C'è vocazione e vocazione... (2' Parte)

Tre interventi sul tema vocazionale, per «mettere in un ordine ragionato le idee che si rifanno a tale ambito semantico affinché la pastorale ne possa guadagnare in incisività e significatività». (2' Parte)

C'è vocazione e vocazione... (2' Parte)

 

LA VOCAZIONE ALL’AMORE

 

In conclusione dunque, il termine vocazione indica, analogicamente parlando, la situazione antropologica fondamentale per cui l’uomo è chiamato a vivere una vita fatta di donazione di sé. Egli è dunque in primo luogo un “chiamato all’amore”.

 

Ovviamente non si tratta ancora del significato specifico del termine, ma in ogni caso è indice del fatto che il tema vocazionale fa parte di diritto della pastorale e concorre ad illuminare l’identità stessa della persona.

 

Chiarito il fatto che la persona ha come vocazione fondamentale il dovere di donare se stessa, a causa della responsabilità contratta dalla ricezione del dono della vita, a questo punto non ci resta che entrare nello specifico, o meglio nel concreto realizzarsi di questa vocazione all’amore che contraddistingue ogni persona, per individuare in questo modo il significato fondamentale, l’analogato principale del termine in questione.

 

 

 

La concretezza dell’amore

 

Parlare di amore oggi ha il grosso difetto di lasciare purtroppo indefinita la propria concretezza.

 

La riduzione dell’amore a puro sentimento individuale (per questo insondabile e automaticamente giustificato) è probabilmente la piaga più grossa che l’amore cristiano deve combattere.

 

Nessuno si misura con la definizione di cosa sia l’amore, perché per definirlo occorre decidere della sua concretezza: quali gesti sono amore e quali no, a quali condizioni, con quale oggettività e soprattutto con quale metro di misura. Fare una cosa del genere sembra sempre più, anche nel nostro linguaggio comune, irrealizzabile; d’altronde, come proverbialmente si dice, “all’amore non si comanda!”.

 

Si è ormai svuotata la parola amore dei gesti di cui è costituita! Si richiama il valore, ma non si indica più come metterlo in pratica, oppure si lascia che ognuno decida come fare, con la conseguenza che anche i gesti più in contraddizione tra loro sembrano essere posti sotto la stessa stella.

 

Contraddicendo questa tendenza, il cristianesimo pone con rocciosa fermezza il duplice comandamento dell’amore, comandamento assoluto e necessario per la salvezza, da cui dipende la vita e la morte di ognuno.

 

La testimonianza di Gesù è perentoria: la vocazione all’amore che tutti contraddistingue deve essere vissuta come forma del dono di sé, quindi secondo la forma di vita data dall’eucaristia. Questo è l’unico modo per essere non solo cristiani, ma addirittura umani.

 

Il sacrificio eucaristico, che celebra il memoriale del dono della vita di Gesù, diventa al tempo stesso la fonte inestinguibile a cui ogni uomo può attingere perché il sacrificio di Cristo possa compiersi e riprodursi nella propria vita.

 

Per questi motivi, la comunità cristiana, come germe, esempio, sostegno, porzione dell’intera umanità salvata e illuminata dal sacrificio di Cristo, trova la sua origine, ma anche la sua massima espressione, nella celebrazione sacramentale del sacrificio di Cristo, massima rivelazione del suo amore umano e divino.

 

Possiamo così affermare con certezza che la vocazione all’amore che contraddistingue ogni uomo, è vocazione alla partecipazione allo stesso mistero di Cristo, alla piena conformazione a lui.

 

Questa conformazione, che trova la sua pienezza nella celebrazione eucaristica, ha però la sua prima possibilità di realizzarsi nella recezione del sacramento del battesimo: l’azione per cui Cristo, nella Chiesa e attraverso la mediazione testimoniale del suo corpo mistico, ci forma come figli di Dio a sua immagine e somiglianza.

 

Eccoci dunque giunti a definire quello che sembra essere il primo significato specifico del termine vocazione: essa è innanzitutto la chiamata di ogni uomo al battesimo, ossia alla piena conformazione a Cristo nella Chiesa per la salvezza propria e di tutti.

 

Questo significa che, in termini propri, il vocato per eccellenza, ossia il termine di confronto di ogni vocazione, ma anche il termine insuperabile di ogni santità personale è semplicemente il battezzato. Non c’è nessuna ulteriorità a questo in senso qualitativo. Non ci sono vocazioni ulteriori migliori o più perfette dell’essere conformati a Cristo. Il laico cristiano è colui che vive nella Chiesa la sua esistenza umana nella stessa forma in cui l’ha vissuta Gesù Cristo.

 

 

Eletti e chiamati ad essere Figli nel Figlio

 

Questa vocazione è per tutti gli uomini. Ancora una volta ciò significa che nel nostro agire pastorale la vocazione non può essere corpo estraneo: è semplicemente, se così si può dire, l’essere conformati a Cristo nella comunità ecclesiale.

 

In realtà però, proprio questa prima definizione di vocazione ci fa capire come essa non possa venire definita come semplice conseguenza di una pastorale ben condotta.

 

Una buona animazione vocazionale non può essere scevra di un annuncio coraggioso, una proposta personale decisa e un costante accompagnamento personale. Questi tre elementi risultano essere essenziali per la comprensione e il conseguimento da parte del vocato della propria vocazione. La vocazione infatti, ossia la chiamata all’essere cristiano, pur apparendo come il compimento “naturale” dell’essere uomo o donna, non può dimenticare di essere pur sempre un compimento eccedente e salvifico.

 

A partire dal peccato di Adamo, la conformazione di noi uomini sull’esatta immagine e somiglianza di Gesù è infatti perennemente intrecciata con la lotta contro il peccato e la concupiscenza, che conferisce in questo modo alla chiamata cristiana la caratteristica dell’inaudito, oltre che dell’assolutamente non conseguibile con le proprie forze. Inoltre, pur corrispondendo al desiderio dell’uomo, l’essere cristiani è per tutti, anche per i santi, anche per Maria, molto oltre, molto eccedente rispetto al desiderio umano, proprio perché pone l’uomo e la donna sulla stessa misura di Dio.

 

Ecco che dunque la vocazione è contemporaneamente e tensionalmente compimento di ciò che l’uomo è, e richiesta alla libertà personale di essere lasciata condurre, in obbedienza allo Spirito, ben oltre il luogo in cui l’uomo può autonomamente aspirare di giungere. Senza un chiaro annuncio di tale meta, senza una proposta personale e decisa che metta il singolo di fronte a tanta benevolenza divina nei suoi confronti e senza un preciso accompagnamento personale, sarebbe impossibile per una semplice creatura raggiungere quelle mete che la vocazione divina gli propone.

 

Ancora una precisazione importante: esistono varie forme di essere laico nella Chiesa, sono tutte vocazioni?

 

Iniziamo ad addentrarci nel significato dell’essere laico. Esso è in primo luogo una personale conformazione a Cristo e, in modo assolutamente intrecciato e necessario, una appartenenza al corpo ecclesiale, come membra vive del Christus totus.

 

Questo significa che la vocazione laicale comprende e trova la sua massima espressione nell’essere in comunione e nel fare comunione con Cristo e con gli altri laici nella Chiesa.

 

Dal punto di vista antropologico esiste un modo naturale di fare comunione, che corrisponde in pieno alla natura dell’uomo e della donna e che la Chiesa ha da sempre assunto come proprio, tanto da “dedicarvi” un sacramento specifico: tale comunione è il matrimonio.

 

Proseguendo questo ragionamento potremmo dire che se nella Chiesa non esiste la vocazione al single, perché tutto ciò che è Chiesa è comunione, la comunione principale degli uomini è anche il modo principale di realizzare la vocazione ecclesiale, ossia l’essere sposi e famiglia.

 

I racconti della creazione nell’antico testamento e i discorsi di Gesù nei vangeli confermano questa idea: la vocazione dell’uomo è intrecciata a filo doppio all’“unite e moltiplicatevi”, e l’essere immagine di Dio significa non separare ciò che Dio stesso ha unito.

 

 

Chiamati a fare comunione perché Dio è comunione

 

Tornando al centro del nostro ragionamento possiamo dunque affermare che il battesimo segna una netta separazione rispetto al puro dato etnico e biologico, una decisa elezione da parte di Dio: l’entrata nella condizione cristiana. Esso è la prima e principale vocazione dell’uomo: l’essere figli di Dio. In questo modo il battesimo viene a compiere, nel senso evangelico del termine, ciò che già Adamo ha da sempre vissuto: la chiamata a formare una coppia, ossia una comunione di persone a “immagine di Dio”.

 

Per questo l’elezione al battesimo è elezione al matrimonio, che resta la forma fondamentale e principale della vita di ogni cristiano, pur non essendo la vita laicale concretamente vissuta da tutti i cristiani.

 

Se lo stato di vita del cristiano inaugurato nel battesimo è uno stato di comunione fondato da Cristo, il quale per eccellenza si è donato alla Chiesa e attraverso di essa al mondo, questo stato comunionale non è senza relazione al mistero della creazione dell’uomo e della donna e dunque al mistero della loro unione sponsale. Cristo, il quale non è venuto a dissolvere le opere della creazione, ma a dare ad esse il vero compimento, innalza a modello per la sua relazione con la Chiesa l’unione sponsale dell’uomo e della donna, consacrando tale unione espressamente come tratto distintivo del Nuovo Testamento. In questo modo le relazioni tra uomo e donna nel matrimonio e quella tra Cristo e la Chiesa divengono così strette che i due misteri possono essere compresi soltanto l’uno attraverso l’altro.

 

L’unione tra uomo e donna non è niente di accidentale o di aggiuntivo per la persona umana, essa fa parte dell’essere uomo e donna nella sua intima identità, tanto che ogni narrazione biblica sull’uomo integrale e perfetto comprende l’unione e la comunione delle diversità tra uomo e donna, ma questa unione è proprio a “immagine di Dio”. Diventa così chiaro che l’identità del matrimonio non dipende semplicemente dalla “naturalità” dei sentimenti umani, o addirittura dalla condizione peccatrice in cui l’uomo si trova, ma viene da più lontano e mira più lontano. Cristo nel portare a compimento ogni cosa compì anche il matrimonio, riempiendolo di un contenuto di grazia che trae la sua origine dal mistero di Dio e trova il suo compimento nel mistero della croce, mistero di comunione e di fecondità, di dedizione e di unione indissolubile.

 

La condizione del battezzato è però condizione viatrice, storica, ossia condizione di colui che, pur essendo già chiamato al matrimonio, deve ancora compiere un cammino di sviluppo personale e di coppia. Per questo fatto l’entrata nella condizione matrimoniale del battezzato è segnata da un sacramento particolare che concorre a definirne la nuova identità e a specificarne la condizione di fronte al coniuge, alla Chiesa e a Dio.

 

Il matrimonio è, evidentemente, un istituto che non incomincia “cronologicamente” con Gesù, ma con Adamo. D’altra parte la fede ci insegna che Adamo ha un intimo legame con Gesù, perché l’uomo, fin dall’inizio, è creato in Cristo, ovvero tutto quanto possiede di creaturale ha un’intrinseca struttura filiale. Ciò significa che l’uomo può essere se stesso solo consegnandosi a Gesù e ricevendo in dono da lui la sua più propria identità; può conoscere il senso radicale dei suoi affetti, compreso quello coniugale, soltanto se gli viene rivelato.

 

Per questo la rivelazione di Gesù conferisce la piena identità e il più autentico significato anche al vincolo coniugale.

 

Ora se il matrimonio è un sacramento e se il sacramento è in sostanza l’azione propria di Gesù Cristo per unire a sé gli uomini e così costruire la Chiesa, da ciò consegue che il matrimonio è una “funzione” del Regno di Dio, ossia è orientato alla sua costituzione perché rende presente, e quindi attua, storicizza, l’amore di Gesù Cristo per la sua Chiesa.

 

Una volta chiarito il senso del matrimonio come sacramento, ovvero come celebrazione attraverso cui Gesù Cristo unisce a sé gli uomini, introducendoli nel Regno, è necessario cogliere la relazione fondamentale che esso ha con il sacramento per eccellenza: la celebrazione eucaristica, in cui mediante il dono di sé Cristo compie in modo eminente la sua comunione con Dio Padre e con gli uomini e in cui abilita l’uomo alla stessa comunione vitale.

 

Per questo la concezione cristiana del matrimonio è tutta orientata dall’Eucaristia, che esige e rende possibile all’uomo il dono totale della propria vita in conformità e in comunione con il dono di sé fatto da Gesù, che nel “fate questo in memoria di me” ci lascia il compendio della sua dottrina e il comandamento principale. Lì dove l’uomo e la donna sono chiamati a decidere radicalmente del loro amore, l’Eucaristia illumina e rende possibile la forma adeguata che deve assumere la loro decisione: il dono di sé. E questo è esattamente il sacramento del matrimonio, che propone l’amore coniugale come oblazione di sé, cioè come donazione incondizionata della propria vita a quella del coniuge. Si tratta evidentemente di una forma altissima e umanamente “insostenibile” di amore, che gli sposi possono assumere soltanto in forza dell’azione sacramentale del Signore e non con la sola forza della propria volontà o del proprio “umano” amore.

 

Si può, pertanto, affermare che la stessa “carità” dell’eucaristia alimenta la carità del matrimonio; la stessa “grazia” dell’eucaristia opera nel matrimonio; lo stesso “Spirito” dell’eucaristia anima e vivifica il matrimonio.

 

In base a quello che finora abbiamo suggerito sul sacramento del matrimonio, potremmo formulare questa definizione: il sacramento del matrimonio è la celebrazione attraverso cui il Cristo Risorto, con il dono dello Spirito, dà forma eucaristica all’amore sponsale di un uomo e di una donna, abilitandoli a donare la vita l’uno per l’altra in un legame indissolubile e fecondo che contribuisce all’edificazione della Chiesa.

 

Al termine di questo ragionamento possiamo dunque affermare che soltanto analogicamente il matrimonio può essere definito vocazione. Esso è vocazione in quanto è attualizzazione dell’identità del battezzato, ma non nel senso di essere una chiamata specifica ulteriore rispetto all’essere battezzato stesso.

 

Per questa stessa ragione occorre anche affermare che ogni forma in cui il laicato cristiano si può svolgere e attualizzare, non è vocazione in senso specifico, ma è vocazione in senso analogo, ossia nel senso che è la forma concreta in cui la vita di quel laico attualizza la propria santità personale e specifica, ma nulla aggiunge, dal punto di vista oggettivo, alla vocazione all’essere Christifideles laici.

 

«La vocazione alla santità dev’essere percepita e vissuta dai fedeli laici, prima che come obbligo esigente e irrinunciabile, come segno luminoso dell’infinito amore del Padre che li ha rigenerati alla sua vita di santità. Tale vocazione, allora, deve dirsi una componente essenziale e inseparabile della nuova vita battesimale, e pertanto un elemento costitutivo della loro dignità. Nello stesso tempo la vocazione alla santità è intimamente connessa con la missione e con la responsabilità affidate ai fedeli laici nella Chiesa e nel mondo» (ChL 17).

 

Il modo in cui tale santità si sviluppa nella vita di ognuno è assolutamente personale, segnato da molteplici fattori, non ultimo il fatto di svolgersi in un mondo peccatore e viatore, dunque imperfetto e ancora bisognoso di salvezza, ma in ogni caso, la vocazione resta sempre la stessa: è la vocazione battesimale.

 

 

Alberto Martelli

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