente compresa.
La Chiesa, fin dalle origini del cristianesimo e soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, ha riconosciuto chiaramente il rapporto del cristiano con il mondo in cui vive; anche in una società dove essere cristiano era ed è qualcosa di marginale.
Nella Lettera “A Diogneto” (II secolo d.C.) – a mio parere una bellissima opera della letteratura cristiana antica – è offerta una splendida descrizione del cristiano nel mondo:
«I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per il luogo in cui vivono, né per la loro lingua, né per i loro costumi. Essi, infatti, non hanno città proprie, né usano un linguaggio insolito, né conducono un tipo di vita diverso. Il loro sistema di dottrina non è stato inventato dal talento e dalla speculazione di uomini dotti, né, come altri, professano un insegnamento basato sull’autorità degli uomini.
Vivono in città greche e barbare, secondo la loro sorte; seguono i costumi degli abitanti del paese, sia nel vestire che nell’intero modo di vivere, eppure mostrano un tenore di vita ammirevole e, a detta di tutti, incredibile. Abitano nel loro paese, ma come stranieri; partecipano a tutto come cittadini, ma sopportano tutto come stranieri; ogni terra straniera è per loro una patria, ma sono in ogni patria come in una terra straniera. [...]
Per dirla in breve: i cristiani sono nel mondo ciò che l’anima è nel corpo. L’anima, infatti, è dispersa in tutte le membra del corpo; così anche i cristiani sono dispersi in tutte le città del mondo [...]»14.
È un testo magnifico e molto utile per capire la laicità cristiana che intendiamo presentare e che abbiamo indicato nel titolo della Strenna con “dimensione laicale” della vita cristiana e della nostra Famiglia salesiana.
La Famiglia salesiana di Don Bosco è chiamata oggi a vivere nel mondo come lievito, collaborando, a partire dalla propria condizione di credente, alla costruzione di un mondo migliore, ovunque siamo, indipendentemente dalla nazione, dalla cultura e dalla religione. La Chiesa ha dato un nome a questo ampio campo d’azione: indole secolare della vocazione dei laici.
«Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici […] Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro, quindi, particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore»15.
E non è meno vero che la condizione dei fedeli laici è comune a tutti, e che tutti siamo corresponsabili del Regno.
«Teologicamente, la laicità di tutta la Chiesa si comprende a partire dal significato della relazione chiesa-mondo, e dal sacerdozio comune, dalla profezia e dalla dimensione regale; ogni battezzato è membro di una chiesa che deve servire il mondo per rendere presente la volontà salvifica di Dio e il suo Regno, anche se ogni battezzato esercita o sviluppa questa laicità in modo particolare, così che c’è una diversità di ministeri e funzioni e, in una certa misura, di “presenza e situazione” nel mondo, nella storia e nella società»16.
È importante capire in cosa consiste questo “stile cristiano” come modo di essere presenti nella società, in linea con il Concilio Vaticano II17; la via da seguire per l’evangelizzazione e l’azione missionaria della Chiesa in una società in cui la religiosità non può più essere data per scontata come se fosse qualcosa di ovvio e sempre presente.
Riconoscendo l’“autonomia del profano” come un aspetto legittimo della secolarità, la teologia si preoccupa di distinguere tra l’autonomia dei compiti profani e il regno del religioso, con il diritto legittimo alla coesistenza di entrambe le realtà. In altre parole, mette in luce l’aspetto legittimo della laicità, che è molto diverso dal “secolarismo” legato a una secolarizzazione radicale nemica di tutto ciò che è religioso. Il fatto religioso nei suoi vari “credo” ha tutto il diritto di esistere e di avere la “carta di cittadinanza”. Il Concilio Vaticano II è decisivo a questo proposito:
«Molti nostri contemporanei, però, sembrano temere che, se si fanno troppo stretti i legami tra attività umana e religione, venga impedita l’autonomia degli uomini, delle società, delle scienze.
Se per autonomia delle realtà terrene si vuol dire che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza d’autonomia legittima: non solamente essa è rivendicata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore (…)
A questo proposito ci sia concesso di deplorare certi atteggiamenti mentali, che talvolta non sono mancati nemmeno tra i cristiani, derivati dal non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza, (…) Se invece con l’espressione “autonomia delle realtà temporali” si intende dire che le cose create non dipendono da Dio e che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora a nessuno che creda in Dio sfugge quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce»18.
L’antropologia cristiana deve cercare oggi, come in passato, di tradurre i valori e il messaggio di salvezza trasmessi dal Vangelo nel linguaggio delle diverse società e culture del mondo. Si tratta di armonizzare la legittima autonomia dell’uomo con la validità, l’autenticità e la coerenza della fede cristiana. Questa è la sfida per il credente, per i fedeli cristiani e per noi nella nostra missione come Famiglia di Don Bosco: rispetto per tutti, ma paura e vergogna per la nostra condizione di credenti, ¡mai e con nessuno!
La Chiesa, con la voce del Concilio Vaticano II, ci ricorda che è un grave errore separare la vita quotidiana dalla vita di fede.
«Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile ma che cerchiamo quella futura, pensano che per questo possono trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno.
A loro volta non sono meno in errore coloro che pensano di potersi immergere talmente nelle attività terrene, come se queste fossero del tutto estranee alla vita religiosa, la quale consisterebbe, secondo loro, esclusivamente in atti di culto e in alcuni doveri morali.
La dissociazione, che si costata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverata tra i più gravi errori del nostro tempo»19.
Si tratta di vivere come cristiani in un mondo che non sarà migliore senza il piccolo lievito che il cristianesimo porta al mondo creato da Dio. È dall’umiltà, ma anche dalla convinzione del valore della nostra fede, nel dialogo con società e culture diverse, che possiamo contribuire a migliorare la vita delle persone che ci circondano, rinunciando a qualsiasi logica di proselitismo o di imposizione. Per dirla con le parole di un magnifico pastore, e uomo di riflessione capace di dialogare con la cultura, il cardinale Carlo Maria Martini: «Brandire un credo, sia esso scientifico, filosofico o teologico, per far quadrare i conti imponendo una soluzione, è una premessa dolorosa per un’ideologia che è fonte di violenza»20. Ma non è nemmeno accettabile che il cristiano di tutti i tempi - e soprattutto di oggi - pratichi un comodo irenismo o un “buonismo” che riduce la coerenza, la testimonianza e l’autenticità personale e comunitaria.
E, come il lievito nella pasta passa quasi del tutto inosservato, così la nostra collaborazione all’edificazione della Chiesa e alla costruzione di una società più umana, più giusta e più conforme alla volontà di Dio, ci chiede di considerare che è più importante fare il bene rispetto al fatto che il bene che viene fatto sia attribuito a noi; la cosa più importante sarà sempre contribuire al bene della società e del mondo, anche “senza copyright”, senza confondere l’azione efficace con il protagonismo, riconoscendo anche che il bene fatto dagli altri vale almeno quanto il nostro. Se non ne siamo convinti, rileggiamo il passo del Vangelo in cui il Signore corregge i suoi discepoli per aver cercato di fermare il bene che gli altri facevano, anche se non erano del “loro gruppo”.
Dobbiamo esercitarci a fare una lettura credente della realtà che includa gli altri, promuovendo il dialogo con gli altri, con la cultura, con i media, con gli intellettuali, con chi la pensa diversamente e anche in opposizione a noi. Sono le abitudini virtuose che il nostro modo di stare nel mondo richiede, lo “stile cristiano e salesiano” che possiamo portare alla visione del mondo e delle cose.
Questo stile ci permetterà di intrecciare relazioni con altre persone consacrate, con altri ministri ordinati, con altri fedeli laici, con altri cristiani e con altri uomini e donne di altre religioni. Sembra che questo sia un buon modo di essere «chiamati a contribuire, quasi dall’interno come lievito, alla santificazione del mondo». Un modo di fare che ci mette in sintonia con «la vocazione universale alla santità nella Chiesa». E poiché la Chiesa è coinvolta nel mondo nella duplice dimensione trascendente e immanente, ogni cristiano deve essere segno del Regno di Dio già presente nella storia umana. Se la pietà e la devozione, la vita di preghiera e la vita sacramentale sottolineano il profilo trascendente di questa santità, l’impegno sociale a favore della giustizia e della fratellanza umana sottolinea, per noi, la dimensione cristiana immanente. Come Don Bosco, viviamo con i piedi per terra e gli occhi fissi al cielo. In questo senso, un membro qualificato della nostra Famiglia salesiana ci ha offerto la propria riflessione vitale di laico nel mondo e nella Famiglia di Don Bosco, definendo i laici credenti nella Chiesa e nella Famiglia di Don Bosco come quegli uomini e quelle donne dalla triplice appartenenza: appartenere a Cristo, appartenere alla Chiesa e appartenere al mondo21.
Papa Francesco, nel bellissimo incontro che abbiamo avuto con lui in occasione della canonizzazione di Artemide Zatti, nel presentarlo come “parente di tutti i poveri”, ci ha ricordato che fa parte della nostra vocazione salesiana essere educatori del cuore, preparando le persone, soprattutto i giovani, al mondo di oggi:
«Così un ospedale è diventato la “Locanda del Padre”, segno di una Chiesa che vuole essere ricca di doni di umanità e di Grazia, dimora del comandamento dell’amore di Dio e del fratello, luogo di salute quale pegno di salvezza. È vero anche che questo entra nella vocazione salesiana: i salesiani sono i grandi educatori del cuore, dell’amore, dell’affettività, della vita sociale; grandi educatori del cuore»22.
Portare nella Chiesa e nel mondo il dono del carisma laicale vissuto nella Famiglia salesiana è una risposta vocazionale che ci porta ad essere presenti come segni e testimoni, in dialogo e offrendo l’umile servizio di ciò che siamo per il bene comune.
È dalla e nella stessa vita laicale, che in molti casi passa attraverso la specifica vocazione in famiglia e dalla professionalità nel mondo, che i laici, e in particolare i laici cristiani, i laici della famiglia di Don Bosco, sono chiamati a stabilire, promuovere e sostenere i valori evangelici nella società e nella storia, contribuendo alla consacratio mundi, alla consacrazione del mondo, all’instaurazione del Regno di Dio qui e ora.
San Francesco di Sales, del quale abbiamo appena terminato le celebrazioni in occasione del quarto centenario dalla morte, è uno dei profeti più singolari e fecondi nella storia della Chiesa in grado di illuminare la grandezza della vocazione di ognuno. Così è stato per tanti laici di ogni estrazione sociale che lui ha personalmente accompagnato, aiutandoli a fiorire nel giardino in cui sono stati posti dal Signore, fino alla santità piena. San Francesco di Sales rimane una fonte di ispirazione sempre nuova e insostituibile per chi si riconosce come “salesiano”, qualunque sia il suo stato di vita.
Nella recente Lettera Apostolica che Papa Francesco ha offerto a tutte le famiglie religiose che si rifanno al carisma di San Francesco di Sales, è messa in evidenza l’importanza della spiritualità che il Santo ginevrino proponeva ai suoi tempi e che oggi è di estrema attualità nella teologia dei laici.
«Quasi tutti quelli che hanno trattato della devozione si sono interessati di istruire persone separate dal mondo o, perlomeno, hanno insegnato un tipo di devozione che porta a questo isolamento. Io intendo offrire i miei insegnamenti a quelli che vivono nelle città, in famiglia, a corte, e che, in forza del loro stato, sono costretti, dalle convenienze sociali, a vivere in mezzo agli altri»23.
È per questo che sbaglia molto chi pensa di relegare la devozione a qualche ambito protetto e riservato. Piuttosto, essa è di tutti e per tutti, ovunque siamo, e ciascuno la può praticare secondo la propria vocazione. Come scriveva San Paolo VI nel quarto centenario della nascita di Francesco di Sales:
«La santità non è prerogativa dell’uno o dell’altro ceto; ma a tutti i cristiani è rivolto il pressante invito: “Amico, sali più in alto” (Lc 14,10); tutti sono vincolati dall’obbligo di salire il monte di Dio, anche se non tutti per la stessa via. “La devozione dev’essere esercitata in modo diverso dal gentiluomo, dall’artigiano, dal cameriere, dal principe, dalla vedova, dalla giovane, dalla sposa. Ancor più, la pratica della devozione deve essere adattata alle forze, agli affari e ai doveri di ognuno”»24.
Attraversare la città secolare, custodendo l’interiorità, coniugare il desiderio di perfezione con ogni stato di vita, ritrovando un centro che non si separa dal mondo, ma insegna ad abitarlo, ad apprezzarlo, imparando anche a prendere le giuste distanze da esso: questo era il suo intento e continua a essere una lezione preziosa per ogni donna e uomo del nostro tempo.
È questo il tema conciliare della vocazione universale alla santità:
«Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e di una tale grandezza, tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste»25.
“Ognuno per la sua via”.
«Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili». La madre Chiesa ce li propone non perché cerchiamo di copiarli, ma perché ci spronino a camminare sulla via unica e specifica che il Signore ha pensato per noi. «Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui (Cfr. 1 Cor 12,7)»26.
La Chiesa, «insieme di coloro che sono chiamati» stando al significato originario del termine, vive grazie alla ricchezza di ogni vocazione che la definisce. Ogni chiamata è a servizio di tutte le altre e soltanto nel donarsi riesce a esprimere e ritrovare la sua piena identità. I doni non sono proprietà privata ed esclusiva di un gruppo. Come battezzati tutti partecipiamo del sacerdozio di Cristo, della profezia e della regalità di Lui che è venuto per servire e dare la vita. Il ministero ordinato si comprende soltanto come un servizio al sacerdozio comune di tutti i fedeli. Così pure quanto è tipico della condizione laicale è un dono per tutti che entra nella vita e nella chiamata di ogni altro membro dell’unico corpo di Cristo. La “dimensione secolare” è quindi condivisa anche da chi appartiene alla vita consacrata o al ministero ordinato: la storia di don Bosco ce ne offre una splendida evidenza. Don Bosco è un prete della diocesi di Torino che fonda due congregazioni di consacrati e consacrate, e altre due associazioni laicali; e con tutti loro, e con tanti altri che sa coinvolgere, si immerge intensissimamente nel “secolo” in cui vive, nella vita e nei problemi di centinaia di migliaia di giovani, superando senza paura grandi difficoltà e confini, con una fecondità che ispira oggi milioni di persone – al di là delle differenze nazionali, culturali, religiose.
Essere cristiano ed essere laico apre la via per far fruttificare al massimo della intensità il talento laicale, secolare, impegnandolo nella infinita ricchezza di possibilità che si aprono a chi vive nel mondo animato da fede, speranza e carità. Il Concilio Vaticano II lo ha proclamato con chiarezza:
«Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro, quindi, particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore»27.
Non è compito del commento alla Strenna definire tutti gli ambiti e le realtà di vita in cui la presenza dei laici è trasformante e può diventare quel lievito del Regno di Dio che nessun altro potrebbe “impastare” con la stessa efficacia e capillarità. In ogni caso, nella Chiesa i laici hanno uno spettro ampio e complesso di potenzialità e di sfide, di situazioni da affrontare che sono al contempo altrettanti appelli per chi desidera essere «sale della terra e luce del mondo». Entrare nella concretezza del “dove”, del “quando” e del “come” è il cammino aperto davanti ad ogni persona e ad ogni gruppo, secondo la sua indole specifica. Un cammino che la Strenna di quest’anno invita e spinge a riprendere, intensificare, fare proprio con coraggio e generosità rendendo attuale il messaggio della Chiesa stessa quando dice:
«Agli occhi illuminati dalla fede si spalanca uno scenario meraviglioso: quello di tantissimi fedeli laici, uomini e donne, che proprio nella vita e nelle attività d’ogni giorno, spesso inosservati o addirittura incompresi, sconosciuti ai grandi della terra ma guardati con amore dal Padre, sono gli operai instancabili che lavorano nella vigna del Signore, sono gli artefici umili e grandi - certo per la potenza della grazia di Dio - della crescita del Regno di Dio nella storia».28
Non c’è alcun dubbio che per tutti i laici della Famiglia salesiana di oggi – e per i consacrati e le consacrate che vivono giorno per giorno arricchiti dalla loro vocazione e complementarietà – il mondo, la società, l’economia e la politica, l’azione sociale a servizio degli altri, la vita cristiana nella quotidianità sono e devono essere sempre un luogo teologico di incontro con Dio:
«Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice [dei laici] è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia; così pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della comunicazione sociale; ed anche di altre realtà particolarmente aperte all’evangelizzazione, quali l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza. Più ci saranno laici penetrati di spirito evangelico, responsabili di queste realtà ed esplicitamente impegnati in esse, competenti nel promuoverle e consapevoli di dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana spesso tenuta nascosta e soffocata, tanto più queste realtà, senza nulla perdere né sacrificare del loro coefficiente umano, ma manifestando una dimensione trascendente spesso sconosciuta, si troveranno al servizio dell’edificazione del Regno di Dio, e quindi della salvezza in Gesù Cristo»29.
Don Bosco è stato capace di coinvolgere così tante persone, facendole diventare protagoniste attive e intraprendenti dello stesso sogno di salvezza per i giovani. Don Giulio Barberis ha annotato con cura quanto Don Bosco ha detto rivolgendosi ai giovani più grandi dell’Oratorio la sera della festa di San Giuseppe, il 19 marzo 1876, poco più di cinque mesi dopo la partenza dei primi missionari per la Patagonia. Riferendosi al campo e alla vigna delle parabole evangeliche e forte della sua personale esperienza di vita contadina, aiuta i giovani a Valdocco a comprendere come tutti possono fare la loro parte, sempre preziosa e importante, per la crescita del Regno di Dio. È un esempio tanto laico quanto evangelico ed ecclesiale di come siamo chiamati a far fruttare i nostri talenti insieme, ciascuno secondo la sua storia di vita, capacità e chiamata. Così, don Barberis riprende le parole di don Bosco, che ci sembreranno senza dubbio della massima rilevanza teologica:
«Il divin Salvatore, e voi lo capite a sufficienza, per campo o vigna che gli stava d’attorno intendeva di parlare della Chiesa e di tutti gli uomini del mondo; la messe da farsi consiste nella salvezza delle anime, ché tutte le anime devono esser raccolte e portate nel granaio del Signore; oh quanto copiosa è questa messe; quanti milioni d’uomini sono su questa terra! quanto lavoro sarebbe ancora a farsi per ottenere che tutti si salvino; ma operarii autem pauci, gli operai son pochi.
Per operai che lavorano nella vigna del Signore s’intendono tutti coloro che in qualche modo concorrono alla salvezza delle anime. E, notate bene, che operai qui non s’intendono solo, come alcuno può credere, i sacerdoti, predicatori e confessori, che certo più di proposito son posti a lavorare e più direttamente s’affaticano a raccoglier la messe, ma essi non son soli, né essi basterebbero. Operai son tutti quelli che in qualche modo concorrono alla salvezza delle anime; come operai nel campo non son solo quelli che raccolgono il grano, ma anche tutti gli altri.
Guardate in un campo, questa varietà di operai. Vi è chi ara, chi dissoda la terra; altri che colla zappa l’aggiusta; chi col rastrello o randello rompe le zolle e le appiana; altri getta la semente, altri la copre; chi toglie poi l’erba cattiva, la zizzania, il loglio, la veccia; chi sarchia, chi sradica, chi taglia; altri poi innaffia a tempo opportuno ed incalza; altri invece miete e fa manipoli e covoni e borle - in dialetto piemontese significa il cumulo dei covoni -, e chi carica sul carro e chi conduce; chi stende, chi batte il grano; chi separa il grano dalla paglia; altri lo avaccia - raduna insieme -, lo purga, lo vaglia, lo mette nella sacca, lo porta al molino e qui da vari si rende in farina; poi chi lo buratta - burattare è termine arcaico per setacciare -, chi l’impasta, chi l’inforna.
Vedete miei cari, quanta varietà d’operai si richiede prima che la messe possa riuscire al suo scopo a ridarci cioè pane eletto del paradiso. Come nel campo, così nella Chiesa, c’è bisogno d’ogni sorta d’operai, ma proprio di tutti i generi; non c’è uno il quale possa dire: ‘Io benché tenga condotta irreprensibile, sarò buono a niente nel lavorare a maggior gloria di Dio’. No, non si dica così da nessuno; tutti possono in qualche modo far qualche cosa»30.
Siamo nati carismaticamente come comunità e come comunione di persone di differente estrazione sociale, stato di vita, profilo professionale… uniti dalla stessa missione e motivati dalla stessa carica carismatica che Don Bosco sa comunicare31. Questa è la natura dell’Oratorio negli anni della sua fondazione, dal 1841 al 1859: (18 anni!), nei quali si rispecchia ancora fortemente questa sinergia di popolo di Dio che in vario modo coopera per fare dei giovani più a rischio «buoni cristiani e onesti cittadini». È innegabile il fatto che siamo nati fin da subito come insieme di popolo di Dio: è la natura del nostro carisma e della nostra missione.
Sono molto consapevole – e cerco di trasmettere questa coscienza a tutta la nostra Famiglia salesiana – di un fatto particolarmente evidente: soltanto insieme, soltanto vivendo in comunione potremo fare qualche cosa di significativo oggi.
Ho lanciato un forte appello a tutta la Congregazione salesiana riguardante la nostra missione condivisa con i laici – appello che serve a tutta la Famiglia di don Bosco – e non ascoltarlo condurrebbe, in un futuro non molto lontano, ad un punto di pericoloso non ritorno.
Ho dichiarato:
«Il nostro CG24 è stato certamente una risposta carismatica all’ecclesiologia di comunione del Vaticano II. Sappiamo bene che Don Bosco, fin dall’inizio della sua missione a Valdocco, ha coinvolto tanti laici, amici e collaboratori in modo che fossero partecipi della sua missione tra i giovani. Da subito egli “suscita condivisione e corresponsabilità da parte di ecclesiastici, laici, uomini e donne”32. Si tratta, dunque, nonostante le nostre resistenze, di un punto di non ritorno, perché, oltre a corrispondere all’agire di Don Bosco, il modello operativo della missione condivisa con i laici proposto dal CG24 è di fatto “l’unico praticabile nelle condizioni attuali”»33.
Abbiamo così un punto di non ritorno per il bene di chi decide e ha deciso di entrare in questo stile di missione, formazione, vita condivisa che apre nuovi orizzonti di futuro per il carisma di Don Bosco in piena sintonia con il cammino che la Chiesa sta portando avanti con la guida di Papa Francesco, senz’altro profetico ed esemplare.
Allo stesso tempo c’è anche un altro pericoloso e rischioso non ritorno di chi invece non riesce o non vuole varcare questa soglia e si chiude in forme di isolamento autoreferenziale: non più al passo con i tempi nel modo di vivere e interpretare la presenza salesiana, e destinate a diventare irrilevanti e ad estinguersi col passare degli anni.
L’obiettivo ultimo della missione di Don Bosco è, assieme alla salvezza dei suoi ragazzi, la trasformazione della società. L’ampia e coraggiosa visione di Don Bosco, la sua operosità instancabile, la sua resilienza di fronte agli ostacoli… si spiegano solo con questo orizzonte di trasformazione sociale e di evangelizzazione dei giovani su scala mondiale.
Don Bosco non fa politica ma può parlare con tutti i rappresentanti dei vari livelli di governo perché il suo impegno è limpidamente orientato verso il bene dei giovani, dei quali nessuno che ha a cuore la società umana e il servizio agli altri – come è e dovrebbe essere anche il servizio pubblico per il bene di tutti – può disinteressarsi.
Dunque, la nostra voce comune può trovare accesso e ascolto ben oltre i confini confessionali se insieme incarniamo oggi quello stesso zelo di predilezione per i giovani che ci è stato dato come carisma e che non possiamo realizzare se non insieme come Famiglia di don Bosco.
La complementarità delle vocazioni nella famiglia di don Bosco, l’essere uniti come Famiglia salesiana, e uniti con il grande numero di laici e laiche delle presenze del mondo, insieme nella missione e nella formazione, diventa un’esigenza ineludibile oggi e tanto più in futuro, se non si vuole rimanere irrilevanti.
E la comunione nello spirito di famiglia e all’interno del vasto movimento salesiano è il grande dono che possediamo come preziosa eredità.
Nella mia lettera a conclusione del Secondo Seminario per la promozione delle Cause di Beatificazione e Canonizzazione della Famiglia Salesiana, scrivevo:
«Da Don Bosco fino ai nostri giorni riconosciamo una tradizione di santità a cui merita dare attenzione, perché incarnazione del carisma che da lui ha avuto origine e che si è espresso in una pluralità di stati di vita e di forme. Si tratta di uomini e donne, giovani e adulti, consacrati e laici, vescovi e missionari che in contesti storici, culturali, sociali diversi nel tempo e nello spazio hanno fatto brillare di singolare luce il carisma salesiano, rappresentando un patrimonio che svolge un ruolo efficace nella vita e nella comunità dei credenti e per gli uomini di buona volontà»34.
Con umiltà e profondo senso di gratitudine, riconosciamo nella Famiglia salesiana un grande albero con tanti frutti di santità. Si tratta di uomini e donne, giovani e adulti che hanno colmato loro vita con il lievito dell’amore, amore che si dona fino in fondo, fedele a Gesù Cristo e al suo Vangelo.
L’ecclesiologia mostra, come sappiamo, che le diverse vocazioni hanno una comune radice battesimale e sono destinate a contribuire alla crescita del popolo di Dio:
«Nella Chiesa-Comunione gli stati di vita sono tra loro così collegati da essere ordinati l’uno all’altro. Certamente comune, anzi unico è il loro significato profondo: quello di essere modalità secondo cui vivere l’eguale dignità cristiana e l’universale vocazione alla santità nella perfezione dell’amore. Sono modalità insieme diverse e complementari, sicché ciascuna di esse ha una sua originale e inconfondibile fisionomia e nello stesso tempo ciascuna di esse si pone in relazione alle altre e al loro servizio»35.
Tale prospettiva indica che il carisma salesiano è completo quando la vocazione e la missione sono vissute nella reciprocità e complementarità delle diverse chiamate. Proprio questo dovrebbe essere il senso profondo della Famiglia Salesiana: un vasto movimento apostolico per la salvezza dei giovani.
È interessante notare che, tra i 173 Santi, Beati, Venerabili, Servi di Dio della nostra Famiglia, 25 sono laici che hanno incarnato il carisma salesiano in famiglia, nella casa salesiana, nella vita secolare, nella professione, spazio privilegiato della testimonianza cristiana, e in contesti sociali, storici e culturali diversi tra loro. Ritengo molto opportuno ricordarli come testimonianza all’interno del commento di questa Strenna:
Tra queste numerose e variegate figure di santità vorrei indicarne altre che ci offrono una testimonianza significativa e originale di santità laicale e che, a mio avviso, mostrano quell’aspetto poliedrico, cioè ricco di aspetti, lati, forme e colori, della vita laicale vissuta in contesti diversi, in secoli diversi, con vocazioni diverse, ma piena di semplice santità nel quotidiano. Quella santità laica della “porta accanto” che ci farà sempre tanto bene scoprire. Mi fermo a contemplare:
Sappiamo come Don Bosco agli inizi dell’oratorio, dopo aver pensato e ripensato come uscire dalle difficoltà, andò a parlarne col proprio parroco di Castelnuovo, esponendogli la sua necessità e i suoi timori. «Hai tua madre! – rispose il parroco senza esitare un istante – falla venire con te a Torino». Mamma Margherita giunse a Valdocco nel novembre del 1846, e per dieci anni fu la madre per centinaia di ragazzi. Nel 1846 era aperto solo l’oratorio, e i ragazzi vi affluivano soprattutto alla domenica. Le Memorie Biografiche parlano di almeno 800 frequentanti. Lungo la settimana, ogni sera, dopo il lavoro in città, venivano i giovanotti della scuola serale. Gli schiamazzi si possono immaginare. Le classi occupavano la cucina e la camera di Don Bosco, la sacrestia, il coro, la cappella. Voci, canti, andirivieni, ma non si poteva fare altrimenti. Mamma Margherita era là con loro. Certo venivano sacerdoti e anche laici ad aiutare Don Bosco e alcune donne vennero in seguito a dare una mano. Ma solo Mamma Margherita era sempre là, a tempo pieno. Questa sua disponibilità la rendeva cara a tutti, ed era quindi venerata da quanti la conoscevano. Fin dal principio che venne in Torino, appena fu conosciuta dai cittadini dei vicini quartieri, non fu chiamata con altro nome che con quello di “mamma”.
Qui, per dieci anni, la sua vita si confonde con quella del figlio e con gli inizi dell’opera salesiana: è la prima e principale cooperatrice di Don Bosco; con bontà fattiva diventa l’elemento materno del sistema preventivo. Illetterata – ma piena di quella sapienza che viene dall’alto – fu anche l’aiuto per tanti poveri ragazzi della strada, figli di nessuno; ha messo Dio, prima di tutto, consumandosi per Lui in una vita di povertà, di preghiera e di sacrificio.
«Io sono operaio, sono nato da genitori che pure lo erano. Ho vissuto e vivo nell’ambiente di strettezza e di lavoro delle classi umili e sento correre nelle mie vene, esacerbate a volte dal fuoco dell’entusiasmo giovanile, una protesta, un’energica protesta, contro coloro che credono che non siamo uomini come loro perché abbiamo avuto la disgrazia – o forse la sorte – di nascere nella povertà, di usare il camice da lavoro e avere le mani ruvide e callose. Però chiariamo i concetti: sono operaio e sono cattolico». Chi parla così è un giovane di 19 anni, di professione fabbricatore di sedie, seggiolaio, al comizio dell’Azione Popolare il 5 novembre 1933 a Pozoblanco (Spagna); un giovane retto e coraggioso, con un’intelligenza non comune, di umili origini, di condizione operaia, difensore dei diritti del popolo e della Chiesa.
Nato a Pozoblanco (Cordoba, Spagna) il 25 dicembre 1914, perde la mamma nell’epidemia detta “spagnola”. Orfano anche di padre a dodici anni, deve lasciare la scuola e mettersi a lavorare da seggiolaio. Quando nel settembre 1930 arrivano a Pozoblanco i Salesiani, Bartolomé frequenta l’oratorio e aiuta come catechista e animatore. Trova in don Antonio do Muiño un direttore che lo spinge a continuare la sua formazione intellettuale, culturale e spirituale attraverso la partecipazione ai circoli di studio. Questo salesiano sarà, fino alla prematura morte di Bartolomé, suo confessore e guida spirituale. È apprezzato da parenti, amici, compagni per il suo ingegno, l’impegno apostolico, l’attitudine di leader. Più tardi entra nell’Azione Cattolica, di cui è segretario e dove dà il meglio di sé. Trasferitosi a Madrid per specializzarsi nell’apostolato fra gli operai presso l’Istituto Sociale Operaio, si distingue come oratore eloquente e studioso della questione sociale. Ottenuta una borsa di studio, può conoscere attraverso un viaggio organizzato dall’Istituto Sociale Operaio le organizzazioni operaie cattoliche di Francia, Belgio e Olanda. Nominato delegato dei sindacati cattolici, nella provincia di Cordoba ne fonda otto sezioni.
Quando esplode la rivoluzione, il 30 giugno 1936, Bartolomé ritorna a Pozoblanco e si mette a disposizione della “Guardia Civile” per la difesa della città, che dopo un mese si arrende all’altra fazione in guerra. Accusato di ribellione viene portato in carcere, dove continua ad avere un comportamento esemplare: «Per meritarsi il martirio, bisogna offrirsi a Dio come martiri!». Viene processato e condannato a morte a Jaén il 29 settembre. Dopo la sentenza, mantenendo la calma e difendendosi con dignità, dice: «Avete creduto di farmi un male e invece mi fate un bene perché mi cesellate una corona».
Le lettere che scrive alla famiglia e alla fidanzata alla vigilia della morte ne sono una chiara prova: «Lascia che questa sia la mia ultima volontà: perdono, perdono e perdono; ma indulgenza, che voglio sia accompagnata facendo tutto il meglio possibile. Quindi vi chiedo di vendicarmi con la vendetta del cristiano: ricambiando con il bene coloro che hanno cercato di farmi del male», scrive alle zie e ai cugini.
E alla sua fidanzata, Maruja: «Quando mi restano poche ore per il riposo finale, voglio solo chiederti una cosa: che in ricordo dell’amore che abbiamo avuto l’uno per l’altro e che in questo momento aumenta, ti occupi della salvezza della tua anima come obiettivo principale, perché così potremo incontrarci in cielo per tutta l’eternità, dove nessuno ci separerà».
I suoi compagni di prigionia hanno conservato i dettagli emozionanti della sua partenza per la morte: a piedi nudi, per assomigliare più da vicino a Cristo. Quando gli mettono le manette ai polsi, bacia le mani del miliziano che gliele mette. Non accetta, come gli propongono, di essere fucilato alla schiena. «Chi muore per Cristo, disse, deve farlo frontalmente e con il petto nudo. Viva Cristo Re!» e cade con le braccia aperte a forma di croce, crivellato di colpi accanto a una quercia. È il 2 ottobre 1936. Non aveva ancora 22 anni. È stato beatificato a Roma il 28 ottobre 2007.
Nasce a Milano il 3 febbraio 1913. Si distingue fin dai primi anni per la sua grande passione per l’oratorio salesiano Sant’Agostino e, già sui diciotto anni, per la sua dedizione ai giovani che lo frequentano. Per decenni è un solerte catechista ed un animatore costante e geniale, con tanta semplicità ed allegria. Cura la liturgia, la formazione, il gioco, il tempo libero, il teatro. Ama Dio con tutto il cuore e trova nella vita sacramentale, nella preghiera e nella direzione spirituale la risorsa per la vita di grazia. Durante il servizio militare che inizia nel 1934 e termina, con fasi alterne, nel 1945 dimostra senso apostolico tra i suoi compagni. È impiegato nell’industria della Pirelli a Milano dove pure diffonde allegria e buon umore, con il più profondo senso del dovere. Il 6 maggio 1944 si sposa con una catechista, Noemi D’Avanzo. Avranno tre figli: Piergiorgio, Mariagrazia, Paola. Nella propria famiglia è marito e padre ricco di grande fede e serenità, in una voluta austerità e povertà evangelica a vantaggio dei più bisognosi. Senza nulla togliere alla famiglia, fa dell’oratorio la sua seconda famiglia, mettendo a servizio dei ragazzi la ricca inventiva ed una straordinaria arte educativa. D’accordo con la moglie Noemi, parte per il Mato Grosso (Brasile) per condividere la scelta dei figli nell’impegno missionario. Il 18 dicembre 1972, nel corso di una riunione, dopo aver parlato con entusiasmo e con ardore del dovere di dare la vita per gli altri, improvvisamente si sente venir meno. Fa appena in tempo a dire al figlio: «Pier, continua tu» e muore stroncato da un infarto. È venerabile dal 9 ottobre 2013.
La sua vita di cristiano, apostolicamente impegnato, ha preso un orientamento così deciso e personale da scoprire (son tutte frasi sue): “La gioia di servire Cristo”; “non essere dei buoni alla buona”; “Vivere nel mondo senza essere del mondo”; “Andare controcorrente”; “Non cercare, ma dare”; “È necessario vivere ciò che si vuol far vivere”. Questa maturazione cresce nelle diverse fasi della sua vita: da adolescente, da giovane militare, da soldato sul fronte militare greco-albanese, come risulta dal suo “Diario di guerra”. Anche la scelta della fidanzata Noemi Davanzo è motivata da ragioni di fede, come le scrive in una lettera: «Il Signore, avvicinandomi a voi, mi pose innanzi agli occhi il vostro amore e spirito di dedizione verso i prediletti del Salvatore, fu questa la molla superiore, che mi spinse a chiedervi per compagna».
La fede di Attilio è così grande da essere davvero “segno” della presenza di Dio: in famiglia, all’oratorio, nella comunità parrocchiale e per quanti lo incontrano: una fede che più che proclamata, traspare dalle sue azioni e dal suo modo di essere: «La misura del nostro credere si manifesta nel nostro essere».
Nata a Roma il 28 gennaio 1923, visse e studiò a Savona dove conseguì l’abilitazione magistrale. A 21 anni, durante una improvvisa incursione aerea sulla città (1944), venne travolta e calpestata dalla folla in fuga, riportando conseguenze gravi per il suo fisico che da allora rimase segnato per sempre dalla sofferenza. Passò inosservata nella sua breve vita terrena, insegnando nelle scuole dell’entroterra ligure, dove si guadagnò la stima e l’affetto di tutti per il suo carattere buono e mite. A Savona, nella parrocchia salesiana di Maria Ausiliatrice, partecipava alla Messa ed era assidua al sacramento della Penitenza. Salesiana Cooperatrice dal 1967, realizzò la sua chiamata nel dono totale di sé al Signore, che in modo straordinario si donava a lei, nell’intimo del suo cuore, con la “Voce”, con la “Parola”, per comunicarle l’Opera dei Tabernacoli Viventi. Sotto l’impulso della grazia divina e accogliendo la mediazione delle guide spirituali, Vera Grita rispose al dono di Dio testimoniando nella sua vita, segnata dalla fatica della malattia, l’incontro con il Risorto e dedicandosi con eroica generosità all’insegnamento e all’educazione degli allievi, sovvenendo alle necessità della famiglia e testimoniando una vita di evangelica povertà. Morì il 22 dicembre 1969, a 46 anni, in una cameretta dell’ospedale a Pietra Ligure.
Vera Grita attesta anzitutto un orientamento eucaristico totalizzante, che si fa esplicito soprattutto negli ultimi anni della sua esistenza. Non ha pensato in termini di programmi, di iniziative apostoliche, di progetti: ha accolto il “progetto” fondamentale che è Gesù stesso, fino a farne vita della propria vita. Il mondo odierno attesta un grande bisogno di Eucaristia.
Il suo cammino nella faticosa operosità dei giorni offre anche una nuova prospettiva laica alla santità, divenendo esempio di conversione, accettazione e santificazione per i “poveri”, i “fragili”, i “malati” che in lei possono riconoscersi e ritrovare speranza.
Come Salesiana Cooperatrice, Vera Grita vive e lavora, insegna e incontra la gente con una spiccata sensibilità salesiana: dall’amorevolezza della sua presenza discreta ma efficace alla sua capacità di farsi amare da bambini e famiglie; dalla pedagogia della bontà che attua con il suo costante sorriso alla generosa prontezza con cui, incurante dei disagi, si volge di preferenza agli ultimi, ai piccoli, ai lontani, ai dimenticati; dalla generosa passione per Dio e la Sua Gloria alla via della croce, lasciandosi togliere tutto nella sua condizione di malata.
Exallievo di Don Bosco è il primo pakistano di cui è in corso il processo di Beatificazione e Canonizzazione. Il 15 marzo 2015 si sacrificò per impedire che un attentatore suicida provocasse una strage nella chiesa di San Giovanni a Youhannabad, quartiere cristiano di Lahore, in Pakistan. Akash Bashir aveva 20 anni, aveva studiato all’Istituto Tecnico Don Bosco di Lahore ed era diventato un volontario della sicurezza.
Ciò che più colpisce è come questo giovane semplice sia stato forte nell’affrontare il male e nel combattere la violenza omicida. La frase pronunciata verso l’attentatore prima di morire – “Morirò, ma non ti lascerò entrare in chiesa” – esprime una fede forte e un coraggio eroico nel testimoniare un amore senza misura. Il vangelo di quella IV Domenica di Quaresima (15 marzo 2015) annunciava le parole di Gesù a Nicodemo: «Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,20-21). Akash ha sigillato con il suo sangue di giovane cristiano queste parole. Ha lottato corpo a corpo con il potere della morte, dell’odio e della violenza e ha fatto trionfare la luce e la verità. Ha lavato il vestito bianco con il sangue dell’Agnello rendendolo splendente (cf. Ap 7,14).
Il contatto con il mondo e il carisma salesiano ha rafforzato in Akash quelle disposizioni di bontà e generosità che aveva appreso nella sua famiglia e nella comunità cristiana. Akash Bashir è un esempio di santità per ogni cristiano, un esempio per tutti i giovani cristiani del mondo. Ed è senza dubbio un segno carismatico evidente del sistema educativo salesiano. Akash è la voce di tanti giovani coraggiosi che riescono a dare la loro vita per la fede nonostante le difficoltà, la povertà, l’estremismo religioso, l’indifferenza, la disuguaglianza sociale, la discriminazione. La vita e il martirio di questo giovane pakistano ci fa riconoscere la potenza dello Spirito Santo di Dio, vivo, presente nei luoghi meno attesi, negli umili, nei perseguitati, nei giovani, nei piccoli di Dio.
Era certamente un religioso consacrato, ma non si può non rimanere colpiti dalla dimensione laicale della sua santità, vissuta nell’esercizio quotidiano della carità nella semplicità di un piccolo ospedale e di un piccolo villaggio. Egli è un esempio e un modello di consacrazione al suo popolo nel lavoro sacrificato e paziente, avendo Dio come fonte, motivazione nella fede e obiettivo unico e ultimo della sua vita.
La loro vita, la vita di tutti loro e il loro esempio sono come «lievito nella pasta» che continua a far crescer e il Regno dentro di noi e accanto a noi.
I laici danno l’humus alla crescita della fede36. Questa espressione di Benedetto XVI ci ricorda come grazie alla fede e all’impegno nell’evangelizzazione di tanti laici, di sposati, di famiglie, di comunità cristiane il cristianesimo si radica e si sviluppa nel mondo. Per la grazia del Battesimo, la fede cresce e si diffonde.
Analogamente anche i testimoni laici della santità salesiana sopra ricordati e moltissimi altri della porta accanto hanno dato e danno l’humus alla crescita del carisma salesiano. Questa compagnia dei santi ci ricorda che prima delle opere e dei ruoli è la qualità delle relazioni umane il luogo privilegiato dell’annuncio del Vangelo e della fioritura del carisma.
Tali testimonianze ci ricordano la chiamata universale alla santità, tanto cara sia a san Francesco di Sales – come già abbiamo detto – sia al nostro Padre della Famiglia Salesiana, Don Bosco, quando proponeva ai giovani dell’oratorio e al ceto popolare la meta della santità come traguardo aperto a tutti, facile da percorrere e orientato a una felicità senza fine.
Tutto questo avendo vicino Maria Ausiliatrice, Colei che ha accolto Gesù nel suo seno verginale e per questo è Madre, Maestra e Guida della fede, in modo particolare nell’accompagnamento delle giovani generazioni nel loro cammino verso la santità. La vita di tutti loro e il loro esempio sono come “lievito per il pane”.
Desidero concludere il messaggio della Strenna di quest’anno con un’ultima parola che si rivolge ai nostri giovani e al cammino che vogliamo fare insieme, perché anche loro vogliono accompagnarci come noi vogliamo accompagnare loro:
«Vogliamo dirvelo forte, con tutto il cuore. Essere qui per noi è stato un sogno che si è fatto realtà: in questo luogo speciale che è Valdocco, dove è iniziata la missione salesiana, insieme salesiani e giovani per la missione salesiana, con la nostra comune volontà di essere santi insieme. Avete i nostri cuori nelle vostre mani. Prendetevi cura di questo vostro prezioso tesoro. Per favore, non dimenticatevi mai di noi e continuate ad ascoltarci. Torino, 7 marzo 2020»37.
In effetti, i giovani si preparano alla vita, noi li accompagniamo in questo cammino, e non ho dubbi che un servizio molto grande che renderemmo a loro, alla società e alla Chiesa è quello di aiutarli a prendere coscienza del ruolo sociale che devono svolgere e per il quale devono prepararsi. Per questo sono anche i primi a imparare che sono chiamati a essere quel lievito nella famiglia umana.
Nel prepararmi alla stesura di questo commento, ho deciso di cercare e leggere, proprio per questa sezione finale della Strenna, qualche tratto di ciò che gli ultimi tre pontefici - San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco - hanno detto ai giovani, perché ero certo che i loro messaggi sarebbero stati abbondanti e molto potenti. Ed è così che mi sembrano: così attuali, così puntuali e, oserei dire, così “salesiani”. E allo stesso tempo voglio affermare fortemente quanto sia vasto, esteso e impegnativo il compito che i giovani hanno davanti a sé nella Chiesa e nel mondo. Se accettano la sfida di essere veramente giovani di oggi, attivi nel loro impegno cristiano e sociale e vero “lievito” nella famiglia umana.
Papa Giovanni Paolo II, tre anni prima della sua morte, in uno dei suoi discorsi propose, otto grandi sfide che sono autentiche proposte38 di vita e di impegno cristiano, sociale e politico per i giovani che vogliono raccogliere sfide significative. In realtà, si tratta di otto sfide che alcuni studiosi riducono a una sola che potrebbe essere espressa in questo modo: mettere l’essere umano al centro dell’economia e della politica. Il compito è questo: la difesa della vita umana in ogni situazione; la promozione della famiglia e l’eliminazione della povertà (con la riduzione del debito, la promozione dello sviluppo e l’apertura di un commercio internazionale equo); la difesa dei diritti umani e il lavoro per garantire il disarmo (riduzione della vendita di armi e consolidamento della pace una volta terminati i conflitti); la lotta contro le principali malattie e l’accesso per tutti ai farmaci più necessari; la salvaguardia della natura e la prevenzione delle catastrofi naturali; infine, l’applicazione rigorosa del diritto e delle convenzioni internazionali.
A sua volta, nella lettera enciclica sullo sviluppo umano integrale, Caritas in veritate39, Papa Benedetto XVI elenca le sfide attuali che sono urgenti ed essenziali per la vita del mondo e nelle quali i giovani di oggi possono impegnarsi, come ad esempio: l’uso delle risorse della terra, il rispetto dell’ecologia, la giusta distribuzione dei beni e il controllo dei meccanismi finanziari, la lotta contro la fame nel mondo, la promozione della dignità del lavoro, la solidarietà umana con i Paesi più poveri, il servizio alla cultura della vita, il dialogo interreligioso e la costruzione della pace tra i popoli e le nazioni.
Infine, Papa Francesco propone una serie di compiti impegnativi che abbiamo come cristiani e che attendono i giovani che vogliono assumerli e impegnarsi in essi con la loro fede e il loro impegno, poiché molti altri giovani soffrono di tali violenze ed estorsioni. Tra i suoi diversi scritti (encicliche, esortazioni apostoliche e messaggi ai giovani)40, vorrei ricordare quanto segue: ci sono contesti di guerra terribili e dolorosi (e non posso non citare la guerra ingiusta contro il popolo ucraino, che tutti conosciamo perché dura ormai da undici mesi); ci sono molte persone e giovani che soffrono per la violenza che si manifesta in molti modi diversi: rapimenti, estorsioni, criminalità organizzata, traffico di esseri umani, schiavitù e sfruttamento sessuale, crimini di guerra, ecc. Alcuni bambini sono costretti a diventare soldati, a far parte di bande armate e criminali, a essere coinvolti nel traffico di droga. Non pochi bambini e adolescenti sono ridotti in schiavitù nel commercio sessuale e nella tratta. E non mancano persone e giovani emarginati e persino martirizzati a causa della loro etnia o del loro credo. Il dolore della migrazione (in situazioni disumane) e la piaga della xenofobia non possono essere dimenticati41. Lo scarto di persone in tutto il mondo, il razzismo e la violazione dei diritti umani universali sono altre realtà di un mondo in cui c’è anche tanto dolore42.
Siamo consapevoli che tutto questo e molto altro colpisce questa famiglia umana in cui vogliamo essere lievito, sale e luce43? Si potrebbe dire che questa è una visione pessimistica? No, per niente. Lo stesso Papa Francesco cita tanti progressi che esistono oggi, ma che vanno di pari passo con un “deterioramento dell’etica”:
«Con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb non ignoriamo gli sviluppi positivi avvenuti nella scienza, nella tecnologia, nella medicina, nell’industria e nel benessere, soprattutto nei Paesi sviluppati. Ciò nonostante, “sottolineiamo che, insieme a tali progressi storici, grandi e apprezzati, si verifica un deterioramento dell’etica, che condiziona l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità. Tutto ciò contribuisce a diffondere una sensazione generale di frustrazione, di solitudine e di disperazione […]. Nascono focolai di tensione e si accumulano armi e munizioni, in una situazione mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi”. Segnaliamo altresì “le forti crisi politiche, l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali. […] Nei confronti di tali crisi che portano a morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani - a motivo della povertà e della fame -, regna un silenzio internazionale inaccettabile»44.
Questa realtà è un’opportunità per tutti noi, ma in modo particolare per i giovani, di sentire la chiamata del Signore a vivere la propria vita cristiana e anche salesiana (all’interno della famiglia di Don Bosco) come un grande compito.
Questo compito e questa sfida erano già stati richiamati da Papa Paolo VI alla fine del Concilio Vaticano II con un messaggio rivolto ai giovani in cui diceva:
«È a voi, giovani e fanciulle del mondo intero, che il Concilio vuole rivolgere il suo ultimo messaggio. Perché siete voi che raccoglierete la fiaccola dalle mani dei vostri padri e vivrete nel mondo nel momento delle più gigantesche trasformazioni della sua storia. Siete voi che, raccogliendo il meglio dell’esempio e dell’insegnamento dei vostri genitori e dei vostri maestri, formerete la società di domani: voi vi salverete o perirete con essa.
[…] E costruite nell’entusiasmo un mondo migliore di quello attuale!»45.
Questa richiesta che viene a tutti noi per essere veramente lievito nella famiglia umana, oggi la rivolgo con profonda convinzione a tutti voi, cari giovani. Queste sfide chiedono che con la vostra vita, la vostra formazione, i vostri studi, il vostro lavoro e la vostra vocazione diciate un sì o un no al vostro impegno per costruire un mondo più giusto e fraterno. Queste sfide vi pongono di fronte al bivio di accettare o rifiutare una vita impegnativa ed entusiasmante in cui mettere tutte le vostre forze ed energie secondo il sogno di Dio per ciascuno di voi.
E di certo non vi è chiesto nessun eroismo particolare, straordinario, ma solo - ma è già molto - di far fruttare i propri doni e talenti dati da Dio a ciascuno di voi, impegnandovi a crescere nella fede, nell’Amore vero, nella fraternità e nel servizio a favore di tutti, soprattutto degli ultimi, di coloro che sono più colpiti dalla vita, di coloro che hanno meno opportunità.
Mi sembra una proposta preziosa per ogni giovane cristiano e salesiano che voglia essere discepolo missionario del Signore oggi, e anche una sfida e una proposta di tale dignità e portata che, senza alcun pudore, può essere offerta a qualsiasi giovane che voglia vivere in pienezza la propria condizione umana, sia che sia cristiano o che professi altri credi religiosi o che cerchi di vivere di un umanesimo essenziale e autentico, e allo stesso tempo vi porti a vivere fuori dalle “zone di comfort” che, come sirene con i loro canti, possono cullarvi nel sonno.
Ho fatto riferimento all’umanesimo e vorrei concludere in modo esplicito con un cenno a questo “umanesimo salesiano” con il quale possiamo educare a tutti i giovani di tutte le nazioni del mondo nelle presenze salesiane perché
«per don Bosco significava valorizzare tutto il positivo radicato nella vita delle persone, nelle realtà create, negli eventi della storia. Ciò lo portava a cogliere gli autentici valori presenti nel mondo, specie se graditi ai giovani; a inserirsi nel flusso della cultura e dello sviluppo umano del proprio tempo, stimolando il bene e rifiutandosi di genere sui mali; a ricercare con saggezza la cooperazione di molti, convinto che ciascuno ha dei doni che vanno scoperti, riconosciuti e valorizzati; a credere nella forza dell’educazione che sostiene la crescita del giovani e lo incoraggia a diventare onesto cittadino e buon cristiano; ad affidarsi sempre e comunque alla provvidenza di Dio, percepito e amato come Padre»46.
Concludo ringraziando al Signore per tanta vita bella e piena nella nostra Famiglia salesiana al servizio del Vangelo, chiedendo al Signore per tutta la Chiesa e per noi come parte della stessa chiesa di accettare il gioioso compito di evangelizzare, perché «da Cristo è stata inviata a rivelare e a comunicare la carità di Dio a tutti i popoli»47.
La nostra Madre Ausiliatrice aiuti tutti noi ad essere discepoli-missionari, piccole stelle che riflettono la sua luce. E preghiamo perché i cuori si aprano a riceve gioiosamente l’annuncio di salvezza che è Dio stesso in Gesù.
Don Ángel Fernández Artime, S.D.B.
Rettor Maggiore
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1 EG, 273; ChV, 25.
2 Francesco, Angelus, Roma 14 giugno 2015.
3 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio, Roma 7 dicembre 1990, n. 40.
4 MB V, 367.
5 GS, 1.
6 La Costituzione è stata promulgata in occasione della celebrazione dei vespri della Solennità dell’Immacolata Concezione, il 7 dicembre 1965.
7 FT, 8 e 11.
8 Cfr. FT, 15-17; 18-21; 29-31; 69-71; 80-83; 124-127;234.
9 Cfr. FT 88-111; 216-221; ChV 163-167.
10 Cfr. tutta l’Enciclica Laudato Si’.
11 Cfr. LF 23-25; FT 226-227.
12 Cfr. LF 1-7; 35; 50-51; 58-60.
13 Cfr. J.E. Vecchi, La famiglia salesiana compie venticinque anni, in M. Bay (a cura di), Educatori appassionati esperti e consacrati per i giovani. Lettere circolari ai Salesiani di don Juan E. Vecchi, LAS, Roma 2013, 137.
14 Lettera a Diogneto (Cap. 5-6; Funk 1, 317-321).
15 LG, 31. L’esortazione apostolica Christifideles laici (1988), sintetizza molto bene che è compito di tutti i battezzati, anche se in modi diversi, essere lievito nel mondo: «Le immagini evangeliche del sale, della luce e del lievito, pur riguardando indistintamente tutti i discepoli di Gesù, trovano una specifica applicazione ai fedeli laici. Sono immagini splendidamente significative, perché dicono non solo l’inserimento profondo e la partecipazione piena dei fedeli laici nella terra, nel mondo, nella comunità umana; ma anche e soprattutto la novità e l’originalità di un inserimento e di una partecipazione destinati alla diffusione del Vangelo che salva» (Cfr. ChL 15).
16 R. Berzosa, «¿Una teología y espiritualidad laical?», Revista Misión Abierta, (mercaba.org/fichas/laico).
17 Cfr. C. Theobald, La fede nell’attuale contesto europeo. Cristianesimo come stile, Queriniana, Brescia 2021, 96-146.
18 GS, 36.
19 GS, 43.
20 Cfr. C. M. Martini, Los movimientos en la Iglesia, LEV, 1999, p. 156 (nostra traduzione italiana).
21 Cfr. A. Boccia, Credenti Laici nella Chiesa e nella Famiglia di Don Bosco. Uomini e donne delle tre appartenenze, Edizione privata.
22 Francesco, Discorso ai Salesiani convenuti per la canonizzazione del Beato Artemide Zatti, Roma 8 ottobre 2022.
23 S. Francesco di Sales, Introduction à la vie dévote, I,1: ed. Ravier – Devos, Paris 1969, 23 (nostra traduzione in lingua italiana).
24 Paolo VI, Epist. Ap. Sabaudiae gemma, nel IV centenario della nascita di san Francesco di Sales, dottore della Chiesa (29 gennaio 1967), in AAS 59 (1967), 119.
25 LG, 11.
26 Francesco, Lettera Apostolica Totum amoris est, nel IV Centenario della morte di San Francesco di Sales, LEV, Città del Vaticano 2022, 32-34.
27 LG, 31. Faccio notare che l’indicazione in corsivo e in grassetto è una mia scelta, proprio per evidenziare il tema che questo commento alla Strenna 2023 intende sottolineare in modo specifico.
28 ChL, 17.
29 EN, 70.
30 ISS, Fonti salesiane, 1. Don Bosco e la sua opera, LAS, Roma 2014, 716-717.
31 J.E. Vecchi, o.c., 140-142.
32 CG24, n. 71.
33 CG24, n. 39.
34 A. Fernández Artime, Lettera del Rettor Maggiore a conclusione del II Seminario di promozione delle Cause di Beatificazione e Canonizzazione della Famiglia Salesiana, Roma aprile 2018.
35 ChL, 55.
36 Benedetto XVI, Catechesi del 7 febbraio 2007.
37 CGXXVIII, Quali salesiani per i giovani di oggi? Lettera dei giovani ai capitolari, Allegato 3, p. 146.
38 Giovanni Paolo II, Discorso agli ambasciatori dei paesi accreditati presso la Santa Sede, Roma 10 gennaio 2002.
39 Cf. Benedetto XVI, Lettera Enciclica Caritas in Veritate, Roma 29 giugno 2009.
40 Cf. ChV, 72-74; Cf. FT, 25.
41 FT, 38-40.
42 Ibid, 18-24.
43 Vorrei sottolineare in modo molto significativo quanto il Rettor Maggiore Don Pascual Chávez ha scritto sulla Famiglia Salesiana nella difesa della vita, in tutti i suoi sensi e in tutte le sue dimensioni. Si tratta di un elenco molto ricco del nostro impegno attuale (che coinvolge anche i giovani): Cfr. Chávez, P., Ami tutte le cose e niente detesti di ciò che hai fatto… Signore amante della Vita. (Sap 11, 24.12,1), in Id., Lettere circolari ai salesiani (ACG 396 (2006) Lettera 019), LAS, Roma 2021, 604-605, 609-617.
44 FT, 29 che cita anche il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore Romano 4-5 febbraio 2019, p.6.
45 Paolo VI, Messaggio ai giovani, Roma 8 dicembre 1968.
46 P. Chàvez, Come don Bosco educatore, offriamo ai giovani il Vangelo della gioia attraverso la pedagogia della bontà. Strenna 2013 (ACG 415 (2013) Lettera 038, o.c., 1240-1241.
47 Ad Gentes, 10.
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